John Berger e Jean Mohr: un medico di campagna
"Spesso si sente dire che i medici di una volta non esistono più. La nostalgia facilita l'idealizzazione e allora mi capita di rispondere che anche la medicina di una volta non c'è più, ma sfido chiunque a rimpiangerla.”, afferma Vittorio Lingiardi nella prefazione al libro di John Berger e Jean Mohr, Un uomo fortunato. Storia di un medico di campagna, edito da Il Saggiatore.
Conviene partire da questa osservazione per affrontare il libro, che è una riflessione in parole e immagini sui rapporti tra un medico di campagna in Inghilterra negli anni ‘60 e la comunità che lo circonda; è un ritratto con sfumature poetiche, ma a forte impronta sociologica, della dimensione più ampia del lavoro di un medico e dell'ambiente che lo circonda. Nel 1966 John Berger e il fotografo Jean Mohr seguono per tre mesi l'attività del medico di campagna John Sassall, documentando la sua vita, le abitudini, gli incontri.
Sassall vive nella foresta di Dean, in Inghilterra e le sue gesta si compiono all'interno di un territorio rurale, con personaggi che lui chiama i boscaioli, anziani, persone sole, malati che lui cura dall'inizio alla fine nel senso che molti degli abitanti sono stati seguiti alla nascita dal dottore e accompagnati fino alla morte; alla nascita con un atto di tipo ostetrico e alla morte semplicemente tenendoli per mano. È dunque un fedele resoconto della professione medica (quando veniva chiamato medico condotto), ma le fotografie aiutano anche a comprendere al meglio la natura del territorio in cui il Dottor Sassall opera e la dimensione sociale del suo ruolo.
Il rapporto medico-paziente è il tema centrale del racconto, perché è un rapporto non scontato, non dovuto alle differenti classi sociali che si confrontano, ma basato sulla stima, mai gratuita e sempre conquistata con impegno e dedizione. I medici di famiglia di allora non avevano molto da offrire in termini di tecnologie e terapie sofisticate, ma trovavano tempo e motivazione per parlare con i pazienti ed erano più amati e rispettati di oggi.
La prima parte del libro consiste in racconti brevi ben disegnati e ben scritti che racchiudono un senso clinico, come se fosse una raccolta di casi clinici, però fatta di ambiente e interazioni nelle relazioni, di paure, di angoscia a volte non espressa, con fotografie a suggellare la scena. Come se ci fosse un primo atto, un secondo atto e così via.
In questi racconti il medico assume una postura clinica, mette le mani sul paziente, tocca il corpo ferito, forse riesce persino a trasmettere una nuova vita. Spesso sono visite a domicilio e quando entra in una casa sente il profumo di pane tostato o l’odore della morte; si guarda intorno, cerca la luce, nota ogni particolare, vede il letto, guarda il viso a volte cinereo con le guance incavate e vede gli occhi serrati per il dolore. Ascolta il respiro, sente il rumore del rantolo, distingue una espirazione dolorosa, si ferma, osserva di nuovo e poi prende la sua decisione, dopo avere ascoltato la voce del paziente, quando è possibile o quella del familiare più vicino per capire la natura e la successione degli eventi. Spesso l'intervento è soltanto quello di iniettare morfina per togliere il dolore, una terapia antalgica d’antan, per pietà, per riordinare le idee, per dare tregua alla sofferenza e permettere di risistemare le cose. Deve eliminare ciò che impedisce il fluire del racconto anamnestico. Fa sempre ciò che un buon clinico dovrebbe fare, cioè tornare a rivedere il paziente per controllare l’esito del primo intervento terapeutico e stabilire un rapporto di cura in continuità. Quasi senza volere, con grande naturalezza, Sassall stabilisce il perimetro della relazione di cura.
In uno dei racconti brevi, dopo che ha assistito la paziente nel trapasso, raccolta la sua borsa, sulla soglia di casa, si ferma, ci ripensa, si siede sulla sedia e chiede una tazza di tè, poi si mette a parlare al marito, fino a lì silenzioso interprete di una dignitosa sofferenza.
Poi c’è l’attività in ambulatorio, dove riceve pazienti autosufficienti o che necessitano di piccoli interventi chirurgici. Ambulatorio ben attrezzato per i tempi. E anche lì continua a osservare e ad ascoltare: “dalla finestra dell'ambulatorio l’ha vista salire il sentiero fino al Comune, fino alla casa dove l'aveva fatta venire al mondo 16 anni prima; mentre lei aveva già svoltato l'angolo, lui rimane a fissare i muri di pietra sui due lati del sentiero; un tempo erano muri a secco, adesso le pietre sono cementate insieme.” A volte questi racconti sono di pura poesia e racchiudono sempre in sé storie che diventano eventi di medicina narrativa, con l'aggiunta della fotografia che definisce la grande dimensione, il quadro nei dettagli che ti inchiodano al paesaggio.
Trovo che questa sia la parte migliore del libro, la prima parte.
La seconda parte invece tenta di analizzare il dottor Sassall come personaggio, come clinico ma anche come uomo inserito nel contesto sociale: la persona è complessa e la sua vita è stata molto influenzata dai libri di Conrad, quel suo porsi contro la noia e l'autocompiacimento della vita borghese che si conduceva sulla terraferma in Inghilterra. Il medico è pieno di contraddizioni e nella ricerca delle soluzioni non smette mai di usare il metodo scientifico. Berger tenta di fare un confronto tra i personaggi letterari di Conrad e la sua concezione del medico.
