2 luglio 1935 – 19 maggio 2019 / Nanni Balestrini, o del passare bruciando
Dell’implacabile remixatore che è stato Balestrini, delle sue stesse parole oltre che di quelle di tutti gli altri, la poesia forse più rappresentativa non sta dentro nessuno dei suoi libri. Figura infatti solo sulla copertina di un suo libro, fatto di altri suoi libri (l’autoantologia Poesie pratiche, uscita nel 1976 nella “Bianca” Einaudi), quella che recita: «con gli occhi del linguaggio / non la riproduzione / dietro la pagina / un vuoto incolmabile / non mima niente / nel paesaggio verbale / l’arte dell’impazienza / sovrappone un’altra immagine / mentre passiamo bruciando» (l’auto-cut-up proviene da Ma noi facciamone un’altra, la seconda raccolta poetica fatta uscire, con l’infallibile senso della tempestività che lo contraddistingueva, in un attimo climaterico – e in tutti i sensi bruciante – come il ’68). E bruciata tutta in un attimo, davvero, ci appare oggi la parabola da lui tracciata – fra letteratura, arte e politica – per più di sessant’anni. Ci si ricorda di un altro spirito sessantottesco, quello di Guy Debord e del suo in girum imus nocte et consumimur igni; e magari soprattutto – pensando al sorriso che dalle labbra di Nanni, anche nei momenti più duri, mai s’è dileguato – a un suo archetipo come il Figaro di Rossini (che alle sue origini in Beaumarchais, vale la pena ricordare, è un eroe rivoluzionario): il «factotum» che è «pronto a far tutto», e «la notte e il giorno sempre d’intorno in giro sta».
Pare uscito proprio dalle labbra di Figaro, il generoso di sé per antonomasia, Ce n’è per tutti: il titolo, fra gli ultimi usati da Balestrini, che vale come il suo più fedele autoritratto “pratico”. Artista renitente alle poetiche quanto uomo su di sé riservato, nelle sedi di rendiconto, negli ultimi anni fisiologicamente sin troppo infittitesi (se non altro per l’incombenza uggiosa degli anniversari; per non parlare degli epicedi, a lui anche apotropaicamente tanto discari), Nanni ha sempre preferito scrivere una nuova opera, allorché s’è trovato nell’incombenza di commentarne un’altra, propria o altrui. C’era sempre da farne un’altra – mille altre –, piuttosto che starsene lì ad assaporare la precedente. Ce n’è per tutti, appunto, s’intitola la serie di collage, datata «2017», che ha voluto in coda al terzo volume dei suoi Opera omnia poetici (Caosmogonia e altro, uscito nel 2018 da DeriveApprodi dopo i precedenti Come si agisce e altri procedimenti, del ’15, e Le avventure della signorina Richmond e Blackout, del ’16); e lo stesso titolo ha dato alla sua ultima mostra: a Bologna lo scorso gennaio.
Vengono in mente i personaggi pluriprospettivisti della narrativa modernista, come lo Jakob Abs delle Congetture di Uwe Johnson (uno dei libri “eroici” della nuova Germania, tradotti da Enrico «Nani» Filippini, che segnarono la “sua” Feltrinelli nei primi Sessanta; della Germania era originaria la famiglia materna di Balestrini, e dai protocolli del Gruppo 47 prese ispirazione per quelli ominosi del nostrano 63), o il Charles Foster Kane del Citizen cinematografico, il Quarto potere di Orson Welles, o ancora i ritratti cubisti di Picasso e, forse meglio, quelli post-tali di Francis Bacon (da frasi icastiche di Bacon, oltre che di John Cage e Jean-Luc Godard, aveva tratto Balestrini le parole dei tre magnifici poemetti che aprono l’ultima raccolta Caosmogonia, pubblicata nel 2010).
L’individuo non è ineffabile per l’insondabile sua supposta interiorità (come nella tradizione umanistica e idealistica); viceversa è tale per come è tutto rivolto all’esterno – scuoiato ed eviscerato, come in una certa terribile poesia del maestro Edoardo Sanguineti –, diffratto ed “esploso” in tutte le direzioni. (È la dimensione che Lacan, con uno dei suoi concetti più geniali, definiva estimità.) Ricordo che quando una volta avevo azzardato un parallelo fra il cut-up delle parole dei giornali, da lui riplasmate nei collage verbali che da molto presto sono stati il suo metodo di composizione preferito, e l’attrazione che per lo stesso materiale aveva avuto Andy Warhol, Nanni mi disse che di lui gli era sempre piaciuta una frase tra le più provocatorie ma anche, a suo modo, fra le più vere: «Guardate semplicemente la superficie delle mie opere. Lì sono io. Dietro non c’è nulla». A sigla della sua maschera imperturbabile vale un aneddoto – dall’interessato smentito, ma non importa – che riporta Carla Vasio nel suo adorabile memoir sul ’63 e dintorni, Vita privata di una cultura: una sera, sull’autostrada per Milano, la sua auto slitta sull’asfalto bagnato e si ribalta, restando rovesciata su un fianco; dopo qualche minuto lo sportello rimasto in alto si socchiude e cautamente ne fuoriesce una mano, che sente la pioggia continuare a cadere; allora la mano si ritrae e lo sportello si richiude; poi si riapre, ne spunta un ombrello, dietro l’ombrello la mano, e dietro la mano «la testa del Nanni che è sgusciato fuori senza fare una piega, né sgualcito né bagnato».
