Ferrario, Eco e la biblioteca del mondo

2 Marzo 2023

Che Umberto Eco possedesse uno spiccato spirito umoristico lo si sapeva da tempo. Dall’epoca di Diario minimo (1963) era evidente che in lui, oltre al raffinato intellettuale membro del Gruppo 63, c’era anche uno scrittore comico: la comicità generata dal paradosso. L’elemento del gioco linguistico è sempre stato tra le sue corde migliori, così da fare di lui una sorta di poltergeist della penna – della macchina da scrivere prima, del computer poi –, a tratti sarcastico, a tratti provocatorio, ma sempre acuto e ficcante nel mettere alla berlina i deficit mentali della nostra contemporaneità. Il film di Davide Ferrario, Umberto Eco. La biblioteca del mondo, diviso in tre movimenti: Ricordare, Raccontare, Mentire (una produzione Rosso Fuoco in collaborazione con Rai Cinema) ci offre una rassegna audiovisiva di questo scherzoso semiotico divenuto in età avanzata autore di un best sellers mondiale, che metteva a frutto la sua lontana tesi di laurea su San Tommaso d’Aquino e la capacità di parlare del contemporaneo per figure e immagini.

Le interviste a Umberto Eco che Ferrario, già autore di un film su Gianni Celati e poi su Primo Levi, a sua volta scrittore, ha messo insieme montando una galleria d’interventi, conferenze e dialoghi, mostrano questo importante aspetto della personalità dell’autore del Nome della rosa, compreso il piacere di sorprendere i suoi interlocutori e soprattutto il pubblico che l’ascolta: il gusto irrefrenabile di spiazzare. A Eco piaceva stupire: gli piaceva raccontare quello che l’aveva stupito, comunicare il suo stesso stupore. Una delle sue qualità migliori è stata quella d’essere un brillante comunicatore che rende allettante anche nei panni del professore universitario il più ostico dei temi semiotici o filosofici, attraverso battute, giochi di parole e continui paradossi. Parlare, per lui, come si vede nel film di Ferrario, significava prima di tutto divertire sé stesso. Nelle storie che i suoi due figli, Stefano e Carlotta, insieme ai tre nipoti Emanuele, Pietro e Anita, a Renate, sua moglie, e all’allievo e amico Riccardo Fedriga raccontano nel corso del film, c’è sempre la presenza di questo divertimento.

Umberto Eco somiglia a un Jolly che suona il flauto dolce, lo stesso che si vede infilato in bocca a un mostro nell’ex-libris della sua biblioteca. In un magnifico disegno, che funge da manifesto del film, l’amico Tullio Pericoli ha colto perfettamente questo spirito di Umberto: sul naso di Eco, con il viso rivolto all’insù, danza un Eco più piccolo a braccia spalancate, mentre sopra c’è un altro Eco in formato più ridotto, che suona il flauto, e sopra ancora un altro Eco sempre più piccolo, che volteggia nell’aria come un allegro ragazzo in giacca e cravatta.  La cosa che gli spezzoni inseriti nel film ci comunicano in modo immediato è l’amore per il paradosso, ovvero per tutte le tesi che appaiono contrarie al senso comune, quelle che negano le più diffuse convinzioni credute vere dalla maggioranza delle persone. Gli interessava il sorprendente, l’inatteso e l’incredibile, sia nella versione di ciò che nega la doxa, sia nella forma del falso sia in quella del deliberato inganno.

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La menzogna l’ha affascinato così a lungo da farlo diventare un grande esperto, come spiega nella terza parte di questo film. L’opera di Ferrario inizia con l’arcinota camminata di Eco tra gli scaffali della sua biblioteca moderna, ripresa tempo fa dal regista stesso in occasione di una Biennale veneziana; a renderla così efficace è il lungo corridoio che il professore percorre e la macchina da presa che lo segue da presso senza mai incalzarlo o assillarlo con il suo obiettivo. La chiave interpretativa della biblioteca scelta da Ferrario è diventata il fulcro stesso del film. La lettura dei testi di Eco ad opera di attori e attrici (Giuseppe Cederna, Niccolò Ferrero, Paolo Giangrasso, Walter Leonardi, Zoe Tavarelli, Mariella Valentini) avviene all’interno di meravigliose biblioteche sparse per l’Italia – è la parte più evocativa ed elegante del film – così da amplificare la passione del semiologo per i libri antichi, oltre a quella per i moderni, che sono stati il suo principale strumento di lavoro.

