Guido Guidi il fotografo sa con gli occhi
Tra i primi contributi teorici sulla fotografia pubblicati in Italia a fine anni Settanta è da ricordare Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari edito da Punto e virgola, Modena, 1979. Dopo aver pubblicato i primi libri fotografici di autori contemporanei, la giovane casa editrice fondata da Luigi Ghirri, si dedica, con questo saggio, anche alle riflessioni teoriche in ambito fotografico. Vaccari, artista concettuale e poeta visivo, si concentra sull’atto fotografico, concepito come momento e parte di un sistema più ampio delle tecnologie artistiche, insistendo sulla fotografia in qualità di “luogo egemonico della lettura del mondo e della sua verità” come sosteneva il filosofo e semiologo Roland Barthes ed esamina, tra i saggi più importanti e significativi, quello di Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) per spingersi ad analizzare alcuni testi di linguistica di De Saussure e di linguistico-strutturalista di Jean Baudrillard sino alle teorie strutturaliste e post strutturaliste di Barthes e Foucault. Vaccari sviluppa il concetto di “inconscio tecnologico” richiamando quello di “inconscio ottico” formulato da Benjamin il quale sosteneva che la fotografia aveva contribuito a sovvertire i sistemi percettivi legati alla capacità del mezzo di registrare automaticamente e meccanicamente la realtà. Attraverso punti di vista insoliti, la fotografia, rende inoltre possibile numerose e infinite variabili estetiche, dettate dal mezzo e dai suoi procedimenti e materiali fotosensibili. Il saggio di Vaccari si inserisce in una realtà artistica attenta e sensibile agli aspetti linguistici del mezzo artistico, in particolare della fotografia. Le Verifiche di Ugo Mulas, iniziate nel 1968 e concluse nel 1972, sono una testimonianza in tal senso. L’Arte Concettuale introduce l’idea che anche il processo mentale e linguistico possono essere essi stessi “arte” senza necessariamente concludersi in un’opera tradizionalmente intesa.
Questa breve puntualizzazione teorica degli anni Settanta ci fornisce la chiave di lettura della mostra e dell’opera di Guido Guidi dal titolo: Guido Guidi. Col tempo, 1956-2024, a cura di Simona Antonacci, Pippo Ciorra, Antonello Frongia al MAXXI- Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma. Fin dagli esordi, attorno al 1956, scrive Antonello Frongia nel saggio nel ponderoso volume edito dal museo MAXXI e da Mack, Guidi mostra già un interesse per il concetto di forma e documento che, a suo modo di vedere, sono inscindibili. Nel suo percorso formativo Guidi incontra Italo Zannier, fotografo, docente universitario al DAMS di Bologna, promotore della cultura fotografica italiana, e Luigi Veronesi che introduce Guidi alle sperimentazioni fotografiche del Bauhaus, in particolare di Laszlo Moholy-Nagy con cui era in contatto epistolare. Le lezioni di Zannier, incentrate su “esercitazioni di grammatica della fotografia”, avevano lo scopo di introdurre il linguaggio fotografico tramite i procedimenti e le pratiche dell’Ottocento, di sperimentare i diversi strumenti di ripresa e di conoscere la materia costituita dalle carte fotosensibili, dalle pellicole, dalle ottiche e infine dalla luce. Le esercitazioni permettevano di misurare, attraverso i tempi di esposizione, la percezione delle forme e di sviluppare un concetto personale di traduzione della realtà tridimensionale in un foglio di carta bidimensionale e i colori dell’oggetto in un’immagine in bianco e nero. Guidi si rese conto delle infinite possibilità e variabili del linguaggio fotografico, soprattutto del potenziale del mezzo che dettava, senza ombra di dubbio, il proprio “codice linguistico” lasciando poco spazio all’immaginazione. In uno dei suo testi afferma: “Il problema è quello di affrontare il mondo con la camera, uno strumento che è maleducato, che ha le sue leggi e vuole andare per conto suo. Questa maleducazione ci permette di fare anche delle fotografie maleducate, di uscire dal galateo delle regole estetiche. Ma bisogna trovare il modo di assecondare la camera, o se si vuole di controllarla come si farebbe con un cavallo o con un gatto che volete addomesticare. Non si può capire lo strumento se andate contro le sue regole, lo si capisce se si va nella sua direzione. Molte volte questo vuol dire scegliere. Con una macchina di piccolo formato non posso fotografare insieme una formica su un muro e il prato davanti alla casa. Devo adattarmi a questi limiti, ma se non conosco questi limiti non posso fotografare. Per questo devo esercitarmi, esercitarmi, esercitarmi, fino a diventare tutt’uno con lo strumento, col mezzo.” (Tra l’altro, 1976–81, MACK, London 2020).
