Anthropocene / E se? (Arrivasse la fine del mondo.)

25 Giugno 2019

La mostra fotografica Anthropocene è una iniziativa organizzata dall’Art Gallery of Ontario (AGO) e dal Canadian Photography Institute (CPI) della National Gallery of Canada (NGC) in collaborazione con il MAST, manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna. I co-curatori della mostra sono Sophie Kackett, Andrea Kunard e Urs Stahel. Film di Jennifer Baichwal, fotografie di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier. Fondazione MAST [Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia] di Bologna, fino al 22 settembre. 

 

Edward Burtynsky, Coal Mine #1, North Rhine, Westphalia, Germany 2015, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Il progetto fotografico Anthropocene nasce nel 2014 da una domanda della regista Jennifer Baichwal al fotografo Edward Burtynsky durante le riprese sul delta del fiume Colorado a Washington DC per la realizzazione del film Watermark. Baichwall era rimasta colpita dalle condizioni del delta del fiume le cui ramificazioni dei suoi affluenti affioravano dal suolo alla ricerca di un delta che non esisteva più a causa di un accordo che prevedeva la deviazione del fiume per irrigare i grandi raccolti distribuiti tra il Colorado e la California. La scena che si presentava agli occhi di Baichwal, Burtynsky e de Pencier era l’ennesimo esempio di impatto negativo del lavoro dell’uomo sull’ambiente. La domanda su cui gli autori innestarono la loro elaborazione metodologica e progettuale nel dare avvio al progetto Anthropocene che documentasse, nel mondo, gli impatti negativi, è stata: “ E se?”. Già: e se si fosse fatto diversamente, o se non fosse stato fatto per nulla? Sarebbe stato possibile fermare il progresso? O più semplicemente è possibile rinunciare a parte di esso? Ma quanto è costato il progresso in termini di sfruttamento delle risorse naturali ? E quanto ancora dobbiamo togliere alla natura per dare al genere umano? Gli autori si sono basati, rigorosamente, sulle ricerche scientifiche condotte da Anthropocene Working Group (AWG) nel 2009. Anthropocene nasce all'interno della comunità di Earth System Science (ESS), un gruppo di scienziati e geologi che studia la storia della terra attraverso la stratigrafia e i fossili e come questi, una volta sfruttati, vengono dispersi nell’atmosfera.

 

Edward Burtynsky, Phosphor Tailings Pond #4, Near Lakeland, Florida, USA 2012, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Anthropocene è infatti un termine della geologia che ha rapporti con la stratigrafia. L’affascinante teoria è stata propugnata dal Premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen. Gli scienziati appartenenti all’Anthropocene Working Group hanno messo a punto un metodo di analisi che si basa, appunto, sulla stratigrafia come potenziale aggiunta formale alle scale temporali geologiche, esso, inoltre si basa sul confronto con altre metodologie scientifiche per lo studio della Terra. In pratica gli scienziati, attraverso le diverse e numerose stratigrafie della Terra che l’uomo modifica profondamente estraendo materie prime come litio, carbone, petrolio, gas naturali ecc. studiano l’accelerazione della fine di un’era, che questi fanno risalire dalla metà del XVIII secolo con l’inizio della Rivoluzione industriale. Rivoluzione che ha avuto una forte accelerazione a causa dei fabbisogni energetici dell’America del Nord e dell’Europa dall’immediato dopoguerra ad oggi. L’impatto è assolutamente negativo e influisce, ad esempio, sullo strato dell’ozono, sulla natura in generale, sul clima, sul futuro delle specie: sostanzialmente sulla vita dell’intero pianeta. La comunità internazionale degli scienziati, in particolare dei geologi, è stata piuttosto critica sull’impostazione di Anthropocene, con la motivazione che non vi sarebbero dati sufficientemente significativi per determinare il futuro della Terra. La teoria Anthropocene appare, ai loro occhi, più una dichiarazione che scientifica e nulla racconterebbe della storia della Terra e del suo futuro.

 

E see se gli scienziati di Anthropocene avessero ragione? E se… la grande accelerazione e dissennata estrazione dei minerali e dei fossili che ha modificato significativamente la morfologia della superficie della Terra decretasse effettivamente uno dei grandi declini del Pianeta, se non il declino definitivo? Stefano Mancuso (La nazione delle piante, 2019) illustra con chiarezza come la natura predatoria dell’uomo condizioni negativamente anche il destino delle altre specie animali e vegetali, senza curarsi del futuro, ma solo della propria sopravvivenza. Mancuso spiega inoltre che la storia della Terra ha subito cinque estinzioni di massa, comprese un numero non definito di estinzioni minori, al termine delle quali il sistema vivente ha determinato una nuova rinascita del pianeta morfologicamente assai differente da quella precedente; in alcune ere, ad esempio, non è stata assolutamente pensabile la vita dell’uomo per le caratteristiche assai nocive dell’atmosfera. L’immagazzinamento del carbonio presente nell’aria in alta quantità per opera delle piante ha prodotto due effetti: l’atmosfera così come la conosciamo oggi e la formazione di immensi giacimenti di petrolio.