Quando il successo mondiale del Nome della rosa gli fornì il denaro necessario ad ampliare di molto la sua collezione di libri antichi, tanti dei quali legati ai romanzi che poi scrisse, esplose in lui una eccitazione non facilmente prevedibile nell’autore di Opera aperta, bibbia teorica e pratica della postmodernità negli anni Sessanta, satura di rinvii alle arti visive, alla musica e alla letteratura contemporanea. Questa passione, che Fedriga, Carlotta Eco e il nipote Emmanuele commentano con ammirazione, è la vera sorpresa del neoavanguardista Eco, che il film pone in primo piano. Com’è accaduto che l’amante delle poetiche di Joyce, della letteratura sperimentale, della pittura informale, dell’arte cinetica, ovvero di prodotti culturali e visivi che presupponevano l’indeterminazione, si sia trasformato in un fervente bibliofilo? La riposta la porge il film quando ci mostra il significato di questo trasporto per i libri antichi: l’amore per l’eccentrico, il bizzarro, lo stravagante, lo strambo, l’anticonvenzionale.

Il campione di questa opzione è senza dubbio Athanasius Kircher, il gesuita seicentesco, filosofo, storico, antropologo e musicologo tedesco, autore di innumerevoli libri dedicati alla geologia, alla medicina, alla Cina, inventore delle moderne Wunderkammer. Di lui il semiologo possiede innumerevoli volumi qui esplorati dall’occhio della macchina da presa, sia lungo gli scaffali della biblioteca antica sia squadernati sul suo tavolo di lavoro. L’attrazione per i libri del passato non è stata per Eco solo un’esplosione culturale, rivolta al fascinoso mondo dell’invenzione figurale e intellettuale del passato, ma prima di tutto un ritorno alle sue origini di lettore adolescenziale e giovanile: l’attrazione per ogni cosa che appartenga al regno fascinoso della fantasia, compreso quello oscuro della falsificazione deliberata e dell’invenzione complottistica.

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La menzogna e il falso sono state due delle attrazioni compulsive più coltivate da Eco nella forma bibliografica. Un tema e un motivo che sta alla base della sua stessa semiotica: il segno, dice nel suo Trattato di semiotica generale, serve prima di tutto per mentire; oltre che per rendere presente ciò che è assente. Il giocoliere Eco in equilibrio gioioso su sé stesso, è stato attratto dal potere illusorio delle parole, dalla loro capacità di produrre “cose” ed “eventi” sia positivi che negativi. La sua biblioteca antica racchiude il nucleo di questa potenziale alterazione e manipolazione del mondo stesso. Prima ancora che uno scrittore Eco è però stato un grande lettore. La biblioteca come strumento di lavoro presuppone infatti sempre la lettura: i libri generano libri in una forma straordinaria di partenogenesi. Una delle più fantastiche biblioteche, che Ferrario ci mostra come corollario di quella echiana, si trova in Cina e somiglia a una sorta di installazione luminescente: include in forme sinusoidali i volumi che custodisce, installazione visiva che abbacina con la sua struttura aperta e potenzialmente infinita.

E poi c’è quella messicana, che somiglia a un capannone industriale ed evoca il magazzino su cui si conclude il film di Spielberg I predatori dell’arca perduta, là dove viene riposta l’Arca dell’Alleanza ritrovata da Indiana Jones. La biblioteca di Eco raccontata da lui stesso, o da altri, è insieme uno strumento di lavoro e un modo per ridere di tutto, compresa la stessa follia del mondo che include immancabilmente anche la propria. Nella biblioteca riposa l’istanza di un ordine possibile e insieme impossibile. Eco raccontato da questa opera cinematografica possiede due facce: da un lato c’è il brillante erede dell’illuminismo razionalista, dall’altro l’anima festosa e irrazionale che la modernità ha conosciuto attraverso le avanguardie storiche.

La neoavanguardia di Eco, possiamo dire oggi che lui non c’è più, è stata in definitiva una forma di irrazionalità ben temperata. La talpa-Eco ha scavato la propria galleria sotto i piedi dei neoavanguardisti per spuntare nel giardino fiorito della narrazione, che era poi quello cui aspirava da sempre: il narratore nascosto dentro il saggista. Niente meglio di una biblioteca poteva raccontare questa passione del professor Eco insieme alla sua pulsione onnivora e inesauribile d’impadronirsi di tutto lo scibile alla portata del suo fervido cervello. Un modo per divertirsi e farci divertire, per danzare, come in quella tavola di Pericoli, sulla punta del proprio naso moltiplicando i suoi innumerevoli io tutti somiglianti a sé stesso. 

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