Le tredici chiavi della Casa Bianca

26 Agosto 2024

Conclusa la consacrazione di Kamala Harris alla Convention democratica di Chicago (trascurabili disordini per le strade il primo giorno, nessun conflitto alla luce del sole; il Partito Democratico ha imparato dagli errori del 2016 ed è una macchina disciplinata), è il caso di rallentare la corsa, mettere da parte la cronaca spicciola e considerare quali sono le leggi, se ci sono, che presiedono al “teatro del mondo” delle elezioni presidenziali americane. 

Nel 1981, lo storico americano Allan Lichtman e il geofisico russo Vladimir Keilis-Borok, che si erano incontrati in California, si divertirono a modificare un programma – inizialmente creato allo scopo di predire l’arrivo di terremoti – per fargli prevedere il risultato delle elezioni presidenziali americane. La trovata fu del russo, che in patria non la poteva utilizzare visto che l’Unione Sovietica era governata da un solo partito. Lichtman dal canto suo era interessato ad applicare la matematica allo studio della storia. Assieme, decisero di aprire un nuovo campo di studi che potremmo definire geofisica politica. 

Il modello da loro elaborato, poi continuato ad opera del solo Lichtman, consiste di tredici keys, “chiavi” che individuano il momento politico del paese preso in esame e determinano i suoi possibili sviluppi. Ogni chiave descrive una situazione della quale si deve decidere se è vera (se si sta verificando nella realtà) o se è falsa (se non si sta verificando). Se otto chiavi su tredici si stanno verificando (se la risposta è sì), il candidato del partito attualmente al potere ha buone probabilità di vincere le elezioni. Se le condizioni che si stanno verificando sono sette o meno di sette, la previsione è favorevole al candidato del partito sfidante. È un modello teoretico, non basato su dati statistici. Dipende da risposte in parte qualitative, dal grado di conoscenze e dalle capacità analitico-sintetiche di chi lo utilizza. 

Lichtman è riuscito a prevedere il risultato delle elezioni dal 1984 al 2012. Nel 2016 ha dato la vittoria del voto popolare a Hillary Clinton e la somma dei voti elettorali a Donald Trump (che si è congratulato con lui, benché Lichtman sia un democratico e nel 2006 si sia candidato – senza successo – come senatore del Maryland). Nel 2020, studiando i mutamenti demografici degli stati in bilico tra democratici e repubblicani, ha previsto la vittoria di Biden. 

Come funziona? Si tratta di giudicare vere o false le seguenti tredici proposizioni, che qui riassumo per brevità:

1. Dopo le elezioni di medio termine il partito di maggioranza ha guadagnato rappresentanti alla Camera dei deputati.

2. Il candidato nominato dal partito ottiene la nomina senza particolari contestazioni.

3. Il candidato del partito di maggioranza è il presidente in carica.

4. Un eventuale terzo partito o i candidati indipendenti non hanno un grande peso elettorale.

5. L’economia non è in recessione durante la campagna elettorale.

6. Nei due anni dalle ultime elezioni di medio termine c’è stato un aumento del reddito pro capite.

7. L’amministrazione in carica ha implementato cambiamenti significativi nella politica nazionale.

8. Negli ultimi due anni non ci sono stati disordini o proteste significative.

9. L’amministrazione in carica non è stata coinvolta in scandali gravi.

10. Non ci sono state serie sconfitte militari o seri errori di politica estera.

11. Ci sono stati significativi successi militari o di politica estera.

12. Il candidato del partito in carica è particolarmente carismatico o è un eroe nazionale.

13. Lo sfidante manca di carisma e non è un eroe nazionale.

Nella situazione del 2024, se almeno otto di queste chiavi sono fattualmente vere, Kamala Harris ha una buona possibilità di vincere. Se le chiavi positive scendono a sette o meno di sette, è Donald Trump ad avere più possibilità. 

Intervistato da “Times Radio” nel febbraio del 2024, cinque mesi prima che Biden abbandonasse la campagna elettorale, Lichtman precisò che il suo modello è pensato rispertto al presidente in carica. Lo sfidante dev’essere una figura di carisma eccezionale per poterlo scalzare. È successo con F.D. Roosevelt e con Reagan, ma non potrebbe accadere con Trump, che è carismatico, ma la sua base è meno ampia di quella di Reagan. 

Poi, certo, la storia ha i suoi trucchi. Lichtman aveva predetto la vittoria di Al Gore nel 2000, che invece andò a George W. Bush. Ma in quel caso, data l’apparente impossibilità di stabilire chi aveva vinto in Florida (il cui esito determinava l’intera elezione), fu la decisione della Corte Suprema ad assegnare la vittoria a Bush.

