Speciale

Le macchine di Cipputi

11 Settembre 2023

Ora che presumibilmente è in pensione, Cipputi compare meno spesso nelle vignette del suo creatore Altan. Ma quando appare è perché sono in gioco valori importanti: a quasi 50 anni dalla sua prima vignetta, oggi l’operaio metalmeccanico per antonomasia dispensa le sue perle di saggezza con la consueta amara ironia, ma col tempo ha acquisito quasi un ruolo di “garante”, come spiegava qualche anno fa lo stesso Altan in un dialogo con Michele Serra. È un po’ come se Cipputi fosse un presidente della Repubblica nel mondo del fumetto italiano.

Del resto esiste già un monumento che lo raffigura: creato da Pietro Perotti (operaio di Mirafiori), il Cipputi tridimensionale in questi giorni fa bella mostra di sé al Mast di Bologna, che fino al 30 settembre ospita la mostra Animo, Cipputi!. In esposizione ci sono più di 200 vignette tra stampe e originali, in un percorso dagli anni ’70 a oggi che è anche un viaggio (a fumetti) nel mondo del lavoro in Italia.

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A vederle radunate tutte insieme, dalle vignette di Altan emergono degli aspetti di cui normalmente non ci accorgiamo. Ad esempio: il nostro operaio ci ha messo un po’ a guadagnare il suo celebre cognome. In una teca c’è la sua primissima apparizione, una vignetta del 1976 in cui si chiama Cipputo con la “o”; in un’altra si chiama invece Cipponi, ma molto presto si afferma la sua vera identità: Cipputi con la “i” finale e basta, senza nome di battesimo. Al limite Cippa per gli amici. Del resto è l’unico in fabbrica ad avere un cognome fisso, tutti gli altri innumerevoli operai non si ripetono mai due volte, anche se tra i requisiti per essere assunti sembra esserci un’abbondanza di zeta nel cognome, tra i vari Bigazzuti, Busdazzi, Pinazzi, Benvenazzi e Cruscuolazzi.

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Ancora in una delle prime vignette degli anni ’70 due operai sono al lavoro su una macchina: la mano di uno dei due, mozzata, è caduta a terra, mentre dall’avambraccio monco zampillano gocce di sangue. “Son cose che capitano al massimo due volte”, è la battuta che accompagna il disegno. Ma è l’unica vignetta in cui le macchine sono effettivamente minacciose ed è significativo che i due operai protagonisti non siano in realtà Cipputi (nessuno dei due indossa i suoi caratteristici occhiali tondi). Perché il rapporto di Cipputi con le macchine è diverso. Siamo abituati a vederlo comparire appoggiato alla macchina, o intento a oliarla, avvitarla, trapanarla, come fosse una sua estensione. Ma di solito vediamo una vignetta alla volta, e in quel caso la macchina è lì a rappresentare “la fabbrica” o “il lavoro”. Invece, esplorando le 200 e passa vignette in mostra, ci si accorge che le macchine di Cipputi sono sempre diverse. Viene allora da chiedersi: ma che tipo di operaio è esattamente Cipputi? Dovrebbe essere un addetto alle presse, ma che cosa producono veramente le macchine su cui lavora?

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Il fatto è che le macchine di Cipputi sono macchine fantastiche. Apparentemente solide, sono in realtà fragilissime come tutte le creature della fantasia, e più che a vere presse assomigliano alle macchine “inutili” di Bruno Munari. A loro Cipputi si appoggia, le cura, a volte le maltratta. In una vignetta estiva se le porta dietro anche in vacanza: mentre gli altri costruiscono castelli di sabbia lui ha costruito una macchina. Sono lo scenario della maggior parte delle vignette in mostra, più raramente Cipputi è in pausa, seduto a un tavolino a parlare con un collega, e ancora meno spesso è in famiglia. La macchina è insomma per Cipputi l’equivalente della cuccia per Snoopy.

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Le macchine di Cipputi sono sempre diverse, abbiamo detto, ma sono anche sempre uguali. Nonostante il trascorrere del tempo. I decenni passano, gli operai da protagonisti della scena politica vengono spinti sempre più in disparte, fin quasi a essere considerati estinti. Così nelle vignette degli anni ‘80 Cipputi sembra trovare nelle sue macchine un’ancora: “Perché vieni a turbarmi il mio placido tran tran?”, chiede al collega che gli parla dell’ennesima crisi. E poi in queste macchine non c’è segno di progresso tecnologico e tantomeno digitale. Pur nella loro fragilità di macchine di carta, rimangono qualcosa di molto concreto, da oliare e saldare. E insieme alle macchine vengono gli attrezzi: chiavi inglesi giganti, pistole pneumatiche, tenaglie, leve, bottoni. E la tuta blu. Ma questa può variare, a seconda di quanto richiesto dai mercati o dai padroni, o anche come piccolo segno di ribellione. Una volta Cipputi è a torso nudo, un’altra ha il cavallo troppo lasco. In un caso la tuta diventa da sci, per andare “sulle Alpi con l’Agnelli”.

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A cosa servono, che cosa producano queste macchine, non sembra essere chiaro nemmeno allo stesso Cipputi. “Ma cos’è quel pezzo lì?”, gli chiedono mentre è intento a battere col martello su un’incudine. “Non so. So che dopo glielo passo a uno della Cisl che ci fa dei buchi. Poi viene uno della Uil e ci mette dei bulloni”. Anche i “pezzi” che escono dalla macchina hanno una consistenza strana, plasmabile, assomigliano a strisce di liquirizia o a qualche dolciume uscito dalla fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Ancora una vignetta: “Ma cos’è che triti, Cipputi?”. “Merda secca. L’importante è la produttività, Benvenazzi”. C’è qualcosa di organico, in queste macchine. E infatti sulla macchina Cipputi ci mangia anche, perché “ci voglio far conoscere il costo della vita”. È un rapporto d’affetto. E man mano che gli operai sembrano scomparire, Cipputi rivendica la sua simbiosi con la macchina, che poi è amore per il lavoro, per il lavoro ben fatto, come quello di Tino Faussone in La chiave a stella di Primo Levi. A chi gli chiede: “Ma cosa stai lì a lavorare che tanto viene la crisi?”, Cipputi risponde: “Mi fa bene sul piano psicologico, Guzzoni. Scarico le mie nevrosi”. Con l’arrivo degli anni ’90, l’operaio di Altan è sempre più esplicito: “A me se non mi sfruttano, perdo l’identità”, dice in una vignetta.

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Nelle vignette più recenti c’è spazio anche per la nostalgia. In una vediamo Cipputi in un raro contesto familiare, in poltrona mentre dialoga con un (presunto) nipotino. “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro?”, gli chiede il ragazzino, “Una volta, quando ero giovane”, risponde l’operaio. Nostalgico sì, ma fino a un certo punto: mai abbandonare l’ironia. Se dopo cento anni di lotte i risultati raggiunti non sono quelli sognati, “almeno abbiamo fatto un po’ di moto”.

La mostra è accompagnata dalla proiezione di spezzoni dal documentario di Stefano Consiglio Mi chiamo Altan e faccio vignette (2019). Il catalogo, intitolato Al lavoro, Cipputi!, è pubblicato da LiberEtà.

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