José Saramago, nascita di uno scrittore

16 Novembre 2022

Ho scritto molte volte sull’opera di José Saramago (1922-2010). 

Una delle ultime è stata proprio qui, nel 2019, in occasione della pubblicazione in Italia del suo Diario dell’anno del Nobel (trad. italiana di Rita Desti, Feltrinelli, Milano). Quest’anno cade il centenario della sua nascita e in Italia esce La vedova (trad. italiana di Rita Desti, Feltrinelli, Milano, 2022), il primo romanzo pubblicato da Saramago nel 1947 con il titolo Terra do Pecado (Terra del peccato). Il volume doveva intitolarsi A Viúva (La vedova), ma l’editore suggerì al giovane scrittore di cambiarlo. Il romanzo sarà successivamente rifiutato da Saramago, che solo nel 1998 permetterà alla sua casa editrice, Caminho di Lisbona, di ripubblicarlo. 

Quali sono le ragioni per cui Saramago a un certo punto decise di far pubblicare il suo primo romanzo che per quarant’anni aveva disconosciuto? Non saprei. Si vede che, al momento del bilancio, ci avrà ripensato. Quel che so è che in uno dei dialoghi che abbiamo avuto tra la fine degli anni novanta del secolo scorso e gli inizi del nostro, Saramago sosteneva che la sua vera storia di romanziere sarebbe nata molto più tardi. Ecco cosa rispondeva alla mia domanda sulle origini della sua vocazione romanzesca e sul perché, dopo gli esordi negli anni quaranta, ci fosse stato un silenzio lungo trent’anni prima della pubblicazione, nel 1977, di Manuale di pittura e calligrafia:

 

“Cominciamo dalla vocazione romanzesca. Siamo nel 1947. Un ragazzo privo di studi universitari, educatosi nelle biblioteche pubbliche, scrive un romanzo. Trova miracolosamente un editore che gli consiglia di cambiare il titolo iniziale, A Viúva, ritenuto poco “commerciale”, con Terra do pecado. Il giovane scrittore, eccitato dalla prospettiva di vedere il suo libro pubblicato, accetta. Il romanzo ha il successo che merita, cioè nessuno. Il giovane scrittore allora si rimette al lavoro e scrive un altro romanzo, Clarabóia. Poi, vent’anni di silenzio, fino alla pubblicazione, nel 1966, di un libro di poesie, Le poesie possibili. Ecco la mia preistoria come scrittore.

Credo sia perciò azzardato parlare di «vocazione romanzesca», tanto più che il mio primo libro di poesie osava proporsi appena come «possibile». Dovevano trascorrere ancora undici anni prima che l’autore, già molto meno giovane, trovasse la forza di confrontarsi per davvero con il romanzo. Perché un così lungo silenzio? Dopo aver scritto Clarabóia, compresi di non avere più niente di interessante da dire. Le ragioni estetiche del successivo rifiuto del mio primo romanzo? Non si tratta di ragioni estetiche, ma semplicemente del fatto che Terra do pecado era stato scritto da un’altra persona, una sorta di altro io fossilizzato nel tempo. Se alla fine ritornai al romanzo, fu grazie alla poesia che andavo scrivendo: riflessiva, concettuale, a volte descrittiva.” 

Quando è nato lo scrittore Saramago? Quando ha trovato la sua voce? Il suo stile? Quando è iniziata per davvero la sua storia di romanziere? 

La “preistoria” di Saramago, se diamo ascolto alle sue parole, termina con la pubblicazione della sua prima raccolta poetica, “riflessiva, concettuale, a volte descrittiva”, di Os Poemas Possíveis (Le poesie possibili), cui seguirà, nel 1970, Provavelmente Alegria (Probabilmente Allegria). Poesia riflessiva, certo quella di Saramago, in grado di unire citazioni colte a oracoli popolari, tanto pessimista quanto ironica (soprattutto dopo la totale revisione che l’autore ne fece nel 1982), in costante dialogo con l’altro, sia esso incarnato da un tu femminile, dai padri antichi e moderni della poesia portoghese (Camões, Pessoa), da miti antichi (Afrodite, Marte) e figure del Vangelo (Cristo, Giuda), da personaggi letterari (Romeo e Giulietta, Don Chisciotte e Sancho Panza), o dall’uomo oppresso e umiliato nella sua dignità. Tutti elementi che, come dirà lo scrittore, costituiscono “una specie di prologo dei romanzi che verranno”. Tuttavia, il suo cammino verso il romanzo sarà segnato ancora da diverse tappe. 