Tornando sull’argomento dopo la disastrosa performance di Biden nel primo dibattito televisivo con Trump, Lichtman ricordò che Reagan, grazie al suo carisma, nel 1984 vinse quarantanove stati su cinquanta nonostante la sua età avanzata e i deludenti risultati televisivi. Quando si cominciò a parlare di Kamala Harris come sostituta di Joe Biden, Lichtman postò un video su YouTube in cui confermò che la chiave n. 3, quella del presidente in carica, si sarebbe certamente trasferita alla vicepresidente, ma in una successiva intervista con il “Wall Street Journal” precisò che Biden era sempre la scelta più sicura per i democratici, esprimendo seri dubbi sulle possibilità di vittoria di Kamala Harris. 

L’aveva affermato, però, prima che Kamala Harris, aiutata dal suo vice Tim Walz, riconquistasse quel carisma che non aveva mai avuto (che è la vera “chiave” del successo in politica; devi far credere che quello che sei ora lo eri anche prima). Le cose si sono poi mosse molto in fretta, e Lichtman ha dovuto correggere le sue posizioni. L’ha fatto alla fine di luglio con un’intervista al “New York Post”, sostenendo che il Partito Democratico possedeva sei chiavi per la presidenza, corrispondenti ai numeri 2, 5, 6, 7, 9 e 13. I repubblicani ne avevano tre, corrispondenti a 1, 3 e 12 (quest’ultimo in senso negativo, cioè basato sul carisma di Harris come inferiore rispetto a Trump, ma anche questa chiave sembra poi aver girato in senso opposto). Le quattro chiavi rimanenti (4, 8, 10, 11) alla fine di luglio erano ancora aperte. La candidatura di Robert F. Kennedy jr (meglio noto come Antivax Kennedy) poteva ancora creare dei problemi ai democratici (chiave n. 4), ma non appena Harris e Walz sono usciti alla ribalta Kennedy jr è scomparso dalle news e infine si è ritirato.

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Quanto alle chiavi che riguardano successi e sconfitte militari e di politica estera (10 e 11), la loro importanza è sempre stata relativa. Ucraina, Gaza e Israele hanno il loro peso, sì, ma per la maggioranza degli americani sono cause boutique. Possono scaldare alcuni animi, ma non ci sono vite di soldati americani in gioco. È più importante che Kamala Harris si tenga stretta l’ambitissima chiave n. 12 (carisma individuale) che sembra aver acciuffato un momento prima che fosse troppo tardi. In conclusione, Lichtman ha affermato che “molte cose dovrebbero andare veramente male” perché Kamala Harris perda.

Il modello Lichtman ha ricevuto critiche in particolare da Nate Silver, il più celebre sondaggista americano. A parere di Silver, Lichtman non ha veramente trovato le tredici chiavi. Come un fabbro ostinato, ha continuato a forgiare chiavi finché non è riuscito ad aprire le porte che voleva aprire. Il suo modello non tiene abbastanza conto dello stato dell’economia, che invece è la principale preoccupazione degli elettori, così come è altamente soggettivo quando introduce la nozione di carisma. Tra l’altro il numero di chiavi necessarie per la vittoria, otto su tredici, farebbe pensare a vittorie schiaccianti e a rovinose sconfitte, che in realtà accadono sempre più raramente. Lichtman ha risposto che il suo modello serve solo a predire vittorie e sconfitte, non le percentuali di voto, e l’economia si riflette anche su altre chiavi, come ad esempio la n. 8 (disordini e proteste).

Il modello Lichtman è comunque una doccia fredda sui costi delle campagne elettorali, la voracità dei media, la frenesia dei sondaggisti e le sorprese e contro-sorprese di un paese che dagli anni Sessanta in poi è in campagna elettorale permanente. A parere di Lichtman, gli elettori votano il presidente sulla base di come il paese è stato governato nei quattro anni precedenti; il resto conta poco. Le campagne elettorali hanno uno scarsissimo effetto sulla decisione dei votanti. Se i cittadini sono soddisfatti, rieleggeranno il presidente o il candidato nominato dal suo partito. Se non sono contenti, sposteranno i loro voti sul partito concorrente. 

Non so quale fosse il fondamento geofisico delle teorie di Keilis-Borok. Posso però dire che l’applicazione alla politica che ne ha fatto Lichtman sembra fondata su una mescolanza di utilitarismo “leggero” e di “percezione sociale” alquanto difficile da valutare. L’elettore vota per i suoi interessi, che sono reali, ma devono anche essere percepiti come tali, e la percezione non è quantificabile. Ad aumentare l’indeterminazione contribuisce poi il fattore carisma. L’importanza che gli attribuisce Lichtman non è eccessiva. Gli elettori votano per il buon governo, però dev’essere quello che loro stessi “percepiscono” come tale, così come devono “percepire” che il loro candidato è quello che ha il carisma giusto per realizzarlo (e sull’importanza del “percepito” rispetto al formarsi dell’opinione pubblica e delle sue decisioni mi riferisco al recente libro di Andrea Sartori, Assaliti dalle mille luci del cielo. La cultura della percezione, Quodlibet 2024). 

