Speciale
Con le unghie e con Bob Marley
Cosa fa chi non lavora? Vorrebbe davvero lavorare o va bene così?
Ha riscoperto il tempo libero o riabilitato il tempo perso?
Cosa vogliono questi giovani temporeggiatori senza guerra?
Cari voi, se davvero il lavoro nobilita l’uomo, allora siete in dolce attesa.
Tutti i sensi di colpa di pre- e ultra-trentenni: diteci la vostra a: dolceattesa@doppiozero.com
La prima cosa che ho fatto quando sono tornata a Palermo è stata iscrivermi al collocamento. Otto anni fa bisognava svegliarsi alle sei e portarsi i panini da casa, ora arrivi a mezzogiorno e gli impiegati ti offrono il caffè alla macchinetta. Nella stanza dei colloqui, di fronte alla scrivania, è appesa la fotocopia ingrandita di un articolo che parla di una palermitana emigrata in Svizzera. La signora mi fa: Hai capito? Capito cosa? le ho detto. Bisogna andarsene via, scappare finché si è giovani. Del mio curriculum le interessava solo l’email per inviarmi i link sulle possibilità di lavoro in Inghilterra. A quanto pare sua figlia viveva lì. Poi mi ha mandato da una sua collega che si occupava della domanda e dell’offerta. Mentre mangiava i cracker mi faceva vedere su internet i siti degli annunci, che già conoscevo a memoria. Che sai fare? mi ha chiesto. Sono laureata in lingue. Ok, mi fa, mettiamo come parola chiave: inglese. Sono usciti due annunci. Mi ha detto che se la chiamavo nel pomeriggio si sarebbe fatta dare informazioni da suo cognato su come diventare traduttrice per il Tribunale. Nel frattempo è tornata l’altra signora che col sorrisetto voleva sapere se avevo trovato niente.
Hai visto? Te ne devi andare.
A Roma mi svegliavo alle sette e uscivo con la carpetta dei curricula in mano. Per strada incontravo altri con carpette di colore diverso. Dopo i colloqui andavamo al bar e ci scambiavamo servizi, come nella banca del tempo. Il venezuelano Jesus per esempio mi ricostruiva le unghie e io gli davo lezioni di italiano. Ci ritrovavamo a camminare con i pugni chiusi per il Colosseo dicendo: Ce la faremo, ce la faremo. E i turisti ci chiedevano: A fare cosa?
A Palermo di carpette non se ne vedono. Ogni giorno incontro mio cugino disoccupato, col Rolex, fermo davanti al fruttivendolo. Si fa dire da tutti cosa cucineranno quel giorno. Poi verso le undici porta i caffè e i cornetti agli impiegati delle Poste, senza avere la mancia. Credo gli piaccia la ragazza nuova che chiama un numero ogni mezzora. Jesus diceva che le migliori occasioni arrivano all’aria aperta: quando viveva a Berlino aveva conosciuto alla fermata dell’autobus un regista che l’aveva ingaggiato come controfigura. Sul curriculum l’aveva segnalato in neretto per impressionare Cinecittà, ma non ha impressionato.
Per stare all’aria aperta mi seggo sulle panchine della marina a osservare la gente. Cerco di indovinare che lavoro fanno, come nel programma di Fabrizio Frizzi. Ci sono miliardi di lavori di cui ignoro l’esistenza. Sul marciapiede passa un motorino bianco con attaccato uno stereo che manda Get up stand up a tutto volume. A guidarlo è un tizio di colore che quando vede un po’ di gente, si ferma, scende e si mette a cantare insieme a Bob Marley – in realtà ripete le ultime parole delle strofe. Tenta qualche movimento scoordinato di spalle e di gambe. Cadono tutti gli stereotipi sui neri. Non vuole fare ridere, non so cosa vuole fare ma attorno a lui si è fermato un cerchio che gli riempie anche di banconote il bicchiere di plastica. Lui ha risolto. Inventarsi un lavoro si può. Ne sono ancora più sicura da quando ho visto Sandokan, l’uomo con la spada di plastica, senza denti, che cantava Sandokan nelle trattorie, passeggiare per strada vestito col maglioncino e i pantaloni sistemati. Non ero solo io che mi ero voltata a guardarlo. Ho telefonato alla signora del collocamento e le ho detto che se anche Sandokan “si fici i picciuli” forse non è necessario andare in Inghilterra.