Dopo aver trovato nel 1950 un impiego nelle assicurazioni, nel 1955 l’autore comincia a collaborare come traduttore presso l’Editorial Estúdios Cor. Una svolta importante avviene nel 1968, quando Saramago inizia a redigere cronache per il quotidiano “A Capital”, che raccoglie e pubblica nel 1971 con il titolo Deste Mundo e do outro (Di questo mondo e dell’altro). Dopo essere entrato nelle file del Partito Comunista (che svolgeva attività clandestina, date le censure e i bavagli della dittatura di Salazar), Saramago abbandona la casa editrice per collaborare con il settimanale di Lisbona “Jornal do Fundão”, per il quale continua a scrivere cronache, poi raccolte nel 1973 in A Bagagem do Viajante (Il bagaglio del viaggiatore).

In questo giro di anni vedranno la luce altre due raccolte di cronache politiche: As Opiniões que o DL teve (Le opinioni sostenute dal DL), frutto del suo lavoro al quotidiano “Diário de Lisboa” (da qui la sigla del titolo), pubblicate nel 1974, anno della fine della dittatura salazarista e della “Rivoluzione dei Garofani” (25 aprile), e Os Apontamentos (Gli appunti), scritte per il “Diário de Notícias” e pubblicate nel 1976. 

“Nelle mie cronache – dirà più volte l’autore – c’era già tutto”. Seguendo le orme dei maggiori scrittori di lingua portoghese, Antonio Vieira, Eça de Queirós, Machado de Assis, Saramago si fa attento osservatore del proprio tempo, senza mai perdere di vista, grazie a “quella benedizione dei cronisti, che è l’associazione d’idee”, come dirà egli stesso, gli innumerevoli fili che legano il presente al passato. Il cronista Saramago crea nello spazio di qualche pagina le condizioni letterarie universali per raccontare, con quella complicità con il lettore che diventerà uno dei tratti distintivi dei suoi romanzi, gli inganni e i disinganni che la Storia riserba agli uomini di tutte le età.

“Il romanzo – dirà più tardi – può essere un modo di reinterpretare la Storia, di mostrare che la Storia, molto più spesso di quanto appaia alla ragione e al senso comune, è presa troppo sul serio allorquando si presenta alla nostra ingenuità come un corso universitario. Il romanzo può dire sulla Storia ciò che essa non dice mai di se stessa: raccontare le semplici verità umane, mutevoli e comuni, occultate da una verità predefinita, come se gli avvenimenti della Storia non potessero per nessuna ragione non essere accaduti”. Senza contare che nelle cronache è già presente quella concezione della Storia – altro elemento ossessivo della produzione romanzesca di Saramago – intesa come “immenso schermo sul quale si proiettano caoticamente tutti gli avvenimenti e le vite di tutti gli uomini”. 

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Gli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione sono decisivi. Nel 1975, dopo essere stato licenziato dal quotidiano “Diário de Noticias”, lo scrittore si ritrova a un bivio: “Mi domandavo: che fare? Cercare un lavoro? La mia decisione, allora, fu di non cercare niente e di tentare di vivere scrivendo…”. Si mantiene grazie a un estenuante lavoro di traduttore, che durerà almeno fino al 1979. Sempre nel 1975 pubblica O ano de 1993 (L’anno mille993), un testo composto da trenta capitoletti di prose poetiche che, in uno stile tra il metafisico e il surreale (i riferimenti pittorici a Dalì e a De Chirico sono presenti fin dalle prime scene), racconta la vicenda di un gruppo di persone che, allontanate dalle loro case, si ritrovano in una grande piazza di una città ammorbata dalla peste. Saramago, grazie a una cornice senza nome, proietta nel futuro le vicende del suo popolo appena uscito dalla dittatura salazarista, facendone lo specimen di tutti i popoli oppressi della Storia.

Dopo questa prova, che si può definire il terzo e ultimo tempo della sua poesia, nel 1976 si trasferisce in Alentejo, dove per alcuni mesi vive a stretto contatto con i lavoratori di una cooperativa agricola. Da questa esperienza nascerà il romanzo Levantado do Chão, (Una terra chiamata Alentejo), pubblicato nel 1980, che segnerà l’inizio, a cinquantotto anni, della “vera storia” letteraria di Saramago.

Tuttavia, prima di trovare la sua voce, il romanziere dovrà compiere ancora qualche passo. Il primo, e forse il più importante, si ha nel 1977, data in cui, a trent’anni dall’uscita di Terra do pecado (A Viúva), pubblica un nuovo romanzo, Manual de Pintura e Caligrafia (Manuale di pittura e calligrafia). Opera trait d’union tra la “preistoria” e la “storia” di Saramago, il Manual narra le vicende di un modesto pittore, H., che si accontenta di ritrarre in modo conciliante belle donne e amministratori fino a quando il suo spirito di rivolta lo porterà a farla finita con l’obbedienza alle regole.

La trasgressione di H. maturerà attraverso l’abbandono momentaneo del pennello e grazie a uno scavo diaristico, “calligrafico”, della propria personalità. Alla fine, ritornato alla pittura, H. sarà pronto per il proprio autoritratto, tappa finale di una lunga dissezione esistenziale. Nel modesto pittore H. del Manual, si possono già intravedere i tratti dell’insignificante Signor José di Tutti i nomi, che non è lontano, a sua volta, dall’oscura esistenza del revisore Raimundo Silva di La storia dell’assedio di Lisbona, tutte varianti o reincarnazioni dell’insignificante Akakij Akakievič del Cappotto di Gogol’, nume tutelare, più di Kafka e Borges, dello scrittore portoghese. 