Stando a Lichtman, l’intera industria che accompagna le elezioni presidenziali è una congrega di ciarlatani. Invece di investire milioni in campagne elettorali sarebbe meglio riservarli ad azioni politiche di impatto più duraturo, e su questo è difficile dargli torto. Se non fosse però che la “percezione” complica tutto. Il passaggio di consegne tra Biden e Harris garantisce la continuità del “buon governo” di Biden (per chi lo “percepisce” come tale), ma non è stata Kamala Harris a implementare le politiche di Biden, le ha solo approvate, e può darsi che molti elettori non sentano il bisogno di essere grati a lei. La gratitudine è un fattore politico? È una quattordicesima chiave, o in politica proprio non esiste? 

In fatto di economia e diritti, le posizioni di Kamala Harris sono l’ovvia continuazione del rooseveltismo moderato di Joe Biden: aggirare gli ostacoli burocratici che rallentano la costruzione di nuove case popolari, maggiori sgravi fiscali per le famiglie con figli (una politica messa in atto da Biden nel 2021 e che i repubblicani, con tutta la loro retorica pro-famiglia, hanno bloccato al Congresso nel 2022), nonché restrizioni all’aumento immotivato dei prezzi degli alimentari (cosa che ha fatto subito gridare ai repubblicani che gli Stati Uniti diventeranno il nuovo Venezuela, ma alcuni strumenti di controllo per impedire aumenti eccessivi in caso di catastrofi naturali esistono anche in stati repubblicani, Texas compreso). Soprattutto, la promessa di una regolamentazione federale dell’aborto, che non c’è mai stata. Un po’ poco per definirla una comunista, come ha fatto Trump. Ma se Kamala Harris riuscisse a realizzare il suo programma anche solo in parte, nel clima attuale e con l’attuale Corte Suprema, sarebbe già un miracolo.

Ma alle elezioni mancano ancora più di due mesi. Per il momento conta solo la “percezione sociale”, quello che i gestori della presenza di Kamala Harris sui social media, tutti molto giovani e che sanno a chi stanno parlando, “costruiscono” di lei. Tutto il resto è illuminismo vecchio stile. Chi vorrebbe avere più dettagli resta deluso, ma resterebbe deluso anche se li avesse, non importa se sia socialista, liberal o conservatore.

Che Biden sia riuscito a manovrare l’America fuori dal Covid e che le sue politiche abbiano contribuito ad abbassare il tasso di disoccupazione, nonché l’inflazione dal 9 al 3 per cento, non è stato molto “percepito”. Non che sia facile, perché le leggi dell’economia sono sconosciute ai più. L’inflazione degli anni del Covid è un ricordo, ma i prezzi ai supermercati non sono tornati com’erano all’inizio del 2020 (lo posso testimoniare). È questo, adesso, che fa arrabbiare la gente. Come glielo spieghi che quando l’inflazione cala i prezzi si stabilizzano ma non diminuiscono, se non di poco, altrimenti si entra in rischio deflazione? Perché nel frattempo anche i salari sono aumentati e una brusca riduzione di prezzi porterebbe a una brusca riduzione degli introiti, e quindi dei salari. Se Trump tornasse alla Casa Bianca i prezzi non scenderebbero di sicuro, a meno di una nuova crisi. Eppure, sono in molti ad avere nostalgia dell’economia di Trump ereditata da Obama, dal 2017 all’inizio del 2020, e ad essersi dimenticati del milione di morti di Covid, molti dei quali, se Trump e i suoi seguaci avessero avuto una reazione iniziale meno isterica, si sarebbero potuti evitare. È la storia della morte negli Stati Uniti. Ne vanno in cerca con le armi in mano, la stanano, la sfidano a duello, e se poi vince la ignorano.

Però l’oblio non fa distinzioni, può toccare a tutti. Gli Stati Uniti sono il paese in cui ti svegli la mattina, sali in macchina e al primo incrocio ti accorgi che un edificio è stato demolito. Erano dieci anni che ti fermavi a quel semaforo due volte al giorno, eppure non ti ricordi affatto di che cosa ti occupava la vista in quel quadrato dove adesso c’è uno spiazzo vuoto. Biden è stato ringraziato alla Convention democratica, per quello che ha fatto e perché ha capito che non era più in grado di farlo. Sarà omaggiato ancora, verrà dimenticato, celebrato quando morirà, dimenticato ancora e ricordato dagli storici. Ma anche il culto della personalità elevato intorno a Trump può fare la stessa fine. Un giorno il palazzo sembra indistruttibile, il giorno dopo arriva una palla da demolizione che lo manda in frantumi, e tu sei lì all’incrocio a chiederti che cosa c’era all’angolo fra quelle due strade che adesso non c’è più. Poi scatta il verde e devi ripartire.

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