Negli anni Settanta Guidi produce numerose immagini frutto di queste continue sperimentazioni che sollevano temi importanti come la natura dell’immagine fotografica e la natura stessa dell’opera, ponendo l’accento sulla materia della fotografia. È solo una’immagine realizzata con i sali d’argento? È necessario considerare anche altre parti del foglio fotografico come, ad esempio, il margine bianco? La tipologia della carta con le specifiche caratteristiche estetiche sono “opera”? I trattamenti chimici fatti a posteriori sull’immagine sono anch’essi parte integrante dell’immagine? Ma la questione che più preme a Guidi è se queste sperimentazioni o prove siano da considerarsi “opere da esporre”. Sono riflessioni che portano chi guarda, in camera oscura, nell’archivio e nello studio in cui, sul grande tavolo, sono distese le immagini pronte a offrirsi all’analisi dell’autore e in seguito al pubblico. Lo studio, la biblioteca, le collezioni di immagini e di oggetti di Guidi sono i luoghi cruciali all’interno del sistema della creatività e della produzione artistica. Sono spazi che offrono, per la prima volta allo sguardo, le nuove immagini sottoponendole a giudizi, ripensamenti, cancellazioni, miglioramenti e sviluppi per ulteriori progetti. Sono i taccuini di appunti relativi alle sue riflessioni e alle lezioni all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e allo IUAV che più ci illuminano sul pensiero, sul metodo e sulla poetica dell’autore. Alcuni di questi taccuini sono esposti in mostra nelle bacheche di approfondimento, assieme ad altri documenti, tra cui spicca il volume di Alfred Kallir, Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto del 1994 ricco di appunti e sottolineature di Guidi, testimonianza dell’intenso studio delle teorie di questo autore che nel volume narra la storia dell’alfabeto dall’antichità sino alla codificazione attuale esaminando l’evoluzione dei grafemi, delle immagini e dei simboli che hanno interagito, nel tempo, con la visualità, con il suono e gli aspetti psicologici. Questi documenti mostrano che Guidi pratica la tecnica del disegno e della tempera; indaga attraverso il disegno, opere d’arte, fotografie d’autore, tra cui Evans, per indagarne la forma, la struttura. La prassi del disegno è fondamentale nel percorso euristico dell’autore in quanto anche il disegno insegna a vedere e la sezione della mostra dal titolo Tempere, 1970–1972 è un’importante testimonianza di questa sua attività. L’interesse linguistico è documentato da uno dei suoi taccuini, in particolare quello datato 1981 in cui annota questa frase di Ludwig Wittgenstein: “Ciò che può essere mostrato non può essere detto.” Un’affermazione utile a sostenere il principio e la convinzione che la lettura di una immagine, di un’opera d’arte, deve basarsi innanzitutto sulla lettura formale e la sua descrizione deve essere fatta necessariamente con il linguaggio delle immagini stesse. La mancanza di fiducia nella parola è dichiarata da Guidi in questa affermazione: “I libri di storia dell’arte tendono ad essere discorsi sui discorsi.”
È interessante notare come anche un altro autore, Luigi Ghirri, proprio in quegli anni, si interessò a Wittgenstein confrontandosi con l’amico e scrittore Gianni Celati come testimoniano gli appunti manoscritti dello scambio tra i due conservati alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.
