La cretineria come fattore politico

21 Ottobre 2024

Ci sono dei momenti in cui si rischia di perdere il rispetto per se stessi. Per chi si occupa dell’attuale campagna presidenziale americana il rischio è molto forte, e non finirà tra il 5 e il 6 novembre, quando si avranno i primi risultati. Continuerà fino a gennaio, alla data dell’insediamento del nuovo presidente, e anche oltre. Se Donald Trump perdesse le elezioni, chi lo sostiene ha già creato nel frattempo una vasta rete di consenso alle politiche più estreme di cui Trump potrebbe farsi portavoce anche da sconfitto. O meglio, non proprio da portavoce, perché non è in grado di articolarle nemmeno adesso, ma da schermo, dietro il quale si agiteranno coloro che quelle politiche le hanno elaborate davvero. Sulla possibilità che i numerosi processi che lo vedono implicato possano portare Trump a una condanna seria, o addirittura alla detenzione, bisogna restare scettici. La Corte Suprema l’ha già dichiarato immune dalle azioni condotte durante la sua presidenza, e tecnicamente era ancora presidente quando ha incitato i suoi ad assaltare il Campidoglio il 6 gennaio 2021. Nonostante le varie procure che lo possono ritenere colpevole, alla fine sarà la Corte Suprema a decidere.

Ma perché mai si rischierebbe di perdere il rispetto di se stessi? Per esempio passando un’ora, come io ho fatto stamattina mentre cercavo di darmi la carica per scrivere questo articolo, a guardare Donald Trump che balla sul palco di un comizio mentre l’impianto di amplificazione manda una selezione delle sue canzoni preferite. Il luogo è la periferia di Filadelfia, l’occasione è un town hall meeting, un comizio cittadino al coperto nel quale il candidato risponde alle domande del pubblico, libere e non filtrate. Due dei partecipanti si sentono male e svengono, forse per il caldo. Donald Trump decide perciò che il tempo dedicato alle domande e alle risposte è finito, chiede ai suoi di mettere un po’ di musica e comincia a ballonzolare sul palco. Trentanove minuti dopo, non uno di più non uno di meno, dichiara finito l’evento  e scende a stringere le mani dei presenti.

Non solo ho guardato Trump muoversi sul palco come un bamboccione scemo, muovendo le mani a pugno come se stesse facendo una sega a due uomini contemporaneamente (la battuta non è mia, non pretendo il copyright) e sbattendo le anche come solo un settantottenne obeso a una gara di imitatori di Elvis in pensione è in grado di fare; mi sono poi visto due comici famosi che hanno speso quindici minuti ciascuno a deriderlo per bene, come è nel loro mestiere. Ma li ho visti su YouTube, e la campagna elettorale di Trump ha infilato degli spot pubblicitari proprio nei segmenti che più lo prendevano in giro. A quel punto mi sono detto che mi stavo rincoglionendo, pardon my French

È imperativo mantenere un livello di allerta cognitiva davanti alla politica della cretineria, negli Stati Uniti come in Italia e nel resto del mondo. La “prevalenza del cretino”, come l’avevano chiamata Fruttero e Lucentini in un libro a suo tempo famoso, o la Idiocracy, per riprendere il titolo di un film ancora famoso, è la vera sostanza del discorso politico attuale. Questo non per dire che la politica sia cretina, ma che ha adottato il cretinese come lingua franca. Agli inizi degli anni Sessanta, i pubblicitari avevano deciso che non potevano più trattare i consumatori come dei cretini (“Il consumatore non è un cretino”, diceva David Ogilvy con impagabile sessismo, “è tua moglie”.) Poi è arrivato Berlusconi a ricordare ai suoi rappresentanti di commercio che l’età mentale della maggior parte della gente è quella di un bambino di otto anni. E chi è l’elitista qui? L’intellettuale snob che guarda tutti dall’alto in basso o l’imprenditore spregiudicato che conosce i suoi polli?

