John Berger

1 Giugno 2012

Riga, una collana che avvicina ai grandi innovatori del Novecento

 

Riga è nata nel luglio del 1991 senza nessun particolare programma. Volevamo piuttosto fare la rivista «che ci sarebbe piaciuto leggere». Una rivista dedicata al contemporaneo, ad autori e temi che ci sembravano rilevanti nel corso dell’ultimo secolo, ma non solo. Una rivista che conservasse la memoria del passato, e insieme che si protendesse sul futuro.

 

Marco Belpoliti, Elio Grazioli

 


 

“Il numero delle vite che entrano nella nostra è incalcolabile”, ha scritto John Berger in una pagina di Qui, dove ci incontriamo. Intorno a queste parole non ha voluto altro, se non la cornice bianca del foglio, per mettere meglio in risalto quella che potrebbe sembrare una semplice constatazione ed è invece un riconoscimento emozionato e emozionante. L’io di ciascuno di noi è il prodotto in continuo divenire della relazione che abbiamo con gli altri, con chi è entrato ‘materialmente’ nella nostra vita – per amicizia, amore, legame politico o professionale – e con tutte e tutti coloro che l’hanno ‘immaterialmente’ segnata transitando nei nostri sogni e fissandosi nei nostri ricordi, magari attraverso un libro, un film, un’opera d’arte.

 

C’è nella frase di Berger un sapere forte della vita e una cognizione profonda della morte, l’indicazione di una familiarità altrettanto salda con il piacere e con il dolore, la percezione di un qui adesso inseparabile dagli infiniti altrove, prima e dopo di noi, che moltiplicano l’esistenza individuale facendone uno sfaccettato contenitore di memorie e storie che ci precedono e mediante noi permangono.

 

Il sapere di cui JB dice nella sua frase è concreto e al contempo profetico: accoglie e rivela, è dotato di naso, occhi, pelle ma anche di un orecchio interiore che sembra essersi affinato per via d’esperienza e grazie a un costante esercizio dell’immaginazione.

Proprio per questo suo dono JB è forse lo scrittore vivente più amato e seguito da scrittori, artisti, filmmaker, fotografi, uomini e donne di teatro di tutto il mondo.

 

Arundhati Roy lo descrive come un “guaritore”, capace di “curare gli scrittori feriti”.  Colum McCann dichiara: “Se dovessi prendere con me un solo scrittore, sceglierei lui. Semplicemente perché porterebbe con sé anche tutti gli altri”. Geoff Dyer afferma: “Chiunque lo abbia visto in azione avrà osservato la sua inesauribile capacità di dare. Tale capacità è dovuta in parte a una naturale e istintiva generosità, in parte alla consapevolezza che l’impulso dell’artista a raggiungere la perfezione nel lavoro non può non andare di pari passo con la sua continua evoluzione come uomo”. Iona Heath scrive: “Quello di John Berger è il primo nome al quale confesserei pubblicamente il mio attaccamento”. E Isabel Coixet: “Non c’è niente che lo rappresenti totalmente. E tutto lo rappresenta. Non l’ho mai visto tagliare la legna, ma sono sicura che ogni colpo d’ascia contiene in sé tutto quel che dobbiamo sapere sul mondo, tutto quel che è necessario sapere”.

 

Elena Poniatowska, avviando un’intervista recente riproposta in queste pagine, confessa: “L’emozione mi blocca. Grande scrittore, sento adesso che la sua voce è un canto fra il cielo e la terra, un canto viscerale che risveglia sentimenti dimenticati. Cerco di non guardarlo con troppa ammirazione, ma non posso evitarlo. Lui lo sa, perché sa tutto. Il suo volto, segnato dalla vita, mi fa pensare a certi ritratti di Samuel Beckett”.

 

Sally Potter, Tilda Swinton, Simon McBurney, Elia Suleiman e molte e molti altri si rivolgono a lui per mettere a punto le loro sceneggiature, i loro personaggi, le loro regie.

Susan Sontag, Ryszard Kapuscinski, Mahmud Darwish, José Saramago, Robert Kramer, – ma quanti altri nomi vengono in mente – lo consideravano un amico, un compagno e un interlocutore prezioso, con il quale discutere e ragionare per meglio mettere a fuoco un pensiero.

Sebastião Salgado, Paul Carlin, Alain Tanner, Nicolas Philibert, John Christie, Gavin Bryars, Timothy Neat, Mike Dibb, Gianni Celati hanno lavorato al suo fianco, realizzando insieme a lui opere indimenticabili come Jonas che avrà vent’anni nel 2000 o epocali come la serie televisiva Ways of Seeing.

 

Con il subcomandante Marcos ha intrecciato un’intensa corrispondenza che a fine 2007 è sfociata in un incontro nella Selva Lacandona, dove Berger ha partecipato a un convegno internazionale intitolato “Pianeta Terra: movimenti antisistema”, organizzato in memoria dello storiografo e antropologo Andrés Aubry.