Diversi sono i punti di incontro tra Ghirri e Guidi che si sviluppano però in direzioni diverse e del tutto inedite per entrambi. Ghirri sosteneva che la critica fotografica era inutile, che appesantiva un linguaggio, quello fotografico, capace di comunicare senza il contributo della parola. La questione fotografica, negli anni Settanta e Ottanta, si sposta sulla questione linguistica da declinare, piuttosto che sul tema della veridicità del mezzo fotografico. Nel 1971 Guidi afferma che l’oggetto di esplorazione, in fotografia, debba essere la macchina fotografica e che l’immagine fotografica non è solamente l’esito di una esplorazione ma espressione dello strumento e come tale va indagata per capirne il linguaggio. L’immagine è un processo di conoscenza e non solo l’esito finale del gesto fotografico. Questo approccio inaugura nuove modalità di sperimentazioni quali le serie, le ripetizioni, le varianti che acquistano un ulteriore significato nell’accumulo in archivio, luogo, come già detto, di rivisitazioni e di confronti, di riflessioni sul lavoro pregresso. È il tempo a sedimentare le immagini ed è il tempo a ridarne nuova vita. E il soggetto? Quale importanza ha nella poetica di Guidi? Qual è il suo sguardo sul mondo, sul reale? Per molto tempo, scrive Frongia, Guidi ritorna periodicamente su strutture architettoniche “vernacolari” basate sull’archetipo del cubo o del parallelepipedo che rappresenta, sottolineando i diversi punti di vista e il cambiamento della luce naturale nelle ore del giorno. È la sua formazione artistica, influenzata dagli studi di Klee, Kandinsky e Theo Van Doesburg, conosciuti attraverso le lezioni di Luigi Veronesi al Corso Superiore di Disegno Industriale, ad illustrare la teoria Gestaltica e le teorie psicologiche di Rudolf Arnheim che sono, come scrive Simona Antonacci: “volte a cogliere le strutture significanti interne degli elementi visivi e basate sul principio che ogni percezione è anche pensiero.” Guidi dà vita ad una propria teoria della visione appellandosi, prima che alla fotografia, allo studio della pittura di Giotto e all’opera di Piero della Francesca trovando risonanze nella fotografia di Paul Strand e di Walker Evans che esamina in modo ostinato. Il lavoro di Evans è esemplare per la ricerca di Guidi, autore studiato sulla monografia a cura di John Szarkowski per il Museum of Modern Art di New York del 1971. In particolare Guidi rimane colpito dallo studio delle tipologie delle case americane e in merito scrive in uno dei suoi taccuini (2008): “Fotografare la casa, ma allo stesso tempo fotografare lo scorrere del tempo […] fotografare la casa frontalmente ma introdurre un elemento di inquietudine.” Ancora una volta si tratta di una analisi formale: visione frontale, figura geometrica che disegna l’ombra, per carpirne il linguaggio. La risposta che diede a una studentessa in una sua lezione allo IUAV di Venezia nell’aprile del 2011 è indicativa: al temine di una lezione di due ore dedicata quasi esclusivamente all’analisi di un’unica fotografia di Walker Evans, la studentessa chiede: “Sì ma dove è il contenuto?” Guidi risponde: “Abbiamo parlato tutta la lezione di contenuto, il contenuto è il linguaggio.”
Nella radicalizzazione del linguaggio visivo di Guidi si affaccia un altro tema importante che è quello del soggetto in fotografia. Pippo Ciorra, nel suo saggio in catalogo, afferma che Guido Guidi, per gli architetti e gli urbanisti, è uno degli esponenti più rappresentativi della scuola italiana della fotografia di paesaggio. Paesaggio che in Guidi diventa fondale, scenografia, pretesto e pertanto suscita una sensazione di incompletezza prima ancora di diventare soggetto. Benché abbia lavorato con architetti e urbanisti, in particolare della scuola veneziana collaborando con Bernardo Secchi, proprio su quelle teorie Guidi formula il suo approccio che si basa sulla visione, sul processo di percezione del paesaggio piuttosto che la restituzione calligrafica di esso. I paesaggi sono quelli connaturati dell’Italia post bellica, fortemente urbanizzata, delle periferie abbandonate, delle zone industriali e proprio perché marginali meritano l’attenzione dello sguardo. Lo sguardo, fatto di piccoli spostamenti, di ritorni sullo stesso punto e di lenta misurazione del tempo che lo trasformano facendolo diventare una scena ideale. Anche in questo processo sul soggetto, l’approccio radicale pare evidente. Può essere interessante riportare ciò che ha scritto Zavattini nel 1955 in merito a Paul Strand a Luzzara, autore molto amato da Guidi: “Calmo, guarda l’oggetto poi subito il