È ineffabile, l’individuo, perché realisticamente non lo si può appunto vedere quale individuo.
Perché è uno, nessuno e centomila. Sicché ciascuno si trovi nei pressi, di quell’esplosione centrifuga, si trova a essere investito da uno dei suoi centomila aspetti, fra loro diversi e anche contraddittori. Il gesto più simbolico di tutta la sua avventura letteraria è allora quello datato 2007: quando, grazie alle nuove tecnologie di stampa informaticamente servoassistite, si rese possibile il sogno del romanzo “esploso”, in ogni cui copia ogni frase si dispone diversamente dall’altra, così rendendo ogni esemplare unico e “ineffabile”: allorché DeriveApprodi pubblica la versione definitivamente espansa, e infinitamente proliferante, di Tristano, il romanzo «sentimentale sperimentale» che Feltrinelli nel ’66 aveva dovuto necessariamente “cristallizzare” in una delle sue alternate takes, e che ora invece si presenta davvero differente in mano a ciascuno dei suoi possessori.
Oggi si dovrà allora ricordare anzitutto il poeta, che acerbo adolescente sottopone i primi tentativi all’altro maestro Luciano Anceschi, capitatogli fortunosamente in cattedra un certo anno scolastico dei più profondi Cinquanta, e poi non ha più smesso; ma anche l’artista visivo, maestro nel collage di immagini non meno che di parole (un’attività cui ha riservato sempre maggiore spazio a partire dalla partecipazione, invitato da Achille Bonito Oliva, alla Biennale del ’93); e poi il narratore “furioso” che a partire da Vogliamo tutto, nel ’71, imprime alla sua opera letteraria una svolta “politica” tanto discussa quanto seminale; nonché appunto il militante politico, da Potere Operaio all’Autonomia, che dalle conseguenze del teorema giudiziario del «7 aprile» – giusto quarant’anni fa – si salva (come mitobiograficamente si legge in quello che con ogni probabilità è il suo capolavoro, Blackout del 1980) sciando a valle verso la Francia: dove resterà esule sino all’assoluzione, cinque anni dopo, in contumacia. E c’è in fondo, nelle circostanze (casualmente autentiche) di questa peripezia, tutto Nanni: la souplesse impareggiabile di ogni suo gesto, la sprezzatura dandistica, la soavità flautata con la quale pronunciava le frasi più dure e sferzanti: scivolare fra luce e buio nella primavera frizzante, librarsi verso il basso sfruttando e così negando il proprio stesso peso, slittare a valle verso una béance tanto più dolce quanto più peritosa.
C’è infine un quinto Balestrini, che a lungo è stato il più considerato (dai più, per la verità, per ridurre la portata degli altri). Parlo dell’organizzatore culturale, del redattore editoriale, dell’artefice instancabile di riviste ed eventi: “oggetti” che senza dubbio hanno modificato in profondità il paesaggio del secondo Novecento e dei primi due decenni del nuovo secolo. È il Balestrini che ha contato eccome – posso testimoniare – nella formazione e nella crescita di almeno tre generazioni di giovani intellettuali (i quali in tutto questo tempo hanno cessato da un pezzo di essere giovani, e non solo anagraficamente). Ma, con quanto si è detto, questo Balestrini “relazionale” non può essere considerato occasionale o, avrebbe detto un filosofo d’antan, “allotrio”. Nell’ultimo libro pubblicato, il suo penultimo poemetto dedicato al cinquantennale del ’68 e intitolato giusto L’esplosione (pubblicato lo scorso febbraio, dalle Edizioni del «verri», con testi critici di Paolo Fabbri, Cecilia Bello Minciacchi e Milli Graffi), si legge che «non c’è un’immagine ci sono solo rapporti tra», perché è appunto la «relazione fisica / tra esseri sensibili e coscienti» la natura effettiva della nostra condizione umana, il fatto corporeo della voce attraverso la quale comunichiamo. In ogni situazione, politica o artistica (ove poi, viste in questo modo, tali sfere possano essere disgiunte), essenziale è vedere «non le cose ma quello che c’è tra le cose». Solo così gli individui possono uscire dal carcere di sé, lasciare Vuota la Gabbia dei ruoli e delle identità. Per questo «ogni storia appartiene a tutti»; e per questo quando meno ce lo aspettiamo, e più scura appare la tenebra in cui siamo gettati, come suona l’explicit dell’Esplosione «l’importante è sentire di esistere / poi all’improvviso arriva qualcosa / prima non c’è nulla poi all’improvviso».