Racconta: “Un medico è un uomo che può sapere tutto, ma ha l'aria stanca: una volta il dottore viene nel bel mezzo della notte e mi rendo conto che anche lui stava dormendo; dal fondo dei pantaloni spuntano i calzoni del pigiama, ma soprattutto ricordo che non perdeva la calma ed era composto mentre tutti gli altri erano confusi e agitati”. Praticamente questa descrizione corrisponde alla descrizione che Conrad fa del capitano del Narciso: questo parallelo tra medico che da solo svolge funzioni di grande difficoltà per la sua comunità e il capitano di una nave in alto mare praticamente diventa il tema conduttore di questa parte del libro.
Analizzare la personalità del medico, cercare le sfumature, le sue motivazioni, cercare di capire in che modo il rapporto con la malattia genera sempre più difficoltà nella testa di chi ci si immerge totalmente. Sassall non è un eroe, però ha plasmato una specie di estremismo giovanile adattandolo alle esigenze di una comunità. Non crede nel cosiddetto “senso comune”, crede che la ricerca sia il fine della sua vita; i suoi pazienti lo definirebbero un onesto gran lavoratore, uno con cui è facile parlare, non scostante, gentile e comprensivo, buon ascoltatore, sempre disposto a fare visite domiciliari, quando necessario, molto meticoloso. Ma forse direbbero anche che è lunatico, difficile da capire soprattutto quando si occupa teoricamente di argomenti come il sesso e le patologie che toccano l'immaginario della persona che ha davanti.
John Berger poi si inoltra in un territorio molto più complesso, come quello della definizione di malattia: è vero che nella malattia molti legami vengono recisi, che incombe una forma distorta e frammentata di coscienza di sé e, dice l'autore, “il medico tramite la sua relazione con l'infermo e grazie alla speciale intimità che gli è consentita, deve controbilanciare questi legami spezzati e riaffermare il contenuto sociale della coscienza di sé”. in altre parole la malattia partecipa alla definizione del nostro essere unici e quando il dottor Sassall riesce a dare un nome a un malessere, in un certo modo, rende più forte il paziente, gli dà la dignità di sapere contro cosa deve combattere. La teoria è che dare un nome al proprio malessere fa stare meglio, dice ancora Berger; il paziente infelice va dal medico per offrirgli una malattia nella speranza che almeno lui o questa parte di lui possa essere riconosciuta. iI rapporto medico-paziente si sviluppa dunque come un processo di riconoscimento.
La personalità del dottor Sassall è complessa: ha certamente una visione filosofica sulla vita e sull'umanità; ha ideali universali, ma a volte i suoi comportamenti sembrano legati a una qualche forma di megalomania; si comporta come se avesse sempre un problema davanti e come se ogni suo atto fosse una esibizione. Certamente crede più nella scienza che nell'arte della medicina e da lì nasce questo suo instancabile desiderio di conoscere: conoscere la malattia, conoscere le persone, conoscere meglio le terapie. Si immagina come su un ponte della nave mentre le onde si infrangono proprio come nei racconti di Conrad.
Berger poi cerca di definire meglio il rapporto tra il medico e la sua comunità: a volte si vede come un gentleman (parte che gli è stata assegnata dalla sua comunità rurale), a volte ha bisogno, nella sua insoddisfatta ricerca, di certezze e del suo scomodo senso di responsabilità limitata, perché non riesce a risolvere i problemi. È un anticonformista che però sa farsi carico dei problemi della gente, non ha etichette sociali e crede che gran parte dei problemi (anche di salute) della popolazione che ha attorno dipendono da una totale deprivazione culturale.
Il suo principale strumento di espressione diventa, di conseguenza, l'azione: così, sostiene Berger, tanti inglesi hanno un hobby o un fai-da-te e il giardino o il banco di lavoro, che diventano ciò che di più prossimo essi hanno a uno strumento soddisfacente di introspezione e dunque di soddisfazione.
Il dottor Sassall ha una visione romantica della vita, si sente testimone obiettivo della vita degli altri: a differenza di molti medici generici, ha accesso ai suoi pazienti ospedalizzati e tutti vanno all'ospedale locale dove lui è uno dei medici curanti. Si occupa di tutte le emergenze che si presentano, dagli incidenti gravi nelle cave o nei campi durante la stagione del raccolto, alla disperazione di una giovane donna che vuole uccidere il figlioletto illegittimo o alla lenta sofferenza, fino al crollo finale, di un parroco in pensione che ha perso la fede.
Si fidano di lui, quasi senza discussione. Lui affronta l’angoscia delle altre persone, non quella fisica che si può alleviare nel giro di qualche minuto, ma quella legata alla paura della morte, alla perdita, alla solitudine, al senso di nullità. La sera dopo cena ha appuntamenti che si protraggono per un'ora con i pazienti che crede di poter aiutare con la psicoterapia; soffrono le loro crisi con lui e anche queste crisi possono raggiungere il picco dell'angoscia.
Sassall a un certo punto perde la giusta distanza e si immerge totalmente nei problemi dei suoi pazienti. La sua fame di conoscenza è insaziabile: è convinto che i limiti della conoscenza siano, in ogni momento, temporanei. Deve ammettere che ciò che andrebbe fatto per aiutare i suoi pazienti esula dal suo mandato come medico, ma non riesce a dimenticare il contesto, non riesce a dimenticare che le persone che ha attorno meriterebbero una vita migliore.
Diventa profondamente depresso, a volte per brevi periodi, ma questa depressione è alimentata fondamentalmente da due problemi: la sofferenza dei suoi pazienti e il proprio senso di inadeguatezza. Il lavoro allora diventa l'antidoto alla depressione, ma arriva un punto in cui si convince che non riesce più ad esercitare il suo ruolo di medico a nessun livello.
Allora perché il titolo Un uomo fortunato?
Lascio al lettore il gusto della scoperta e il senso dell’epilogo.