Giorgio Agamben. Il fuoco e il racconto

20 Giugno 2014

Parola di filosofo: le classifiche dei libri più venduti sono «infami» («sì, infami», ribadisce). Osservate dalle alture spirituali che sono la dimora abituale di Giorgio Agamben, molte altre cose, com’è facile intuire, potranno apparire ancora più detestabili ed inutili. Tacciabile d’infamia è soprattutto quell’immane e universale degradazione che ha trasformato l’arte, la letteratura, la religione e la stessa filosofia in «spettacoli culturali» privi di ogni «efficacia storica».

 

Per non parlare, aggiungo io, di una critica letteraria capace di risultare, con eccezioni sempre più rare, nello stesso tempo vacua ed asfissiante, e cronicamente incapace di intuizione. Anche per questo la lettura dei saggi raccolti in Il fuoco e il racconto equivale a un atto salutare di liberazione. Ebbene sì, proprio perché sappiamo che la vita è breve, e i suoi possibili significati sempre incerti e caduchi, tanto vale concedere a se stessi le maggiori ambizioni, e puntare dritto nella direzione delle cose supreme.

 

 

Si può non essere d’accordo su molti singoli giudizi, certamente, ma la fiducia che volentieri si concede alle argomentazioni di Agamben discende dal fatto che, per lui, quel volare alto a cui si accennava non è affatto una posa, una strategia per acquistare autorevolezza. Nell’eterna commedia dell’arte intellettuale, Agamben non indossa nessuna maschera. Vola alto perché non sa volare altrove. E ci trasmette, prima ancora che un certo numero di conoscenze, la passione per un metodo interamente fondato sulla «capacità di sviluppo» riconosciuta nelle parole degli scrittori che ama.

 

Nella sua essenza più intima, l’atto di lettura consiste proprio in questo: appropriarsi del già detto, del già pensato, per condurlo oltre le soglie del non ancora detto, dell’impensato. Esemplare in questo senso è il saggio (forse il più coinvolgente dell’intera raccolta) dedicato all’«atto di creazione». Il punto di partenza di Agamben è una conferenza del 1987 di Gilles Deleuze, nella quale il gesto creativo è definito come un «atto di resistenza».

 

La formula lo convince proprio perché le sue implicazioni sono rimaste inespresse, e permettono a chi viene dopo di andare più a fondo. Cos’è esattamente che «resiste», nella creazione ? Un’inveterata abitudine fa apparire le cose più semplici di quello che sono. Se pensiamo a un’opera, pensiamo automaticamente a una potenza, a un’abilità, a un talento che l’artista trasforma in un atto, in una manifestazione concreta di un’energia interiore che altrimenti rimarrebbe muta e sepolta.

 

Non è un pensiero sbagliato, ma incompleto. Il fatto è che questa forza che conduce dalla potenza all’atto è troppo immensa per posare sulle spalle del singolo individuo, fosse pure Michelangelo o Tolstoj. Simile alle manifestazioni della natura, ha un carattere fondamentalmente impersonale, che ogni singolo artista, con un movimento che ha del paradossale, boicotta a modo suo.

 

 

E’ proprio a questo punto che l’idea di «resistenza» appena abbozzata da Deleuze si rivela preziosa, a patto di venire sviluppata. Perché in un delicato e mutevole gioco di equilibri, il singolo è colui che oppone alla possibilità di fare quella di non fare, alla parola trovata tutto l’inespresso che la circonda. Dunque noi ci esprimiamo anche attraverso il nostro tenace resistere all’espressione, ed è questa riserva di libertà a determinare quello che chiamiamo stile. Se non avessimo questa risorsa, e ci limitassimo a considerarci i docili strumenti di una potenzialità che si realizza senza ostacoli, a rigore non potremmo nemmeno parlare di «arte».

 

Illuminanti in questo senso sono alcune figure di artisti prersenti nell’opera di Kafka, caratterizzate proprio da «un’assoluta incapacità» che riguarda proprio...la loro arte. Come il grande nuotatore, che pur avendo conquistato il «record mondiale», non sa dire come lo ha ottenuto, visto che pur avendone sempre avuto il desiderio, non ha mai trovato il tempo di imparare a nuotare. «In realtà, io non so nuotare»: l’indimenticabile confessione del campione kafkiano equivale, per ogni artista, al «conosci te stesso» dell’oracolo delfico.

 

Abbiamo intuito qualcosa di fondamentale del processo creativo quando riusciamo a comprendere che «il grande nuotatore nuota con la sua incapacità di nuotare». Non c’è nemmeno bisogno di aggiungere che è questo tipo di pensiero, così illuminante e capace di procedere nella contraddizione, che viene sistematicamente rimosso o censurato in un’epoca in cui non si chiede nient’altro all’artista che di dar forma agli effimeri spettacoli del successo, della moda, del «romanzo ben fatto».

 

L’esatto contrario delle meditazioni di Agamben potrebbe essere riconosciuto negli stolidi precetti dello storytelling che si impartiscono nelle cosiddette scuole di scrittura, con il loro sistematico obliterare le imprevedibili esigenze del singolo in nome di un’«efficacia» che nel migliore dei casi potrà avere solo delle conseguenze commerciali. Per sua natura, infatti, il mercato non può essere altro che una macchina fondata sull’«impersonale». E proprio in questo, forse, consiste l’«infamia» delle classifiche denunciata da Agamben.

 

A dispetto dell’apparente varietà delle loro trame e dei loro personaggi, in effetti, è innegabile la sensazione che tutti i libri di successo si assomiglino profondamente. Considerato come artigiano del plot, questo tipo oggi dominante di scrittore deve procedere proprio ricorrendo sempre di più all’elemento «impersonale» della creazione.

 

Come sempre quando si chiude un libro di Giorgio Agamben, la sensazione è quella di scendere da un tappeto magico. La festa è finita: bentornati nella stagione dei premi letterari, dell’ultimo giallo del vecchio maestro, della nuova saga familiare della giovane promessa. Ma una domanda sorge spontanea: chi ci impedisce di restare lassù, in compagnia di Agamben? Ce l’ha ordinato il medico, di essere più stupidi di lui?

 

Questo pezzo è apparso in precedenza sul Corriere della sera.

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