Un'Italia malandata, ma vitale
"C'è modo di scrivere un saggio sull'Italia che non finisca nella costernazione?" Non è una domanda retorica. Disaffezione, inquietudine, disamore, autodenigrazione, raccapriccio: ecco un elenco sommario dei sentimenti più comuni che un qualsiasi lettore di saggistica italiana prova leggendo articoli, libri, resoconti o reportage sull’enigmatica modernità del nostro paese. “Uno vorrebbe descrivere le spiagge della Puglia, ma dietro l’angolo ci sono i caporali che bastonano i raccoglitori di pomodori; vorrebbe celebrare l’ospitalità dei siciliani, ma intorno c’è la mafia; vorrebbe salutare l’alacrità dei lombardi, ma spunta l’europarlamentare Speroni che si filma mentre va a 316 chilometri all’ora sull’autostrada e poi carica il video su Youtube”. Ma, dunque, continua Claudio Giunta, introducendo la sua ultima raccolta di saggi sull’Italia (Una sterminata domenica, Il Mulino 2013), il nostro Paese è davvero irredimibile e si merita, solo lui, tutte le maledizioni di cui siamo capaci? Non lo possiamo escludere. E però i conti non tornano del tutto. Tutto va male, d’accordo.
Però, forse, ci potrebbe anche essere qualcosa di mal funzionante nello sguardo di chi indaga. Il lamento degli intellettuali sul corso del mondo è un genere letterario di lunghissima data. In Italia, per moltissime ragioni che qui non si possono spiegare, è lievitato fino ad occupare quasi ogni singolo spazio della nostra auto–rappresentazione civile. Eli Gottlieb, scrittore newyorkese che ha vissuto quasi dieci anni nel nostro paese (il suo secondo romanzo è stato tradotto da Piemme con il titolo Le cose che so di lui), di fronte al mio ennesimo lamento sui nostri mali, ha sospirato e mi ha detto: “non ho mai conosciuto studiosi, giornalisti, saggisti o scrittori, come voi italiani. Siete sempre così distruttivi con il vostro paese. L’Italia ha tanti problemi, alcuni macroscopici. Tuttavia, non sono molti di più, in questi anni sbandati, di quelli di qualsiasi altra società occidentale”. Eli ha ragione, lo so. Però, forse, le opzioni sono vere entrambe: l’Italia è malandata e però la guardiamo sempre con gli stessi occhi. Il punto è che se non riusciamo a cambiare lo sguardo su noi stessi e a conoscere, prima di giudicare, ciò che siamo, sarà sempre più difficile avere un’idea anche solo sensata di quello che stiamo diventando. E qui viene in soccorso il nuovo libro di Claudio Giunta.
Una sterminata domenica è una raccolta di dodici saggi sull’Italia di oggi, raccontata con uno sguardo inedito perché ilare, spesso caustico, ma sempre empatico (il sottotitolo, in perfetto controtempo, recita: saggi sul paese che amo). Giunta di formazione è un dantista; insegna Letteratura italiana a Trento, ma da anni si occupa anche di attualità; scrive per Internazionale e Il Sole 24 ore, cura un blog personale e non smette di pubblicare pamphlet sugli argomenti più disparati al cui centro, però, direttamente o per rifrazione, come nel suo precedente libro sul Giappone (Il paese più stupido del mondo, Il Mulino 2010), sta sempre una riflessione sul nostro paese. Partiamo dunque dal titolo. Una Sterminata domenica è la seconda parte di un verso di una poesia di Vittorio Sereni intitolata Il sonno che, integralmente, suona così: “L’Italia, una sterminata domenica”. Il testo apre la terza sezione de Gli strumenti umani (1965) e descrive una Milano immaginata nella seconda metà degli anni Cinquanta, in una domenica quasi estiva e “sterminata”. Poche persone per strada, pochi rumori – qualche motocicletta, un tramviere che sblocca uno scambio con una spranga – e tanti rimorsi per quello che poteva essere l'Italia, e in particolare quella città, dopo la Resistenza; e non è stata. Come si vede, siamo sempre al punto di partenza. A Giunta non interessa però la storia di questo testo. Gli piace solo leggere il primo verso come un’affermazione: l’Italia è una sterminata domenica, un luogo che riesce ancora ad apparire, nonostante tutto, o quanto meno al primo sguardo, feriale e placido. Il libro segue il girovagare divertito di un osservatore partecipante, a metà strada fra Malinowsky e David Foster Wallace, ai riti più o meno sensati della nostra modernità pop. Ce n’è per tutti i gusti.
