Gli House organ in Italia tra sperimentazione e ricerca del consenso
Il 16 febbraio 2016 è morto a Lugano Eugenio Carmi, figura tra le più rappresentative dell’astrattismo italiano (e di cui fino al 13 marzo si può visitare al Museo del Novecento di Milano la mostra “Eugenio Carmi. Appunti sul nostro tempo. Opere storiche 1957-1963”, curata da Davide Colombo). Tre giorni dopo, il 19, si è spento a Milano Umberto Eco, che di Carmi era amico. La loro conoscenza risaliva, probabilmente, agli anni in cui Carmi era impegnato in un ambizioso progetto di ridefinizione delle strategie di comunicazione e relazioni pubbliche di una delle maggiori industrie genovesi, l’acciaieria di Cornigliano.
La volontà di imprimere un segno forte alla comunicazione aziendale, basandosi su forme astratte e un uso sapiente del colore, connota tutti i progetti di Carmi per la Cornigliano/Italsider, dai memorabili cartelloni antinfortunistici alle invenzioni grafiche con le quali impaginava dati aziendali e bilanci, da operazioni come la mostra “Sculture nella città” a Spoleto (1962) al disegno di cartellette e altri materiali d’ufficio. Ad affidare a Carmi il compito di ripensare il design della comunicazione aziendale era stato Gian Lupo Osti, che della Cornigliano era allora uno dei massimi dirigenti (http://www.aisdesign.org/aisd/il-dirigente-illuminato-e-il-fabbricante-di-immagini), e che aveva bisogno di un progetto che non rimanesse chiuso all’interno del perimetro aziendale ma contribuisse a ricucire i rapporti con la comunità locali dopo anni di incomprensioni e scontri. Rientrava in questo disegno la decisione di dar vita a una rivista, che avrebbe avuto in Carmi più che un art director, chiamandovi a collaborare, tra gli altri, Carlo Fedeli, responsabile dell’ufficio stampa e le attività editoriali, Claudio Bertieri, consulente per il cinema, Arrigo Ortolani e Luciano Rebuffo, passato dalla politica al giornalismo e già collaboratore di “Civiltà delle macchine”.
Uscita con cadenza bimestrale a partire dal 1957, la rivista “Cornigliano”, che nel 1960, a seguito della fusione con l’Ilva, venne trasformata nella “Rivista Italsider”, era pensata come un canale di dialogo tra l’azienda e i propri dipendenti, ai quali veniva spedita gratuitamente. Col succedersi dei numeri, la rivista si aprì progressivamente a tematiche di ordine più generale e si fecero più numerosi gli articoli di interesse culturale dedicati alle mostre, alle figure di noti architetti o ad argomenti come la poesia visiva. Non stupisce trovare fra i collaboratori della seconda serie intellettuali come Gillo Dorfles (Valore estetico e sociale del disegno industriale, n. 3, 1962) e appunto Umberto Eco (Le grandi paure, n. 6, 1962; Fumetti e cultura, n. 3, 1963).
Civiltà delle macchine.
La rivista è un episodio tra i più interessanti nel panorama della stampa aziendale di quegli anni – e bene ha fatto Carlo Vinti a dargli il dovuto risalto nel suo Gli anni dello stile industriale 1948-1965. Immagine e politica culturale nella grande impresa italiana (Marsilio, 2007). Ciò che distingueva le riviste di Carmi era la cura dell’immagine e l’ambizione di contribuire a educare il gusto dei lettori attraverso l’arte, e in particolare l’arte contemporanea. Le copertine di “Cornigliano” e della “Rivista Italsider”, con le loro riproduzioni di quadri di quelli che erano, e soprattutto sarebbero divenuti, alcuni fra i maggiori rappresentanti dell’arte di quel periodo, in particolare astratta, potrebbero figurare in un museo di arte contemporanea. Insomma siamo di fronte a una rivista che merita di essere ricordata, non solo per la qualità dei collaboratori, ma proprio per la capacità di fondare il progetto di modernizzazione che aveva in quegli anni nella grande industria il suo motore su una solida base estetica (con Giuseppe Lupo stiamo lavorando a un’antologia dei contributi più rilevanti).
“C’è una grande fioritura di riviste aziendali; è facile prevedere che il numero crescerà di anno in anno e che ogni branca dell’attività industriale o finanziaria o semplicemente commerciale, avrà il suo grande o piccolo Bollettino d’Informazioni” (L. Sinisgalli, Gratis et Amore, “Rivista Esso”, n. 1, 1952).
