Speciale
Intervista a Simone Sapienza e Umberto Coa / Fotografia, documento, ambiguità
Laura Gasparini incontra Simone Sapienza e Umberto Coa, fotografi tra i finalisti della Public call della dodicesima edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia.
Simone Sapienza
LG: Rivoluzioni, ribellioni cambiamenti, utopie. Il titolo di questa edizione di Fotografia Europea si addice molto a diversi tuoi progetti che hai realizzato in Vietnam come United States of Vietnam e Charlie surfs on Lotus Flower. Puoi raccontarci la tua declinazione?
SS: Sono molto affascinato dalle tematiche vicine al potere e a come quest'ultimo possa influenzare il corso della storia e soprattutto la percezione di essa. I due progetti sono in qualche modo complementari, anche se United States of Vietnam, in formato installazione-bandiera, è diventato sempre più bonus track dell'altro. La dinamica è stata pressoché questa: la bandiera rappresenta in maniera seriale e controllata la "libertà" in crescita del mercato; Charlie surfs on Lotus Flowers si concentra invece sulla tematica del controllo (politico) attraverso un approccio libero e slegato da ogni vincolo giornalistico. È come se tematica ed approccio fotografico si alternassero e compensassero.
LG: Perché, nelle tue indagini, hai scelto il Vietnam? Quali sono stati i cambiamenti e, forse, le utopie tradite o no, che più ti hanno affascinato di quel paese?
SS: Durante i miei studi in fotografia, ebbi modo di scoprire come la guerra del Vietnam fu crocevia fondamentale per la storia della fotografia documentaria in particolare dal fronte di guerra. La documentazione di quel fallimento ha dato il via alla censura e al fotografo embedded, fino a rinnovarsi totalmente in citizen journalist ai tempi della Primavera Araba. Così cominciai a chiedermi cosa sapessero i miei coetanei della storia del Vietnam, e mi sono reso conto che i riferimenti principali fossero cinematografici, non essendo un argomento battuto nelle scuole. Mi chiesi poi io cosa ne fosse rimasto del Vietnam oggi, e da lì le scoperte sui dati economici, sociali e demografici mi hanno spinto ad approfondire il Vietnam oggi, al di là delle risaie e altri stereotipi da cartolina. Utopie tradite, sicuramente – come in tanti altri Paesi in cui la rivoluzione ha portato ad una forma diversa di potere, spesso assoluto. Ecco perché il Vietnam c'è, ma non è così esplicito nelle foto. È un simbolo.
LG: Ti definisci fotografo documentario, a quale pensiero ti senti più vicino, in particolare a quale autore?
SS: La mia definizione di fotografo documentario è molto vaga, eterogenea, spesso criticata. Credo molto nell'importanza della ricerca preliminari nei progetti – per me, è quello a definire un progetto documentario o meno. Per il resto, c'è un determinato tasso di interpretazione che può essere più o meno esteso, a seconda del progetto. Sicuramente, al di là dei fotografi di break news, non credo nell'obiettività della fotografia come medium, e quindi in quella presunzione di verità spesso portata in auge dal mondo del fotogiornalismo. Si prendi ad esempio il WPP – World Press Photo – negli ultimi due-tre anni, è tornato a rifossilizzarsi e auto-compiacersi, è attuale nelle tematiche rappresentate, ma totalmente scostato dalla realtà quanto a cambiamento del medium fotografico.
Non ho degli autori di riferimento in maniera "religiosa", diciamo. Ce ne sono due che stimo moltissimo, grazie al loro approccio metodico e intelligente, progetto per progetto, Max Pinckers e Federico Clavarino. Quest'ultimo, anche ottimo docente che riesce a distinguersi rispetto all'offerta educativa vasta sì, ma generalmente sempre più piatta. Rispetto alla fotografia del passato, rispetto eterno per Frank ed Eggleston, e non per assonanza di approccio. Semplicemente, ci ricordano che a volte bisogna passare per "eretici" prima di poter affermare il proprio linguaggio.
LG: Il linguaggio fotografico che utilizzi nel descrivere e documentare i temi dei tuoi progetti non è diretto ma richiede un’attenzione e una partecipazione attiva dello spettatore. È un elemento indispensabile del tuo modo di documentare?
SS: Nei miei ultimi progetti c'è un elemento in comune: la decontestualizzazione. Mi piace l'idea di poter realizzare dei progetti che possano rappresentare realtà simili, seppur con geografie e storie diverse. Quest'approccio è diventato ancor più estetico in Vietnam. Le fotografie sono poco descrittive, semplici, quasi banali e troppo pulite. Quindi sì, bisogna un po' scavare e trovare empatia con i soggetti, e soprattutto con gli oggetti. L’immagine verticale, inconsciamente, mi aiuta in questa pulizia di contenuti. Mi sarà stato detto così tante volte che una fotografia deve raccontare quanto più da sé, che alla fine ho cercato di limitare i messaggi espliciti. Sì, sono un po' bastian contrario.
Umberto Coa
L.G.: Non dite che siamo pochi nasce da un ritrovamento avvenuto casualmente di fotografie, lettere e documenti. È l'ennesimo ritrovamento che ha fatto scaturire un progetto che presenti a Fotografia Europea 2018. Puoi parlarcene?