Sul “New York Times” del 16 ottobre, Michelle Cottle si dichiara molto preoccupata per lo stato mentale di un candidato che potrebbe ancora essere a un passo dalla presidenza. Gli elettori hanno il diritto di sapere se le capacità cognitive di Donald Trump non siano in serio declino. Dopo tutto, è quello che stava accadendo a Biden, ed è per questo motivo che è stato fortemente convinto a ritirarsi. Ci si potrebbe consolare (si fa per dire) pensando che sia tutto un trucco per non dover rispondere a domande troppo precise e confidare esclusivamente sul capitale carismatico acquisito in precedenza (l’espressione “capitale carismatico” è mia, di questa pretendo il copyright). Ma di politici che con l’età perdono il controllo di sé è pieno il mondo, e Trump sembra essere uno di loro.

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Fin qui l’articolo, e non contesto la preoccupazione. Faccio però notare che il problema è mal posto. Nel 2000, Slavoj Žižek ha scritto un importante saggio sul “godimento come fattore politico”. Oggi è imperativo considerare la cretineria come fattore politico aggiunto, tenendo presente che tanto il godimento come la cretineria sono contagiosi. Il godimento è sempre il godimento dell’altro (Lacan docet). Godo di quello che l’Altro gode, o godo di farlo godere. È l’Altro che in quel momento conta più di me stesso, e che può andare dal mio partner sessuale al candidato che voglio votare. Ma anche la cretineria è sempre la cretineria dell’Altro. Non sono mai io a essere il cretino, il cretino è sempre un Altro di cui io mi occupo proprio perché, in teoria, lui è cretino e io no. Credo di ribadire la mia superiorità cognitiva deridendolo, finché non mi accorgo, se mai me ne accorgo, che il cretino ha vinto, che magari sta racimolando consensi anche grazie a me, per il solo fatto che io mi occupo di lui, e che io sto passando la mia vita a occuparmi di cretinate.

In questi giorni, mentre Trump chiede alla sua troupe di mandare l’Ave Maria di Schubert cantata da Pavarotti in onore del “grande patriota” che è svenuto per il caldo (e nessuno sembra notare che in America l’Ave Maria si canta per lo più ai funerali), dopo di che senza fare una piega si mette a ballare al ritmo di YMCA, Kamala Harris sta dando interviste a raffica su tutti i media possibili. Ma si guarda bene dallo spiegare in dettaglio quali saranno le sue politiche. Può darsi che siano di piccolo cabotaggio, ma in ogni caso fa bene a tenerle per sé. Chi non ha ancora deciso, se alla fine la voterà non lo farà per motivi ponderati e per aver analizzato le sue proposte. Se non ha ancora deciso adesso, a tre settimane dalle elezioni, può darsi che alla fine la voti per motivi estemporanei, contingenti, effimeri; anche cretini. La democrazia non è solo il modello politico in cui il voto del cretino conta quanto il voto dell’intelligente; è anche e soprattutto quello in cui il voto cretino conta come il voto intelligente, e così deve restare, perché di alternative non se ne vedono, e perché il voto intelligente di oggi può essere il voto cretino di domani, e viceversa. Quanti sapientissimi intellettuali, nel corso degli ultimi cento anni, non hanno sostenuto regimi politici orrendi, con argomenti che a loro parevano intelligentissimi, mentre erano tutt’altro?

Ma non è una situazione di cui si debba per forza andare fieri. Nel 1798, nove anni dopo la rivoluzione francese, Germaine Necker, o Madame de Staël, scrisse un saggio intitolato Delle circostanze attuali che possono terminare la Rivoluzione e dei principi che devono fondare la Repubblica in Francia. Sosteneva che anche se si vuole fondare il governo “sulla natura delle cose” non si può pretendere che le classi degli imprenditori e dei lavoratori (che lei riuniva nell’espressione “classi industriose”) vivano in uno stato di perenne campagna elettorale. È vero, non ha usato proprio questo termine. Pensava a quel periodo storico in cui i cittadini ateniesi con diritto di voto deliberavano ogni giorno sulla pubblica piazza, in un regime assembleare permanente (oggi appropriato dai media),  disfacendo oggi quello che avevano fatto ieri e viceversa. Perché, aggiungeva, non bisogna mai perdere di vista “che l'opinione pubblica ama la quiete, desidera far fortuna e conservarla, e sarà sempre più interessata all'amministrazione che alla politica”. Nemmeno bisogna perdere di vista, aggiungerei, che se la politica adotta il linguaggio del cretino in fondo al bar, quello che ha una spiegazione per tutto e non sta a sentire nessuno, è per la disperazione di non sapere più qual è il suo ruolo. 

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