Era stato buon profeta nel 1952 Leonardo Sinisgalli nel segnalare la crescita dei periodici aziendali. Lui, del resto, alla stampa aziendale si era avvicinato nel 1937, fresco di laurea, collaborando con “Edilizia moderna”, edita dalla Società del Linoleum di Narni, del gruppo Pirelli, una rivista a cui aveva dato il suo inconfondibile segno, la “scoperta della pagina-doppia”, Guido Modiano. Era passato poi all’Ufficio pubblicità di Milano della Olivetti, per approdare, dopo la guerra, in Pirelli, chiamato da Giuseppe Luraghi a collaborare al rilancio dell’immagine dell’azienda e dei suoi prodotti. “Pensammo”, ricorderà anni dopo Luraghi, “che il miglior strumento potesse essere costituito da una rivista” che spaziasse dai temi più legati alla produzioni alle arti. Nacque così il rotocalco “Pirelli. Rivista di informazione e di tecnica”, il cui primo numero uscì nel gennaio 1948 vincendo la perplessità dei “titolari” (la rivista è oggi consultabile all’indirizzo http://www.fondazionepirelli.org/rivista/?page=/rivista).
Ri
Rivista Pirelli.
A rendere “scettici” Piero e Alberto Pirelli, per lo meno inizialmente visto che Alberto firmerà l’editoriale del primo numero, era la natura di un programma “che solo di striscio avrebbe rappresentato uno strumento pubblicitario per l’azienda”. Per ragioni diverse, questo programma, che non era solo pubblicitario ma aveva una valenza socio-culturale, preoccupava molti intellettuali vicini al Partito comunista. Mario Spinella e Fabrizio Onofri, ad esempio, vedevano nella “stampa padronale” soprattutto un mezzo di integrazione dei lavoratori nel sistema aziendale, versione travestita di antiche forme di paternalismo (Relazioni umane, Roma, Editori Riuniti, 1956, pp. 165 sgg.).
Nel 1953 esce a Roma “Civiltà delle Macchine”, ideata e diretta fino al 1957 da Sinisgalli, chiamato a quel compito da Luraghi, che aveva lasciato la Pirelli e si era trasferito alla direzione di Finmeccanica. Sinisgalli, forte di una solida preparazione tecnico-scientifica temperata da “una acuta sensibilità estetica” – come è noto, era anche poeta, da qui l’appellativo di “ingegnere-poeta” che lo accompagnò tutta la vita – fece della rivista un luogo di incontro e dibattito tra arte e tecnica, cultura umanistica e cultura scientifica, temi a cui avrebbe dato gran voga la pubblicazione nel 1959 del libro di C.P. Snow, The two cultures (tradotto nel 1964 da Feltrinelli, con introduzione di Ludovico Geymonat).
Credo bastino anche solo questi pochi accenni a mostrare il rilievo della stampa aziendale. Le sue origini risalgono al 1895 quando apparve il primo numero della rivista “La Riviera ligure di Ponente”, pubblicata dalla ditta olearia P. Sasso e figli di Oneglia. Era un quadrimestrale di piccolo formato (20 x 30 cm), con una grafica gradevole, in linea con il gusto del tempo, che alternava informazioni commerciali, rubriche di giochi e cucina, articoli sulla storia e la cultura regionale. La rivista era un house organ, anche se, probabilmente, allora nessuno ne aveva coscienza, tanto più che a partire dal 1899 avrebbe assunto un prevalente carattere letterario (http://www.fondazionenovaro.it/new/php/riviera.php).
Dopo questa pionieristica esperienza e il caso abbastanza isolato della “Rivista Fiat”, pubblicata a partire dal 1913, sospeso nel 1915 all’entrata in guerra, bisogna arrivare agli anni Venti per un primo significativo sviluppo della stampa aziendale. A comprendere l’importanza di uno strumento di promozione dell’azienda e dei suoi prodotti volto, contestualmente, a rafforzare il senso di appartenenza dei dipendenti e a fidelizzare la clientela, sono alcune grandi imprese produttrici di beni di consumo e servizi (“Rassegna dell’azienda Marzotto”, 1926; “Echi della Rinascente”, 1929; “Sincronizzando”, 1922; “Notiziario della Riunione Adriatica di Sicurtà”, 1933 ecc.). È però nel secondo dopoguerra che si registra, come segnalato da Sinisgalli, il pieno dispiegamento del fenomeno, sulla spinta, anche se non esclusivamente per questo, della diffusione delle politiche di human relation dirette a contenere la durezza dei rapporti sociali in fabbrica in un periodo di aspre contrapposizioni sociali e politiche.
