Il pugno chiuso di Enrico
Il Paese degli inchini e delle botte anonime, giorni del voto segreto.
La bara è adesso alla fonda nel porto di Genova, e finalmente respira. Finalmente può riposare in pace nei molti giorni (aumenteranno i costi previsti?) della rottamazione che l’attende, mentre dentro il suo corpo arrugginito si muovono i palombari a caccia di un corpo che non si trova, un pesce che si chiama uomo.
La Concordia è fiera di se stessa, l’hanno aiutata, violentandola con i cassoni antiestetici che come stampelle l’hanno portata al cimitero di Genova.
L’inchino che la Concordia fece all’Isola del Giglio, sciupandone petali e fondali, è approdato prima ancora che a Genova svegliando in me la realtà di antichi documenti del Luce. Il viaggio in treno dal Nord di cento anni fa verso la Capitale. La marcia del milite ignoto, nero funerale.
I funerali sono tutti neri anche se colorati di corone tricolori, nero carbone. Perché, lo dice la storia, trasmessa dalle immagini tremule, devastata da commenti deliranti, la faticosa ricerca del milite ignoto fra le migliaia di morti della Grande Guerra che celebra il suo secolo di memorie fu un viaggio macabro, festoso, un tripudio di morte.
I filmati sulla prima cripta da dove la bara del Prescelto partì in treno per Roma, il Vittoriano, sono tra i più strazianti e commoventi dei nostri Centocinquant’anni di Unità d’Italia. Un simbolo delle nostre capacità di trasformare il lutto in Gloria Eterna, amen.
Passano i giorni, e le vecchie rotaie andate in pensione su cui rotolano i frigo Freccia Rossa trasportano oggi sogni di un’Italia più veloce e diversa. Rotolano sogni di efficienza che si fermano a Napoli, al massimo a Salerno, perché dopo i viaggi sono ignoti, si sa forse da dove e forse quando si parte ma non si sa quando si arriva.
Terra lontana. Sorvolata da aerei macilenti che attendono capitali arabi per arrancare, come ricordano in silenzio i licenziati indispensabili, se no si chiude, della gloriosa compagnia di bandiera, Alitalia, bandiera bianca sul ponte sventola.
Terra lontana, dalle radici piantate nei santi che dovrebbero abitare in cielo, e da lì certo ci guardano con orrore in determinati giorni, quelli delle processioni, dove gli inchini sono genuflessioni anche se tutti noi si sta in piedi.
In Calabria, la Santa Madonna è costretta a fermarsi davanti alla casa di un boss che chiama a sé i fedeli per rendere omaggio alla Santa, lui non parla, ma i fedeli intonano in coro le lodi per il bene da cui i beni del o dei boss hanno tratto vantaggio, e di cui essi, fedeli che non contano ma cercano chi conta, potranno chissà fruire in giorni di paradiso da conteggiare. I carabinieri lasciano la processione.
In Sicilia, Palermo, un’altra Santa Madonna paziente vive e anzi rivive la gloria di chi la porta sulle spalle come rifiorita dalla bara, davanti a una sosta inchino. Il solito, come ogni anno, anni in cui i fedeli più poveri non sanno più a che santo raccomandarsi. Il solito boss non si preoccupa, ci penserà lui. Il prete di turno, doloroso, addolorato, prega che il Signore provveda per il prossimo anno.
Ed ecco che, di fronte a questi inchini, genuflessioni, menti sbucciate per la pelle consumata nelle rotule, mi sento assalire dagli inchini, una sorta di angoscioso accerchiamento.
Un angoscioso accerchiamento, non temperato dalle botte in agguato, voti segreti legittimi, in Parlamento; botte da orbi.
Il Medioevo dei tributi voluti dai Potenti alle Madonne balza fuori quasi all’improvviso, dal cappello del prestigiatore, nell’epoca dei poteri, per averne la prova, basta consultare le Teche Rai, stracolme di processioni negli anni Cinquanta-Sessanta. Inchini democratici, dopo gli inchini ai gerarchi, figli di un dio minore, del fascismo.
Ecco che, da lunghe storie nascoste, l’accerchiamento di inchini e botte si mescola nelle tv di oggi, anima lo sconcerto contemporaneo, l’ansiosa ricerca di un approdo civile.
L’approdo si allontana mentre si avvicinano, con la regolarità di un orologio, moltiplicati nei giorni delle ferie, gli inchini a muso duro delle prue: navi da crociera, tante Concordia, bulldog, nella rada angosciata di Venezia, in una laguna col fiato sospeso: la Favolosa, nave-grattacielo, saluta piazza San Marco, i turisti se la sentono sopra, i politici non sanno che canale prendere, si va incontro al destino del Giglio?
Il parroco di San Marco non ha nemmeno la voce per parlare. Destini senza domani, certi.
A proposito degli inchini. Il mio ricordo corre indietro nel tempo. Roma, via delle Botteghe Oscure, fine anni Settanta.
La folla rossa si ammassa sotto le finestre del Bottegone, il massiccio palazzo della direzione Pci. Il motivo c’è, eccome. Il partito ha fatto il pieno dei voti, avanzando tra le onde, lontano da Mosca dove continuano a svolgersi le sfilate di massa davanti ai maggiorenti sovietici imbavagliati nelle bandiere rosse e nei vuoti discorsi di celebrazioni esauste, dodici anni ancora e sarà il 1989, il crollo del Muro di Berlino; travolgendo settant’anni dalla rivoluzione, a poco a poco sgocciolata nell’autoritarismo e nei campi per i dissidenti,
Al balcone del Bottegone, felice, compare il compagno Enrico Berlinguer ed ecco scattare fragoroso, sincero, appassionato, un saluto compatto, forte, ebbro delle vittoria così inattesa. La folla è un mare mosso, cavalloni di entusiasmo.
Berlinguer saluta. Ma alla folla non basta: la folla grida, ripetutamente, l’urlo che ha nel cuore: “Enrico, Enrico fa il pugno!”.
L’urlo si estende, invade la strada, il palazzone, gli uomini accanto al segretario Berlinguer, secondo partito del Paese, eccitati, stralunati dal successo inatteso, in estasi. Futuro nel pieno di una serata fresca alle prime luci dei lampioni secolari.
“Il pugno! Il pugno!”
Il Piccolo Grande Uomo lassù, non assomiglia a Dustin Hoffman, è in giacca e cravatta, composto, sorridente, le urne hanno risposto sì.
Sul balcone, Enrico, l’uomo tutto di un pezzo, l’uomo dell’austerità, il rigoroso volto sardo, ascolta e ripetutamente, con insistenza, fa segno di no. La sua mano, le sue mani sono aperte, chiare, parlano chiare. Il sussurro arriva: nessun pugno, nessun inchino. Nessun pugno, quindi nessun inchino.
Non altro. Nessun pugno, nessun inchino.
Nessuna genuflessione.