cielo, ingoia immagini come un formichiere […]. Si poteva dare perfino il caso che la gente lo supponesse affrettato o troppo confidenziale nel vederlo preparare la macchina davanti a una cosa e poi abbandonarla lì nella strada come rimarcando più la qualsiasità che la eccezionalità, ma quando tornava, riscuoteva tutti i diritti della calcolata assenza durante la quale sapeva bene il genere di connubio che quel tempo preciso e quello spazio preciso avrebbero combinato. Talvolta il problema gli si poneva con una delle sue semplificazioni: un centimetro a destra o a sinistra, oppure sotto oppure sopra, oppure un minuto di più o meno l’obiettivo aperto. Oscillava senza mai palesarlo tra la distanza che si identifica con l’infinito geometrico e il battito dell’orologio, il quale all’orecchio di Strand senza dubbio aveva sussulti e linguaggi fatali.” Per brevità ricordiamo solo alcuni progetti di ricerca e analisi del paesaggio a cui Guidi partecipa quali: Una città per la cultura. Istituti culturali e recupero urbano a Cesena nel 1985, a seguire Esplorazioni sulla via Emilia. Vedute nel paesaggio nel 1986, cui seguono numerosi altri come i contributi sulle riviste di urbanistica e di architettura,
Il percorso di ricerca formale, la tecnica e la macchina fotografica diventano essi stessi elementi linguistici fondamentali. Agli esordi utilizza un formato 24x36 mm per poi passare, negli anni Settanta, all’ Hasselblad (6x6 cm). Parallelamente sperimenta pellicole in bianco e nero e si avvicina al colore negli anni Sessanta e Settanta dettando alcune revisioni e tarature sul concetto di traduzione dal bianco e nero al colore. Dagli anni Ottanta utilizza una fotocamera formato 50x60 cm costruita artigianalmente e dal 1985 utilizza una Deardorff a banco ottico che gli permette di sviluppare il suo sguardo e indagare il linguaggio dei fotografi “primitivi” come O’Sullivan, Atget, Evans e Strand. Guidi si misura con la tecnica che richiede apprendimento, manualità, conoscenza. Ma questi elementi tipici del pensiero cosciente legato anche all’idea di “fare un progetto” inibiscono il libero fluire della percezione e della creatività. Nella sua radicalità afferma che: “Occorre disimparare la tecnica in modo che essa diventi un’arte inappresa, eliminare il pensiero e lasciare agire liberamente l’occhio che pensa.” (2011). L’occhio, l’inconscio potremmo aggiungere, vedono e percepiscono prima del pensiero e questa conoscenza va tutelata e salvaguardata dall’approccio critico e razionale.
La mostra è un importante e significativo contributo, almeno per chi scrive, per l’arte contemporanea italiana di quegli anni. Simona Antonacci afferma che studiare l’opera di Guidi significa affrontare, prima della sua opera, il suo pensiero teorico che, come intellettuale, ha contribuito notevolmente alla cultura visiva italiana. È un portatore di pensiero e il Museo Maxxi si è concentrato su questo aspetto, oltre che ovviamente, quello visivo, perseguendo una linea metodologica che si sviluppa attraverso la ricerca sugli archivi e si conclude nell’attività espositiva. Antonello Frongia, che ha seguito per più di 40 anni il lavoro di Guidi, afferma che grazie all’impostazione metodologica voluta dal Museo Maxxi è nata la consapevolezza dell’inesauribile forza del suo lavoro attraverso una rilettura delle sue opere e del suo pensiero al di là dei generi fotografici o dei singoli progetti. Alla domanda: “Che cosa ha significato mettere mano nell’archivio e tra gli appunti” Guido Guidi, risponde con ironia: “Significa fare i conti col tempo”. Il suo apporto all’allestimento della mostra è stato decisivo attraverso la scelta dei vintage prints e delle ristampe riproposte dallo stampatore di fiducia. La mostra propone 40 sequenze di immagini che illustrano i momenti salienti del suo pensiero dal 1956 al 2023.
Guido Guidi. Col tempo, 1956-2024
a cura di Simona Antonacci, Pippo Ciorra, Antonello Frongia.
Contributi di Frits Gierstberg, Florian Ebner, Alessandro Coco.
MAXXI-Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma.
Catalogo edito da MAXXI - Mack, Londra
Dal 12 dicembre 2024 al 20 aprile 2025.
In collaborazione con:
Archivio Guido Guidi, Cesena
ICCD, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione MIC, Roma
CCA, Canadian Center for Architecture, Montréal
MuFoCo, Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo
Galleria Viasaterna, Milano
In copertina, Copertina MAXXI, Guido Guidi, Col Tempo, San Vito, 2007, ph. Guido Guidi, Collezione Fotografia MAXXI Architettura e Design contemporaneo.
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