All’inizio degli anni Cinquanta, secondo “Rinascita”, il mensile diretto da Palmiro Togliatti, le riviste “padronali aziendali” sono una quindicina, quadruplicate nel 1956: un anno più tardi sono ormai 82, con una tiratura media di 12.000 copie. E la crescita non si arresta. Silvio Golzio, docente di statistica dell’università di Torino e direttore generale della SIP, all’inizio degli anni Sessanta registra l’ulteriore espansione di un settore arrivato ormai ad avere oltre 100 testate e una tiratura complessiva di oltre un milione e mezzo di copie. In realtà gli house organ erano molti di più, sol che si considerino, come si dovrebbe ma non sempre si fa, anche la stampa di bollettini interni e semplici notiziari aziendali.
Naturalmente la loro qualità è molto diversa. Si va da riviste rivolte a un pubblico generalista e colto, come “Pirelli” e “Civiltà delle macchine”, portatrici di un disegno di modernizzazione culturale del Paese, ad altre dirette esclusivamente ai dipendenti, e quindi molto più ripiegate sui problemi del lavoro e sulle politiche ricreative e assistenziali; altre ancora sono semplici bollettini commerciali destinati a viaggiatori e agenti di commercio.
La diversità di obiettivi, di impostazione grafica e di spessore culturale non riduce il valore e il significato del fenomeno di insieme della stampa aziendale, una fonte interessante tanto per gli studiosi della comunicazione e della grafica quanto per gli storici. Stupisce quanto poco sia stata studiata. Almeno fino ad anni recenti. Nonostante la ricchezza e la varietà delle esperienze susseguitesi nel tempo, al di là di qualche sporadico contributo e di un paio di antologie dedicate agli esempi storici più famosi, sono relativamente pochi gli studi che si siano occupati di ricostruire organicamente il fenomeno degli house organ in Italia e di analizzarlo criticamente. È nato dalla consapevolezza di un vuoto, l’idea di un censimento descrittivo delle riviste aziendali (i cui risultati sono consultabili on line all’indirizzo housorgan.net). Il progetto, nato dall’incontro tra storici dell’impresa e storici del design e della comunicazione, è diretto da chi scrive e da Carlo Vinti, curatori del volume Comunicare l’impresa. Cultura e strategie dell'immagine nell'industria italiana (1945-1970) (Milano, 2010).
A conclusione di queste note vorrei richiamare due aspetti.
La diffusione della stampa aziendale coincide temporalmente con gli anni di maggiore sviluppo industriale del paese (1950-1973). A spingere le imprese a raccontarsi attraverso le pagine di riviste aziendali sono certamente anche ragioni di carattere strumentale riconducibili al clima degli anni Cinquanta e alle politiche di contrapposizione frontale al sindacato di classe. Tuttavia credo che oggi si possa tranquillamente tentare una lettura meno appiattita sulle contrapposizioni di un tempo. Mi sembra innegabile che alcune di queste riviste – oltre a quelle richiamate penso al “Gatto selvaggio”, la rivista dell’Eni, ideata e diretta da Attilio Bertolucci, per non parlare di quanto si muoveva attorno alla Olivetti – erano anche espressione di una volontà di rinascita civile e culturale del paese dopo la fine del fascismo destinata a incontrarsi con l’altro potente fattore di modernizzazione costituito dal modello americano arrivato in Italia per il tramite del Piano Marshall e dei comitati per la produttività. Quanto detto trova immediata corrispondenza nello spettro dei settori maggiormente interessati alla stampa aziendale. Il 33% di questi periodici era pubblicato da imprese metalmeccaniche, il 14% da società elettriche, il 10% da società petrolifere, mentre solo il 3,5% da società chimiche (ma si deve tenere conto della particolare concentrazione del settore, che aveva nella Montecatini il proprio pilastro, considerazione che non vale per il tessile, 6%, dove semmai sono le piccole dimensioni prevalenti a giustificare lo scarso interesse per la stampa aziendale).
Rivista Esso.