 

In Palestina lo considerano uno del posto, perché ha capito che cosa vuol dire vivere sotto occupazione e non ha esitato a scriverne, da giornalista e da romanziere. Anche in questo caso il suo è stato un lavoro da tessitore, da artista delle connessioni capace di far viaggiare le storie mescolando luoghi geografici e epoche storiche e creando cortocircuiti temporali indifferenti a un principio d’ordine lineare.

 

Il suo segreto? Talento e mestiere, certo, ma anche un’incredibile umanità e un’insuperabile capacità d’attenzione. Nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov Walter Benjamin sottolineava che “l’antica connessione di anima, occhio e mano […] è quella artigianale, che ritroviamo dove è di casa l’arte di narrare. Possiamo chiederci se il rapporto che il narratore ha con la sua materia, la vita umana, non sia anch’esso un rapporto artigianale. Se il suo compito non sia proprio quello di lavorare la materia prima delle esperienze – altrui e proprie – in modo solido, utile e irripetibile. […] Così considerato, il narratore entra fra i maestri e i saggi. Egli ‘ha consiglio’ […] poiché gli è dato riferirsi a un’intera vita. (Una vita, del resto, che comprende in sé non solo la propria esperienza, ma non poco di quella degli altri. Nel narratore anche ciò che ha appreso per sentito dire si assimila a ciò che è più suo). Il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo. […] Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso”.

 

E Berger è narratore benjaminiano anche quando sembra fare altro: commentare l’opera di un pittore, leggere un film, osservare un paesaggio. Lo è per via di quel che lo muove a guardare e per come lo fa. Se parla di Caravaggio, Beacon, Giacometti, Henry Moore, Pasolini o Platonov, non è per mettere la sua lettura a confronto con quella di altri critici o per illustrare la loro opera. Quell’opera, che è penetrata nella sua vita e che lo interpella, sembra aspettare delle risposte. Come se fosse arrivata da quel futuro anteriore che è il passato e fosse lì per incontrarlo e attraverso di lui incontrarci in un vortice di connessioni, rimandi, associazioni, improvvisi smarrimenti e digressioni che, attraverso l’oscurità, forse ci ricondurranno insieme alla luce.

 

Nei testi di JB ricorrono non a caso alcuni topoi forti: le tenebre, la cecità, il muoversi a tentoni nel buio o nella nebbia, il perdersi, ma anche il volo, l’alzarsi di un sipario che sgombra l’orizzonte. Finitezza e speranza. Disorientamento e lucidità. Terra e cielo. Vita come terrain vague, area residuale o improvviso vuoto, esito di un evolversi indefinito e indefinibile.

 

È lì, come scrive Berger, che ci incontriamo. Noi e chi non c’è più o non è ancora stato: i vivi, i morti, i non ancora nati. In un tempo ciclico, in cui il futuro può precedere il passato e il passato essere più avanti del presente e sussurrarlo come una promessa.

 

In questa mobile zona dai confini temporali incerti e dal perimetro poroso il racconto, vale a dire la “capacità di scambiare esperienze”, è il collante che unisce là dove i poteri forti tendono a separare, frammentare, polverizzare. Per questo il racconto non può essere statico o ripetitivo: il suo rapporto con la realtà è di osmosi incessante. Il narratore, come ha scritto più volte Berger, vive di Storia e di storie, ‘trasportandole’ da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra, e per fare bene il suo lavoro non deve tradire la fiducia di chi lo ascolta né fare torto a ciò di cui narra. Come? Chiedendosi di continuo “se sta mentendo o cercando di dire la verità”, evitando di fare confusione.

 

Nasce da lì, inevitabilmente, uno dei tratti che più caratterizzano la variegatissima opera bergeriana: una passione di sperimentazione che nulla ha a che vedere con il virtuosismo stilistico, un’ostinazione a cercare tutt’altro che formalistica, preoccupata solo di “andare più vicino” al proprio oggetto, fino a fondersi in esso. Il che spiega perché sia impossibile, nell’opera di Berger, separare i saggi dai romanzi, la critica dell’arte dai racconti, gli articoli più dichiaratamente politici dalle sceneggiature per il cinema, applicare insomma le categorie tanto care a certa critica letteraria. Nelle sue scritture tutto si tiene e tutto fluidamente si concatena.

 

Basti leggere, a titolo di esempio, il suo ‘romanzo’ e il suo ‘saggio’ più celebri, G. e Questione di sguardi, usciti entrambi nel 1972. Ciò che l’autore indaga è, in entrambi i testi, l’asimmetrico assetto della Storia: da una parte i potenti, dall’altra i deboli e gli espropriati. Più specificamente, come sia andato disegnandosi lungo l’asse del potere il ruolo delle donne e quello degli uomini, quali abusi siano stati tacitamente subiti o siglati dalle prime e perseguiti dai secondi, con quali effetti di distorsione sulla vita dei due sessi e della società nel suo complesso. In tutti e due i casi l’autore analizza, contesta, interroga, rivela, suggerisce, mostra il farsi delle cose proponendo così anche il loro possibile ‘disfarsi’.

