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Largo agli eventi canaglia
Pubblicato il 14 aprile 2006 sul quotidiano «Libération», all'indomani della fine di una contestazione che aveva impegnato il governo francese fin dai primi giorni di febbraio, l'articolo di Jean Baudrillard adotta le pieghe della cronaca giornalistica solo per proseguire quanto già esposto in scritti come Carnaval et cannibal (2004) o nel successivo Le mal ventriloque (2006). In ciascuno di questi, l'attenzione concessa al dettaglio visibile di un fatto, sia questo quanto di più attuale o locale si possa considerare, dischiude la possibilità di cogliervi l'intensità propria di un evento inconciliabile con la struttura egemonica in cui esso, suo malgrado, si inserisce.
È in questi termini che andrebbe letta l'attenzione prestata da Baudrillard alle convulsioni che accompagnarono le più recenti proposte della politica istituzionale francese. Il governo presieduto da Dominique de Villepin, il quale si era già distinto l'anno precedente per aver fronteggiato le rivolte delle banlieues decretando uno stato di emergenza della durata di tre mesi («Siamo di fronte a individui determinati, a bande strutturate, alla criminalità organizzata, che non arretra davanti ad alcun mezzo per far regnare il disordine e la violenza»), si espose in seguito con la proposta di una «legge per l'uguaglianza di possibilità», avente l'obiettivo di regolare l'accesso al mercato del lavoro e dell'educazione.
Di notevole rilievo fu la conseguente istituzione di uno speciale contratto di prima assunzione (CPE, contrat première embauche) il quale, secondo le intenzioni dei suoi ideatori, avrebbe dovuto arginare i problemi di occupazione dei giovani francesi, ma che di fatto avrebbe comportato, tra possibilità di licenziamento senza giusta causa e assenza di sussidi di disoccupazione, una precarizzazione senza precedenti della situazione lavorativa.
E tuttavia, secondo Baudrillard, gli scontri che si protrassero nelle settimane successive alla promulgazione della legge, concludendosi solo con l'abrogazione della stessa, trovano nell'opposizione al governo vigente una motivazione tutto sommato incapace di spiegare tanto il loro scatenarsi quanto la dinamica stessa del proprio movimento. Prova ne é la repentina metamorfosi che dovette subire la stessa protesta, scissa al suo interno tra il fronte compatto di sindacati e associazioni, interessati a prendere parola e a formulare rivendicazioni contro le istituzioni, e le singolarità sollevatesi a dispetto di ogni forma di inclusione, fosse anche quella promessa dall'antagonismo.
Presto marchiate con i tratti di casseurs o di voyous de cité, esse in realtà testimoniano dell'eccesso a cui ogni politica si espone – e che ogni politica reca con sé – ogni qualvolta un gesto interviene a sconquassare l'anodina ovvietà con cui ogni partizione ammanta il proprio esclusivo diritto di esistenza.
D'altra parte, sostiene Baudrillard, se la rivolta contro il CPE ha fatto evento senza risolversi semplicemente in farsa, è perché in essa non si è trattato di assumere una posizione conflittuale all'interno di un rapporto di forza, e nemmeno di inasprire una precisa opposizione alimentando qualcosa come un sentimento di rivolta: lungi dal riproporre la classica relazione tra dominanti e dominati, nell'orizzonte della quale ogni liberazione non può che coincidere con una nuova dominazione, la resistenza che l'evento della rivolta reca con sé assomiglia piuttosto a un movimento di deposizione del potere stesso, al rifiuto delle stesse condizioni d'esistenza che questo impone.
Da qui la qualifica di «evento canaglia», evento che emerge dal continuum della temporalità quotidiana spettacolare, ma solo per lacerarne irreparabilmente il tessuto. Simile allo scandalo che accompagna l'irruzione di un dettaglio perturbante all'interno di una visione appagante e pacificata, la rivolta è canaglia laddove essa revoca, con il suo stesso manifestarsi, qualsiasi legittimità concessa all'ordine imperante.
Fotografia di Thomas Pachoud @pach
Largo agli eventi canaglia
di Jean Baudrillard
Rendiamo grazie al Sig. de Villepin di sacrificarsi sull'altare del potere, non solo per ambizione personale ma per provare che vi è ancora del potere, e per salvarne l'idea, su una scena politica in piena decomposizione. E nel suo caso questo è tanto più patetico in quanto egli lo fa nel nome del liberalismo mondiale, lo stesso che, giustamente, mette fine un po' dappertutto all'esercizio del potere propriamente politico. Dall'altra parte, e qui sta tutta l'ironia della situazione, i giovani e gli studenti si battono anch'essi per salvare una vecchia idea, quella della rivolta, e per lasciar credere che vi sia ancora, al fondo di questa società stagnante e marcescente – i cui soli ideali sono diventati quelli del confort, della performance e della sicurezza – una forza viva e irriducibile, di rifiuto e di sovversione. Ma quel che qui vi è di più strambo e di più patetico, è che essi lo facciano rivendicando esattamente i modelli di vita e di società, di programmazione economica del lavoro e dell'esistenza che sono all'origine della noia e del disincanto di questa società stessa.
