Biden & Harris: un’accurata strategia?

27 Luglio 2024

Il Covid è come Mussolini, ha fatto anche cose buone. Ad esempio, ha convinto Biden a ritirarsi dalla campagna per la presidenza. Non sappiamo fino a che punto l’insorgere della malattia, per quanto lieve, abbia indebolito ancora di più il suo fisico già provato. Ma i “motivi di salute”, detti o non detti che siano, sono sempre la migliore delle scuse per togliersi da una situazione ormai catastrofica. Dal Covid si può guarire; dalla vecchiaia no.

Ma non è questo ciò che Biden ha detto agli americani la sera del 24 luglio, nel suo annuncio alla nazione. Nessun accenno all’età e alla fatica, naturalmente no, perché se lo ammettesse allora dovrebbe anche dimettersi da presidente, come i repubblicani invocano a gran voce. Ha menzionato solo la necessità, la stessa di mesi fa, di lasciare il timone a qualcuno più giovane, alla vicepresidente Kamala Harris (compirà sessant’anni il 20 ottobre).

C’è chi ha strepitato di un colpo di stato. Le élites, i poteri forti, Hollywood, Obama, Nancy Pelosi, George Soros, la cabala internazionale, il Caffè dei Poeti di San Zeno sull’Adda hanno cospirato assieme per forzare Biden alle dimissioni. “Adesso lo esaltano dopo averlo accoltellato alle spalle, ci hanno preso proprio per degli idioti” ha scritto una furibonda Kirsten Fleming sul “New York Post”. “Due settimane fa Biden diceva che solo Dio avrebbe potuto fargli cambiare idea, e adesso si è visto che contano di più i grossi nomi che portano soldi!”. Dio è dalla parte di chi ha più cannoni, diceva Napoleone. O magari dalla parte di chi porta l’assegno più consistente. Ma Kirsten Fleming e altri che si sono espressi con furia ancora maggiore non sono democratici delusi, sono repubblicani che si sono visti crollare in un giorno la loro intera strategia anti-Biden.

Un esperimento mentale: proviamo a immaginare, giusto per pura speculazione, che Biden abbia condotto l’intera operazione con quella lucidità che la sera del dibattuto televisivo con Trump gli era mancata. Da solo o ben consigliato non importa; lucido o non lucido, Biden ha troppa esperienza per non sapere che il suo ritiro è l’atto politico in base al quale la sua presidenza verrà giudicata, dalla storia come dai prossimi mesi. E per il momento contano i prossimi mesi.

Biden avrebbe potuto annunciare il suo ritiro subito dopo il pessimo risultato del dibattito televisivo. Non l’ha fatto per ostinazione? Per quell’amore del potere che cattura anche chi per cinquant’anni è stato “al servizio dei cittadini”? Perché après moi le déluge? Non ha più importanza. Conta solo la tempistica.

Sorvoliamo sull’impatto che ha avuto l’attentato a Trump, ma non lo facciamo per cinismo. Nel momento in cui Trump si toglierà il cerotto dall’orecchio ferito l’effetto di simpatia generato sarà già passato in archivio. I sostenitori di Trump hanno invocato la violenza talmente tante volte (anche praticandola) che non possono più comportarsi da agnellini offesi. In America si muore di armi da fuoco tutti i giorni, e con le armi che Trump ha sempre difeso (“Volevano portarvi via le munizioni, e io l’ho impedito”, ha detto all’ultimo congresso della National Rifle Association. “A me vogliono portar via i miei diritti, peggio di quello che hanno fatto con Al Capone. Al Capone è stato incriminato due volte. Io sono stato incriminato quattro volte. Mai sentita questa parola. Che cos’è un’incriminazione? Che cosa sarebbe mai un’incriminazione?”) 

Vediamo allora che cosa ha fatto Biden, sempre supponendo che avesse in mente un piano ben chiaro. Illudendo i repubblicani che non si sarebbe mai ritirato, anzi invocando Dio, li ha convinti di una facile vittoria. L’intera retorica della Convention repubblicana era mirata contro di lui: il peggior presidente di sempre, la peggiore economia di sempre, la peggiore emigrazione di sempre, la peggiore criminalità di sempre, ma era la senescenza di Biden il vero asso nella manica, e Biden li ha convinti che la potevano giocare senza risparmio. Li ha lasciati trionfare su se stessi, ha lasciato che Trump scegliesse come vicepresidente J.D. Vance, l’anti-trumpista poi diventato iper-trumpista, ha lasciato che i media si beassero della nuova figura carismatica che dovrebbe portare a Trump ancora più voti dai bianchi poveri, visto che è nato tra di loro, e infine, subito dopo la Convention repubblicana (questa è la chiave) senza farlo sapere nemmeno al cerchio più stretto dei suoi collaboratori, con un piccolo annuncio su “X” (già Twitter) ha rivelato al mondo che abbandonava la corsa. 

Primo: ha sgonfiato la bolla mediatica della Convention repubblicana. Secondo: ha immediatamente scatenato le speculazioni su Kamala Harris, alla quale solo in un secondo tempo, per graduare meglio l’impatto mediatico, ha dato il suo appoggio, divenuto ufficiale con l’annuncio televisivo del 24 luglio. Immediatamente, Trump, Vance, perfino l’attentato a Trump (cosa che rimane gravissima, e che ha già portato alle dimissioni della direttrice del Secret Service) sono passati in secondo piano. Con la sua accorta scansione dei tempi, Biden ha succhiato via l’ossigeno dal campo repubblicano. Adesso non si parla d’altro che di Kamala Harris, che ha già la maggioranza dei delegati del partito dalla sua parte e nelle prime ventiquattr’ore da quando ha ricevuto la benedizione apostolica ha racconto circa 80 milioni di dollari. 