Nel primo capitolo seguiamo Giunta mentre partecipa, per pura curiosità, e non senza masochismo, alle mostre, ai dibattiti, alle cene della convention di Comunione e Liberazione a Rimini: “ad un certo punto, nella noia di piombo di una conferenza su Sussidiarietà e pubblica amministrazione, ho passato in rassegna i gruppi umani in mezzo ai quali non vorrei trovarmi a cena: camorristi, attivisti del Pdl, ultras della curva. Sono tutti, ciascuno a suo modo, infinitamente peggiori degli aderenti a CL. Ma tutti, ciascuno a suo modo, mi sono meno distanti degli aderenti a CL”. Caratteristica comune di questi dodici saggi di costume, è l’acribia filologica con cui Giunta documenta ogni descrizione. Poco importa che ci racconti la storia del movimento di Comunione e Liberazione, l’organizzazione di Radio Deejay, il successo di Elio e le storie tese, la vita di un giocatore di basket americano nel campionato italiano di metà anni ’70, conosciuto per caso in un campus universitario del Michigan. Nella maggior parte degli scritti di questa raccolta sembra un paracadutista poco prima del lancio, mentre controlla tutte le protezioni; e poi, però, nel vuoto salta davvero. Prima di aprire il paracadute – e dunque iniziare a ragionare, commentare, disperare, sorridere – Giunta registra tutto, con curiosità onnivora. Spesso nella presa diretta si sovrappongono materiali eterogenei: dettagli di contesto, intuizioni, ragionamenti più distesi, stralci di vissuto personale, ricordi.
E così il personaggio che ci porta in giro per l’Italia diventa, come in un romanzo, sempre più riconoscibile e sempre più familiare. E poi fa ridere un sacco. Solo alcuni esempi. Smontando pezzo per pezzo Stilnovo, l’improbabile saggio di storia politica scritto da Matteo Renzi, tratteggia con queste parole la mitomania trabordante del nuovo segretario del PD: “Renzi non trema. Ha un'illimitata fiducia in sé, nei fiorentini e negli esseri umani: in quest'ordine". Se invece lo seguiamo d’estate a Panarea, ci fa osservare l’eterna lotta che quel piccolo pezzo di terra in mezzo al Tirreno mette ogni anno in scena fra Nativi, Coloni e Quelli del Barcone: “l’impressione è che a Panarea si sia realizzata negli anni una forma di convivenza sociale che, pur ritrovandosi simile in molti luoghi del mondo, di vacanza e non, qui sembra darsi, come la grappa, in purezza. Questa convivenza si basa sull’interesse materiale e sulla reciproca diffidenza fra i tre stati che definiscono la geografia umana dell’isola. Se il vostro ideale di rapporto umano è un disinteressato, schietto, affettuoso commercio con i vostri simili, allora siete finiti nel posto sbagliato”.
Nel libro, il lettore può muoversi a caso, saltando di capitolo in capitolo: si troverà così nella redazione di Radio Deejay (Una magnifica cosa pop) per un bel po’ di pagine; o Guadalajara, al padiglione italiano della Fiera dell’Editoria in Messico (Guadalajara!); con il distacco di un antropologo, capirà il funzionamento perverso del mondo del calcio italiano (Il significato di Luciano Moggi); o potrà scappare, in inverno, dalla decrepita Biblioteca Nazionale di Firenze per trovarsi – a solo mezz’ora di treno – nel paradiso nordeuropeo della biblioteca San Giorgio, a Pistoia (Certe biblioteche). Alla fine di questo girovagare a caso fra i pezzi scomposti della nostra enigmatica modernità, al lettore non viene però voglia di scappare, come di consueto, e in fretta e furia, verso la gelida Scandinavia o la geometrica Francia; all’opposto. Viene voglia di guardare con altri occhi questo strano paese chiamato Italia, scombinato fin che si vuole, ma ancora pieno di vita.