A questo livello d'interpretazione, il bilancio è dunque piuttosto costernante: si ha a che fare con un evento farsa, in cui uno si recita il melodramma del potere e gli altri quello della rivolta, senza che nessuno vi figuri davvero come attore storico. Si avrebbe a che fare con questa «farsa schizofrenica» di cui parla Ceronetti, trompe-l'œil destinato a mascherare la fine di ogni potere, tanto a quelli che credono di esercitarlo quanto a coloro che credono di subirlo, così come al contempo la fine di ogni contro-potere. Duo teatrale e senza convinzione. Forse si tratta solo del fatto che, se pur vi era un soggetto della storia, non vi è più un soggetto della fine della storia...
Questa è l'interpretazione al primo livello, ma una tutt'altra interpretazione è possibile se si prende l'evento di profilo, e non frontalmente, cioè se si isola radicalmente l'evento da tutte le sue pretese motivazioni, le quali ne fanno un'equazione a somma zero. Se lo si ripensa nella successione di eventi dello stesso tipo, o meglio atipici, che ci si sforza di far passare per sintomi di una crisi politica e sociale. Il «21 aprile», il «no al referendum», i moti di novembre, le convulsioni del CPE: altrettanti eventi complici, più o meno ciechi, di eventi imprevedibili, recalcitranti, che chiamerei «eventi canaglia». Proprio come gli «Stati canaglia», i quali si sottraggono all'ordine mondiale e alla sua impresa egemonica, questi eventi fanno irruzione su una scena politica completamente disinvestita e squalificata. Essi non ne cambiano i dati, dal momento che questa scena non merita nemmeno di essere cambiata. (È senza dubbio questo il motivo per cui gli studenti, a differenza di quelli del '68, non hanno mai potuto, né mai voluto, far alzare le poste in gioco politiche, poiché, in fondo, non si ha più nemmeno abbastanza potere dinanzi perché lo si voglia rovesciare.)
Queste convulsioni non si inscrivono nella continuità degli eventi storici, ma traducono, di là dal politico, una reazione, un'abreazione ben più profonda, a un ordine del mondo divenuto insopportabile. A questo punto, poco importano in fin dei conti gli attori, siano quelli che hanno votato Le Pen il 21 aprile, la massa «reazionaria» che ha votato no al referendum, i barbari delle banlieues o gli studenti del CPE. E poco importano ugualmente le motivazioni avanzate, per la maggior parte del tempo irreali e derisorie. Quel che importa è il fatto che tali eventi canaglia (rogue events) mettono fine per un certo tempo alla successione degli eventi farsa, degli eventi fantasma (fake events, ghost events), elezioni, corruzione, rivoluzione digitale, ecc. che riempiono la nostra attualità nel corso dei giorni e degli anni.
D'altra parte, questo concetto di evento canaglia può espandersi ben oltre la scena politica. L'influenza aviaria, la mucca pazza, i sismi e le catastrofi naturali ne fanno a loro modo parte. Si è perfino annoverato lo tsunami sotto l'asse del Male! (e nell'influenza aviaria sono le anatre selvagge a portare il virus del terrore). Certo, è l'importante evento dell'11 settembre ad aver inaugurato questa nuova sequenza di eventi paralleli, incontrollabili, e che apre su quel che sarà ormai il grande antagonismo mondiale, che non è più soltanto politico, economico o sociale, ma anzitutto simbolico, tra una potenza che mira a un dominio totale sulla realtà, e una contro-potenza oscura, quella del mondo che resiste ciecamente alla sua stessa mondializzazione. E questo non si gioca in termini di rapporti di forza: il duello è asimmetrico.
Là, il sistema, che certo non ha più niente da temere dalla rivoluzione, farebbe bene a diffidare da quel che si sviluppa così nel vuoto. Questo perché più si intensifica la violenza integralista del sistema, più vi saranno singolarità a sollevarsi contro di essa, più vi saranno eventi canaglia. I nostri piccoli eventi francesi possono sembrare insignificanti sulla nostra scala (e, da un certo punto di vista, lo sono), e tuttavia, considerati a un altro livello, essi resuscitano l'essenziale, l'insurrezione mentale contro il peggio.
Il potere, lui o quel che ne resta, non ha più che una funzione securitaria, preventiva e poliziesca: annullare, liquidare, cancellare le tracce di questi eventi fuori norma. Per quanto riguarda il cancellarne le cause, ciò è impossibile, bisognerebbe cambiare tutti i dati, mentre il potere, tale e quale è, non vive che di questa situazione imputridita. Disinnescare simili situazioni, salvare le apparenze (esattamente quel che si fa adesso in Francia). Ma si sa come tutte queste procedure di recupero non abbiano mai fatto altro che fomentare ulteriori eventi ancor più gravi. Dietro le sfide ideologiche degli uni agli altri, dietro la confusione della scena mediatica, bisogna cogliere quale situazione mondiale è in gioco: quello dello scontro tra una potenza egemonica, padrona dei rapporti di forza, e una resistenza irriducibile che può sorgere da ogni dove.
A questo livello, i giochi non sono fatti, e la suspence è totale.