Importanti, poi, soprattutto per alcuni temi ed atmosfere futuri, i sei racconti che lo scrittore raccoglie e pubblica nel 1978 sotto il titolo di Objecto Quase (Oggetto quasi), la cui caratteristica principale è quella di descrivere un mondo senza nome dove gli oggetti, veri protagonisti dell’azione narrativa, assumono funzioni pericolosamente indipendenti dalla volontà umana. A questi racconti c’è da aggiungerne un altro, esemplare per quell’attenzione alla musicalità della frase che, di lì a poco, porterà lo scrittore alla sua speciale “oralità”.

Si tratta del racconto O Ouvido (L’udito) con il quale nel 1979 lo scrittore partecipa al libro collettivo Poética dos Cinco Sentidos (Poetica dei cinque sensi). Dello stesso anno è anche la sua prima pièce teatrale, A Noite (La notte) che, ambientata nella redazione di un quotidiano, descrive le ore notturne tra il 24 e il 25 aprile del 1974, giorno della Rivoluzione dei Garofani. Ne seguirà, nel 1980, quarto centenario della morte di Luís Camões, una seconda, Que Farei come Este Livro? (Che ne farò di questo libro?), incentrata sulla figura dell’autore di I Lusiadi che, rientrato in patria dall’India vecchio e malato, cerca, come tutti gli scrittori passati e futuri, un editore. 

Il 1980, però, come si è detto, è soprattutto l’anno di pubblicazione di Levantado do Chão (Una terra chiamata Alentejo). Il romanzo narra una parte importante della storia portoghese, dalle prime lotte contadine, attraverso i decenni della dittatura salazarista, fino alla Rivoluzione del 1974, attraverso gli occhi di quattro generazioni di una famiglia di braccianti dell’Alentejo, i Mau-Tempo. Ciò che fa di questa “epopea contadina” un romanzo moderno è lo stile dell’autore che da questo momento caratterizzerà tutta la sua opera. 

Ecco lo spartiacque, il momento in cui finisce la “preistoria” dello scrittore e inizia la sua “storia”. Ed ecco l’enorme differenza tra un romanzo come La vedova e uno come Una terra chiamata Alentejo, apparentemente accomunati dallo stesso sfondo storico e sociale, dalla stessa tipologia di personaggi e dalle stesse atmosfere. 

La differenza è formale. Il problema che Saramago non era riuscito a risolvere nel 1947 – e per il quale forse aveva rifiutato per molto tempo la paternità del suo primo romanzo – viene improvvisamente risolto nel 1980.

Un problema è una domanda, e la domanda che Saramago si era posto da giovane non è diversa da quella che ritorna alle soglie della maturità: come non cadere nel modello realista, o “neorealista”, che la vicenda stessa sembra suggerire? La risposta è la nascita di quello che lo stesso autore ha chiamato “un flusso verbale apparentemente senza regole” costruito come se “raccontassi la vita di coloro che mi hanno raccontato le loro vite”. Saramago, memore delle sue tappe poetiche, cronachistiche e teatrali, riesce a fondere la tradizione orale popolare (uso di proverbi, espressioni colloquiali, ricorso a parole antiche) alla tradizione saggistica (digressioni, citazioni, attenzione ironica agli eventi reali o possibili), dando vita a una scena acustica in cui la polifonia dei personaggi (le loro voci) dispiega tutti i suoi registri attraverso l’onniscienza di un narratore-interlocutore, di un narratore imitatore e regista di tutte le voci (personaggi), l’autore.

Quando chiesi molto tempo fa a Saramago se tale tour de force formale non rischiasse di celare quel che il romanzo dovrebbe al contrario rivelare, ovvero il timbro originale di ogni personaggio, ecco quale fu la sua risposta: 

“Quel che lei definisce un rischio è in realtà un duplice obiettivo: da una parte sostituire (se possibile) la voce narrativa con la voce dell’autore, in modo che il lettore possa identificarlo in ogni momento (cosa che mi spinge a dire che tutti i miei libri dovrebbero portare una fascetta con sopra stampate le seguenti parole: «Attenzione, in questo libro c’è qualcuno»); dall’altra, in rapporto ai personaggi, rinunciare a dar loro uno “stato civile” per farne, senza offuscarne l’identità, dei portavoce dell’autore (di tutte le voci che sono in lui). Io probabilmente non scrivo romanzi, ma dei saggi con alcuni personaggi. Forse perché Montaigne è una delle mie letture più costanti.” 

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Massimo Rizzante | José Saramago o prima le voci
Gianni Montieri | José Saramago, Le intermittenze della morte

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