U.C.: Il lavoro si sviluppa a partire da un espediente narrativo, il ritrovamento di un insieme di fotografie, documenti, provini a contatto, libri, oggetti e diari. Questo materiale è stato messo insieme e mi è stato consegnato da un uomo, al quale mi riferisco utilizzando solo le sue iniziali: MB.
In molti lo definirebbero un anarchico insurrezionalista, io preferisco anarchico d’azione. Il materiale raccolto, in fondo, si concentra prevalentemente su questo aspetto: quello delle pratiche di opposizione e di attacco al potere e agli strumenti d’oppressione. Dalle fotografie di MB emergono le diverse forme attraverso le quali la rivolta si manifesta, investendo l’esistenza nella sua interezza. Così immagini di cortei, sabotaggi, cariche e prigioni si alternano ad altre di natura privata. A questo si aggiungono collage e fotografie storiche rielaborate, che dialogano con scritti, comunicati di rivendicazione e opuscoli.
Le didascalie aiutano a seguire il percorso del protagonista, contestualizzando le immagini e dando un nome ai volti che incontriamo: Luigi Lucheni, Severino di Giovanni, Horst Fantazzini, Niko Matiotis e altri ancora.
Tutto ciò conduce al cuore di un’idea di rivolta, con un suo portato fisico, corporeo, che si esprime alla luce del giorno così come nel buio della notte, dall’Italia alla Grecia, dalla Spagna alla Francia.
LG: Hai dismesso i panni del fotografo per indossare quello dell'archeologo, come direbbe Michael Foucault l'"archeologo dei saperi". Cosa hai scoperto?
UC: Tante cose. Cercare di riassumerle sarebbe riduttivo.
Non avendo vissuto gli eventi cui si fa riferimento e non avendo preso parte a situazioni simili, non mi sento di poterne fornire un’analisi esaustiva. Il mio lavoro può al massimo contenere degli indizi, a partire dai quali ciascuno può provare a discostarsi dalla lettura che comunemente viene data di tutte quelle azioni di dissenso che vanno oltre i limiti legali e morali della società democratica.
LG: Vedendo il tuo lavoro, però, sorge spontanea la domanda cosa hai inventato?
UC: MB non è mai esistito; il suo archivio raccoglie immagini trovate in rete, frame estrapolati da video, messe in scena e fotografie che talvolta non hanno niente a che vedere con l’oggetto del racconto. Paradossalmente queste sono le sole che hanno mantenuto la funzione, unicamente narrativa, per le quali sono state realizzate.
Anche l’idea di installazione, curata da Renata Ferri, è stata quella di costruire una dimensione dell’immaginario, in cui la finzione penetra nella realtà e si confonde ad essa.
I riferimenti a eventi accaduti, nonché i documenti che utilizzo, sono frammenti del percorso biografico di MB. Costituiscono, così come il resto del materiale esposto, una prova tangibile della sua esistenza.
Non mi interessava quindi fornire una precisa ricostruzione storica o dare informazioni complete. Ho provato a raccontare una storia, sperimentando le molteplici possibilità con cui orientare il significato delle immagini e chiedendomi che ruolo queste svolgano nella percezione della realtà.
Per sapere cosa è inventato, cosa non lo è, cosa è attendibile, cosa è manipolato, bisogna verificare.
Questo lavoro può anche essere letto come un invito a distinguere tra vero e falso rispetto a un tema preciso.
LG: La fotografia, o meglio le immagini, hanno un potere evocativo straordinario tale da "documentare" una realtà che non esiste. È un aspetto davvero sovversivo del linguaggio della fotografia. Tu come l'hai elaborato?
UC: Questo aspetto sovversivo della fotografia è stato utilizzato, per ragioni diverse, fin dai primi anni di diffusione del mezzo. Prendendo spunto dai diversi episodi che si sono susseguiti nel campo dell’arte e dell’informazione, ho utilizzato l’ambiguità delle immagini, la loro naturale capacità di mentire, come una risorsa utile per costruire una storia, servendomi di quello che ho trovato e aggiungendo le “parti mancanti’’: una continua opera di selezione, riadattamento e decontestualizzazione.
Le didascalie ricollocano le immagini nello spazio e nel tempo.
Così un frame tratto da un video di scontri a Exarchia nel 2016, mi permette di far riferimento alle proteste durante il Consiglio europeo di Salonicco del 2003. Un incendio di un traliccio causato da un corto circuito, si trasforma in un’azione di sabotaggio. La foto di un portabagagli con un bidone di plastica diventa l’anello di congiunzione tra l’immagine di un ordigno incendiario a quella di una ruspa in fiamme.
Il metodo che ho seguito acquista senso in rapporto al tema trattato; in questo senso il personaggio di MB ha un ruolo chiave in quanto presunto testimone diretto. Io riorganizzo il suo archivio, aggiungendo un secondo filtro. Nel momento in cui scopri che lui non c’è, ti chiedi che cosa sia veramente quello che hai di fronte. Quanti filtri ci siano effettivamente tra la realtà a cui si fa riferimento e la sua rappresentazione.