Di cosa si occupavano queste riviste, o meglio: dietro la varietà è possibile individuare delle tematiche ricorrenti? Direi di sì. A esempio, essendo rivolte prima di tutto ai dipendenti, si parlava della storia dell’azienda e dei suoi prodotti con l’obiettivo di rafforzare il senso di identificazione dipendenti/impresa; di tutto ciò che serviva a dare l'idea che i lavoratori facessero parte di una grande famiglia: attività ricreative, opere assistenziali, nati-mortalità ecc. (il giornale non deve dare l'impressione di essere la voce del padrone ma la voce dell’azienda in comunione di spirito con i lavoratori dirà Golzio); il lavoro e la formazione professionale, visti come mezzo per la propria affermazione e la sicurezza della famiglia: premi di anzianità ecc. In generale, ha osservato Bruno Pischedda, anche le riviste più ambiziose hanno l’obiettivo di familiarizzare i lettori con la modernità e i nuovi modelli di vita e consumo (Imprenditori passati in rivista, Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2011)
Non sono meno importanti i silenzi, ciò di cui si evitava accuratamente di parlare: di politica, di economia in generale e soprattutto di relazioni industriali (nel 1955, controcorrente, Giorgio Agosti, dirigente SIP con un passato azionista, nel suo diario annotava: “finché da parte padronale il contatto col personale sarà tenuto da un foglio sdolcinato come Elettrosip, non fa stupire che i lavoratori cerchino di dibattere i loro problemi in un organo loro proprio”, Dopo il tempo del furore. Diario 1946-1988, a cura di A. Agosti, Torino, 2005, p.47)
La stampa aziendale insomma, nonostante i suoi evidenti limiti (ma quale fonte non ne soffre) può essere un campo di studio interessante per lo storico. In questa prospettiva, vanno considerati due aspetti. Da una parte, le persistenze, ossia alcuni caratteri di fondo dell'industrialismo italiano: penso in particolare alle politiche di welfare aziendale eredi a loro volta di paternalismo imprenditoriale robusto e dalle molte facce. Dall’altra, gli elementi di novità nell'organizzazione aziendale in particolare nel settore delle cosiddette risorse umane, e nel disegno di fare della collaborazione con i dipendenti una delle leve (insieme ai processi di rinnovamento tecnologico) per un aumento della produttività del lavoro. Sono temi molto discussi, di derivazione americana e di forte impatto divisivo sul mondo della rappresentanza del lavoro, con fratture evidenti tra la Cisl e la CGIL.
Ora entrambe queste linee verranno messe in discussione e in crisi dall’esplodere della sindacalizzazione dei tardi anni Sessanta: non a caso si chiude allora la stagione d’oro delle riviste aziendali e la stessa collaborazione tra intellettuali e imprese che ne era stata una delle precondizioni (emblematico, in pieno Autunno caldo il rifiuto di Franco Fortini di firmare il testo di commento da lui scritto per il film Progetto 128 sulla nuova vettura della Fiat).
Salvatore Bruno, direttore centrale della Selenia, un’azienda che operava nel settore dei radar, finita nell’orbita della Finmeccanica, parla addirittura di “constata inutilità” di queste iniziative, tranne “qualche rara eccezione”, pensate come a uno strumento “per aumentare lo ‘spirito di corpo’, il ‘patriottismo aziendale’”, esaltando “il senso di sicurezza offerto ai lavoratori dall’azienda”. Non solo. Se prima in nome della partecipazione si era incoraggiata la pubblicazione di contributi da parte dei dipendenti, ora si irride “ai saggi lirici del magazziniere mancato poeta e i quiz del contabile del terzo piano”. Basta con pubblicazioni che “ricalcano ancora il vecchio cliché della pubblicazione candidamente paternalistica” e anche con “più sottili forme di manipolazione con l'identico scopo di gratificare psicologicamente il lettore-dipendente” (l’articolo venne ripreso da “Vita dell’azienda Gondrand”, n. 3, marzo 1969). Se la stampa aziendale vuole ritrovare uno spazio incisivo deve partire dal riconoscimento delle reali condizioni del lavoratore dipendente, sollecitando un atteggiamento riflessivo e critico. Insomma ben altro da ciò che era stata fin lì i caratteri della stampa aziendale.
Malgrado i pesanti condizionamenti ideologici e lo stretto funzionalismo di molte testate la stampa aziendale, anche solo per il fatto di godere di ampi mezzi in un periodo di grandi profitti, è stato un veicolo importante della modernizzazione grafica della stampa italiana e più in generale del gusto. Nomi come Antonio Broggeri, Franco Grignani, Giovanni Pintori, Albe Steiner, Erberto Carboni, Remo Muratore, Bob Noorda, nel campo della grafica, Federico Patellani, Bruno Stefani, Federico Garolla, Ugo Mulas, Aldo Ballo, Mimmo Castellano, Kurt Blum e infiniti altri in quello della fotografia hanno contribuito a dare visivamente conto del progetto modernizzante della migliore industria italiana in una stagione irripetibile, trovando nella stampa aziendale un veicolo sensibile a sperimentazioni che in altri ambiti era loro preclusa. Per questo insieme a Carlo Vinti abbiamo immaginato un progetto di una mostra dedicata appunto a questa irripetibile stagione, ma anche ai modi di utilizzare le riviste nella comunicazione aziendale oggi, che speriamo un giorno non lontano di poter realizzare.