 

Nel primo lo fa attraverso un’arditissima scrittura romanzesca, che di continuo ‘si ferma’ a interrogarsi su se stessa, sul ruolo del narratore, sull’impossibilità di de-scrivere senza distorcere, sul desiderio dello scrittore (fatale alla verità) di dire tutto, di ‘finire’ una storia. Nel secondo si affida a un’alternanza altrettanto audace di testo e immagini, dove le parole non fanno da commento a queste ultime, ma le lasciano al loro silenzio o al loro rumore, invitando con forza i lettori a fare la loro parte, a mettersi in gioco.

 

Come solo i veri storyteller sanno essere, JB è dunque un grande cospiratore, capace di coltivare l’arte amorosa della collaborazione. Questo volume ne è la dimostrazione.

Come lo abbiamo costruito? Scegliendo varie pagine bergeriane ancora inedite in Italia o non più reperibili e affiancandole a alcuni testi che parlano di JB.

 

Tra i primi, alcuni stralci da testi non ancora pubblicati in Italia: King (1999), Bento’s Sketchbook (2011), Cataract (2011). Ma anche l’esplosivo discorso di accettazione del “Booker Prize per la letteratura” del 1972, il magnifico ricordo del filosofo Ernst Fischer, un’appassionata conversazione sull’arte con il figlio Yves.

Tra i secondi, alcune pagine ‘storiche’ (per esempio l’articolo di Salman Rushdie o la conversazione con Michael Ondaatje) e tanti saggi, poesie, opere grafiche, ricordi scritti e creati appositamente per questo libro.

 

Oltre a dare conto dell’importanza di questo scrittore così amato e fuori schema, volevamo infatti raccogliere sotto un libro/tenda, ospitale e aperto ai lettori, un pezzo della hamula Berger, la sua tribù di cercatrici e cercatori nell’oscurità: Arundhati Roy, Anne Michaels, Geoff Dyer, Elena Poniatowska, Jean-Michel Sivry, Véronique Dassas, Rema Hammami, Jamie Andrews e Tom Overton (curatori della British Library, cui di recente JB ha donato il proprio archivio), Tom Penn, Iona Heath, Katya e Yves Berger (figli e collaboratori di John), Colum McCann, Isabel Coixet, Tania Tamari Nasir, Jean Mohr, Selçuk Demirel, Ramón Vera Herrera e gli italiani Marco Belpoliti, Riccardo Panattoni, Giuseppe Mascoli, Norman Gobetti, Ivan Maffezzini, Marisa Bulgheroni, Remo Ceserani, Italo Chiodi, Gianluigi Colin, Davide Ferrario (che sta adattando per il grande schermo un romanzo di JB), Caterina Serra.

 

Il volume è corredato da un ricchissimo apparato iconografico: il celebre ritratto di JB fattogli da Henri-Cartier Bresson, gli scatti di Jean Mohr, le immagini dell’infanzia, le istantanee dei viaggi in Palestina e di alcuni suoi passaggi in Italia, ma anche un portfolio inedito creato per l’occasione dal fotografo Armin Linke, al quale abbiamo chiesto di ‘guardare’ per noi quel che JB ha davanti agli occhi tra le montagne dove ha scelto di vivere. Non c’è, volutamente, nelle fotografie di Linke, il volto di JB: invece di mostrare i suoi occhi, abbiamo scelto di rivelare il suo sguardo attraverso i luoghi, le persone, gli oggetti su cui si posa: una specie di taccuino fotografico ‘in assenza’.

 

Il volume è inoltre arricchito dalla riproduzione di alcune opere di John e Yves Berger e dai deliziosi disegni di Selçuk Demirel, che illustrano le note di JB ‘sul vedere’ dopo un’asportazione di cataratta.

Infine, una curiosità: JB, che a ottantacinque anni ha la curiosità e l’apertura mentale di un ragazzino, si è misurato con un esperimento di scrittura ‘telefonica’ via SMS. Nelle pagine che seguono ne troverete un’anticipazione.

 

Per concludere, un avviso alle lettrici e ai lettori: poiché questo volume vuole essere una finestra sull’universo bergeriano e un invito a entrarvi, la lettura non si esaurisce qui. La bibliografia dell’autore, curata insieme a Beverly Berger, le brevi note relative alle autrici e agli autori che hanno contribuito a questo libro e alcuni testi che ‘non ci stavano più’ sono disponibili sul sito rigabooks, un luogo in fieri che nei prossimi mesi continueremo a arricchire con nuovi contributi testuali, fotografici, video.

 

Indice

 

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