Ma non è stata questa, l’ultima parola di Balestrini. Ma noi facciamone un’altra, sempre: e all’Esplosione ha fatto seguito allora un nuovo poemetto, Le radiazioni del corpo nero, datato «17 agosto-11 novembre 2018», che al contempo pare voler dire le conseguenze, di quell’esplosione e di quel bruciare (come il mangiafòco Boccanera del Palazzeschi pre-postumo d’immediato ante-guerra, 1915; e fa capolino pure il fait divers del «finestrino» da cui «spenzola la mano morta»…); ma anche tornare su un’immagine “cosmologica” che proprio all’indomani del 7 aprile 1979 – al nadir, cioè, dello zenit rappresentato dalla primavera del ’68 – Nanni aveva indagato una prima volta in un componimento intitolato Big Bang e uscito sul secondo numero della prima «alfabeta» (da lui preparata in ogni dettaglio, senza poterla poi vedere nelle edicole italiane), autoremixandolo poi nella XXIV del Secondo libro delle Ballate della signorina Richmond: laddove «la signorina Richmond medita sul big bang e su ciò che ha fine». Qui – nel momento in assoluto più tenebroso dell’esistenza sua personale e collettiva – Balestrini afferma che è il tempo più oscuro e confuso, appunto, quello che prelude alla luce più abbagliante. È la potenza e insieme l’atto: il Medioevo è già il Rinascimento, i tramonti sono già la nuova vita, la disperazione della storia è già il più luminoso dei futuri possibili. Come nel ritmo corporeo della circolazione del sangue il momento di massima espansione, la diastole, segue ed è causato da quello di massima compressione, la sistole; come nella teoria cosmologica del Big Bang, la cui vitale esplosione centrifuga segue alla massima contrazione immaginabile della materia e della luce: è la violenza della contrazione nello spazio «iperdenso» di una «storia» dalla «temperatura […] terribile», a produrre il «tempo zero da spezzarsi», sino a «emettere un è possibile»: producendo «l’energia // l’espansione l’esplosione / l’estensione». Sino a «un attimo prima», «tutto era tutto lo spazio» prigioniero di se stesso «uniformemente», e poi in un istante «immenso» tutto cambia tutto si muove tutto esplode «verso il rosso vertiginosamente».
Ora è di nuovo alla fisica dei corpi celesti che si rifà Balestrini.
Ma a quella sia pur traumatica apertura pare far riscontro, quasi quarant’anni dopo, una simmetrica e non meno catastrofica chiusura: se il corpo nero è in fisica, appunto, quell’oggetto che «assorbe tutto», tutta la radiazione elettromagnetica cioè, però «senza rifletterla» al suo esterno, almeno in forma visibile (cioè cromatica). La radiazione di un corpo nero è quella dunque che non si vede, non entra in relazione con l’esterno: non permette che altri corpi la ricevano e, a loro volta moltiplicandola, la riflettano sugli altri. (Mi fa notare Tommaso Ottonieri, in effetti, che il giorno che sarebbe stato l’84° compleanno di Nanni, il 2 luglio, è prevista un’eclisse di sole.) Per esempio quando, di un’esplosione remota, «si aggiunge il peso / di atrofizzate rievocazioni»; per esempio quando si «soccombe in / ciniche cospirazioni o / terrificanti armistizi». Quando pare ormai venuto il tempo di arrendersi all’incenerita pesanteur di un corpo del quale si avvertono, incontrovertibili, i segni del prossimo spegnimento. È allora che si manifesta minacciosa «l’ombra del nulla»; è allora che, «chiusi dentro», parrebbe non restare altro che «morire in piedi»; è allora che, dopo tanto fantasmagorico bruciare incandescente, infine «la stella implode». Eppure l’ultimo verso, quello appeso in fondo all’ultimo suo componimento, pare dire voler dire ostinatamente, catastroficamente, apocalitticamente altro. L’ultimo verso di Balestrini – lo si creda o meno – assicura che «ce la faremo».