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La mano benedicente di Obama, però, si è  fatta attendere, e anche in questo caso le speculazioni sono state feroci: Obama non crede che la Harris possa battere Trump, è furioso perché non è stata considerata Michelle (ma questo ce lo vogliono far credere solo alcuni giornalisti italiani singolarmente ostinati), pensa che la Convention democratica dovrebbe essere aperta e che altri candidati dovrebbero presentarsi. Ma non si è presentato nessuno, e con ragione. I nomi nuovi nel Partito Democratico ci sono, ma non è possibile “venderli” al popolo americano in tre mesi. Kamala Harris è la vicepresidente, e non c’è nulla di antidemocratico nel fatto che sia lei ora la candidata. Sono solo i repubblicani a gridare al fallo da rigore. Per il momento, Trump è riuscito solo a tirar fuori una battuta sul suo Truth Social: “Fra una settimana Biden si sarà dimenticato di essersi ritirato e lo ritroveremo ancora in campagna elettorale”. Ma anche lui si è dimenticato della sua stessa battuta, visto che l’ha ripetuta uguale il giorno dopo. E di Kamala Harris finora è riuscito solo a dire che ride troppo, che è una bugiarda, e che è una sinistrorsa radicale. Delle tre cose, è vera solo la prima. Ma da un comico del suo rango ci si poteva aspettare di meglio.

E Obama? Perché Obama ha aspettato? Se gli applichiamo lo stesso tempismo che in via ipotetica abbiamo attribuito a Biden, ha avuto ragione di andare cauto. È un ex presidente che negli ultimi anni, almeno in apparenza, è rimasto parecchio fuori dai giochi politici. Il suo endorsement doveva arrivare dopo quello altrui, non una benedizione ma un’incoronazione. Peraltro, l’endorsement più importante non è neanche quello di Obama bensì di Taylor Swift, e quello sì che arriverà per ultimo.

Kamala Harris non è la più forte dei candidati. Non è mai stata molto popolare, non la si conosce come una scatenatrice di entusiasmi, ed è gravata dall’inconsistenza della missione che Biden le ha incautamente affidato, di investigare le cause del recente aumento di immigrati verso gli Stati Uniti. Missione fumosa, perché sembra più adatta a un’équipe di professori di sociologia che a una personalità politica. 

Kamala Harris non ha cavato un ragno dal buco, ma è in buona compagnia. Quando Biden ha presentato al Congresso  un disegno di legge per rivedere le procedure di esame dei richiedenti asilo si è scontrato con l’opposizione repubblicana che non voleva dargli il merito, non si dice di risolvere la questione, ma nemmeno di metterci una pezza. E, peraltro, più che scriverci forse un libro Kamala Harris non poteva fare, visto che la Costituzione non prevede che il vicepresidente abbia poteri esecutivi.

Ma è sull’immigrazione, ancora più che sull’economia o la politica estera, che Kamala Harris dovrà vedersela con Trump e con gli americani spaventati che il mondo intero si stia riversando su di loro, perché ora i trafficanti di esseri umani non si limitano al Centroamerica; alla frontiera con il Messico arrivano disperati da tutto il mondo. La maggior parte delle convinzioni diffuse intorno all’immigrazione (che gli immigrati portano via il lavoro, che si approfittano dell’assistenza pubblica, che sono criminali e terroristi) sono state smontate anche da think tank conservatori come il Cato Institute (15 Myths About Immigration Debunked | Immigration | Carnegie Corporation of New York). Il Congressional Budget Office, che è un ufficio indipendente dai due partiti maggiori, ha rilasciato di recente un rapporto nel quale sostiene che, anzi, gli Stati Uniti avrebbero bisogno di più immigrati. Costano, è vero, e utilizzano le risorse collettive, ma nei prossimi dieci anni grazie al loro ingresso nella forza lavoro farebbero scendere il deficit federale di circa 900 miliardi di dollari. 

Non sono questi gli argomenti che convincono Joe Sixpack (“Joe Sei Birre”, nomignolo affibbiato al lavoratore medio). Il numero degli ingressi è passato dai 700.000 del 2020 a 1.018.000 del 2022, e da allora non è sceso. Negli ultimi mesi c’è stata una stretta sul numero degli ammessi come richiedenti asilo, ma né il personale né le procedure attuali sono più adeguate per esaminare in tempi ragionevoli le masse che premono ogni mese ai confini della California, dell’Arizona e del Texas, più coloro che entrano dalla Florida o dal Canada. 

Per ora, il solo programma uscito dalla campagna di Trump è che ci sarà “la più grande deportazione della storia” (verso dove? si sa che chi arriva distrugge i propri documenti per non essere rimpatriato). Ma se Kamala Harris non riuscirà a contenere la furia di Trump su un argomento che è vincente, e se non riuscirà a rendersi credibile come l’unica in grado di regolare l’immigrazione, il suo cammino verso la Casa Bianca sarà molto, molto accidentato. Avrà il voto dei neri (non tutti), avrà il voto delle donne (non tutte, ma certamente di quelle che hanno a cuore la legislazione sull’interruzione della gravidanza), avrà il voto dei giovani (molti), ma non vincerà in Pennsylvania, in Michigan e nel Wisconsin, e dunque non vincerà tout court, se non riuscirà a convincere almeno una piccola parte del popolo che tende verso Trump. 

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