 

Nicholas de Pencier and Jennifer Baichwal with drone pilot Mike Reid on location at a clearcut north of Port Renfrew, Vancouver Island, British Columbia, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

David George Haskell, biologo e naturalista (The forest unseen, 2012, The Songs of Trees, 2017) illustra come la differenza delle specie abbia avuto la capacità di sopravvivere alle numerosi catastrofi, anche quelle arrecate dall’uomo. Haskell ricorda che i grandi mutamenti causati dall’uomo sono avvenuti con la pratica dell’agricoltura che ha comportato grandi deforestazioni e regimentazione delle acque. Il rammarico di Emanuele Coccia (La Vie des plantes. Une métaphysique du mélange, 2016) invece, è la perdita, da parte dell’uomo, della capacità di capire e dialogare con la Natura, di apprezzarne la bellezza, così come faceva l’uomo primitivo e come fanno ancora oggi le poche tribù sopravvissute dell’Amazzonia. Questo dialogo con la Natura ci garantirebbe di vivere con equilibrio oltre che assicurarci il futuro sulla Terra. Anche questi studiosi denunciano con forza il cruento intervento dell’uomo per accaparrarsi risorse per il benessere e per il progresso definendolo “un evento di grande portata come l’inizio di una nuova era di trasformazione” e probabilmente di estinzione. La raccolta dei dati relativi al cambiamento atmosferico, del clima, della qualità dei mari e degli oceani, dell’impoverimento del suolo documentano un trend negativo, di cui non è per niente facile percepire le conseguenze a breve o a lungo termine, benché gli studi da decenni siano numerosi e quelli tacciati di catastrofismo si siano rivelati, in seguito, molto vicini al vero. 

 

Edward Burtynsky, Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

La ricerca fotografica Anthropocene di Jennifer Baichwal, di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier è un progetto che desidera censire le macro situazioni denunciate dagli scienziati. Dalle immagini, dai filmati presenti in mostra si possono trarre alcune conclusioni che sicuramente saranno più esplicite e suggestive nel convincere chi ha potere decisionale, rispetto alle statistiche e alle relazioni tecniche redatte dagli scienziati. Gli artisti utilizzano il linguaggio fotografico di documentazione, dando una efficace forma estetica alle forme geologiche naturali, soprattutto a quelle modificate dall’uomo. Edward Burtynsky a partire dal 1985 ha focalizzato la sua attenzione sui paesaggi antropici, in particolare sui siti industriali, fino a documentarne i sistemi di produzione e consumo. Baichwal e de Pensier lavorano invece a stretto contatto con luoghi e paesaggi deturpati e modificati, cercando di capire come queste menomazioni possano plasmare culture e persone. Il paesaggio, così come la Natura, ovviamente, non sono separati dalla vita delle specie. Attraverso fotografie, film, installazioni a realtà aumentata, gli autori svelano non solamente le dimensioni e le caratteristiche dei luoghi più colpiti dall’intervento dell’uomo, ma ne fanno percepire l’entità del problema, l’ineluttabile destino. L’utilizzo, inoltre di fotografie a forte ingrandimento, di installazioni filmiche, di immagini prese dall’altro come dal satellite o dai droni sono presentate come una opportunità di approfondimento non solamente della forma, ma anche dell’entità reale. La veduta dall’alto è stato uno dei principali metodi utilizzati per rappresentare i cambiamenti territoriali o semplicemente un mezzo per controllare il territorio: pensiamo all’utilizzo militare già dalla Prima Guerra Mondiale. Fotografie davvero inusuali per la percezione dell’epoca.

 

Edward Burtynsky, Carrara Marble Quarries, Cava di Canalgrande #2, Carrara, Italy 2016, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Margaret Bourke-White scattò nel 1936 le immagini della gigantesca diga di Fort Peck in Montana, immagini che erano di semplice documentazione, ma grazie al loro fascino finirono sulla copertina di Life lo stesso anno e ora sono conservate nei musei d’arte americani. Lo stesso Lewis Mumford scrisse nel 1952 che le fotografie aeree hanno la capacità di contenere un numero inestimabile di informazioni sul rapporto uomo e natura e per questo offrono soluzioni per migliorare quello che l’uomo distrugge sul territorio. Inoltre per il loro impatto emotivo e comunicativo, sostiene ancora Mumford, esse posseggono una capacità di suscitare “abbastanza amore e sentimenti affini verso la Terra […] per riuscire a rendere ogni angolo di questo pianeta una casa permanente”. L’utilizzo della realtà virtuale e di quella aumentata, inoltre, hanno la capacità di trasmettere prossimità per provocare un coinvolgimento emotivo, far scaturire sensazioni da un’esperienza seppur visuale. E se… quello che ci offre Anthropocene, fino al 22 settembre, fosse davvero una storia senza speranza, cosa potrebbe fare l’uomo comune?

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