L'Amazônia di Salgado: un'intervista

17 Maggio 2023

La fotografia diventa memoria quando si immortalano i simboli di un tempo, rappresentativi di pensieri e ideologie contemporanei all’epoca dello scatto. A volte, però, le immagini riescono a parlare tanto al passato quanto al futuro, trasportando un significato valido per ogni epoca, diventando a un tempo testamento e simbolo, testimonianza e comandamento.

Sebastião Salgado, uno dei massimi esponenti viventi di un modo di intendere la fotografia come rappresentazione della meraviglia terrena, parla, attraverso le sue immagini realizzate in Amazzonia, all’umanità intera della sua storia, delle origini dei tempi e della vita stessa.
Questo in particolare è stato il nodo della densa conversazione incontrandolo alla Fabbrica del Vapore, a Milano, dove sono allestite le più di 200 immagini che compongono la mostra Amazônia, vera ode dedicata al significato più puro che la Terra possiede. 

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© Sebastião Salgado/Contrasto, Rio Jutaí. Stato of Amazonas, Brasile, 2017.

La fotografia, che per Lei è sempre memoria, nel Suo lavoro prende forma di messaggio. Come avviene questo passaggio da memoria a messaggio? 

In realtà è una cosa che accade, direi, abbastanza casualmente. Nel senso che, ovviamente, il mio linguaggio di espressione è un linguaggio fotografico e io provo un piacere immenso quando mi occupo di fotografia perché mi permette di esserci, con ogni mia parte. Ma, allo stesso tempo, ho anche preso coscienza del fatto che, parlando dell’Amazzonia, si tratta di uno spazio immenso che sembrerebbe quasi impossibile distruggere. E invece, tutto sommato, lo stanno facendo, lo stanno distruggendo. Ora, visto che il mio mezzo espressivo è l’immagine, voglio trasmettere questa mia enorme preoccupazione per quanto riguarda, per esempio, i problemi della vita, della coscienza, dell’ideologia, e il senso di voler proteggere questo spazio che viene distrutto. E quindi diciamo che questo passaggio, questa trasposizione fra la memoria e il messaggio da dare viene abbastanza naturalmente, nel senso che è come se la mia lingua si trasformasse in comunicazione, provando sempre un piacere immenso nel fare fotografia. 

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© Sebastião Salgado/Contrasto, Sciamano Yanomami dialoga con gli spiriti prima della salita al monte Pico da Neblina. Stato di Amazonas, Brasile, 2014.

Quali sono i Suoi rapporti con la storia della fotografia? Pare evidente, spesso, il Suo rapporto con alcuni maestri, come Ansel Adams, Martín Chambi e altri. Esiste davvero questa unione? 

Sia Chambi che Adams sono due autori assolutamente immensi nei confronti dei quali nutro un profondo rispetto, così come nei confronti del loro lavoro. Pensa, per esempio, a uno come Chambi, che negli anni Trenta, in una zona assolutamente sperduta com’era Cuzco nel Perù, era, secondo me, uno dei fotografi più importanti che avesse il nostro pianeta Terra. Oppure Adams, con la sua passione per la natura, per la relazione che l’uomo intrattiene con la montagna, con le foreste ma anche con l’acqua. Direi che ognuno di noi fotografi abbia un proprio posto, una propria collocazione, così anch’io ho la mia. Soprattutto potrei dire che quello che io provo e che anche loro hanno provato è questa meraviglia che si sente quando ci si occupa di fotografia. Nel senso che il fotografo è quella persona che ci racconta la Storia, la storia di chi siamo. Chambi e Adams, per esempio, ciascuno di loro ha la propria storia, la propria vita, e quindi il proprio discorso sulla vita, sulle origini. Questo perché nel loro lavoro mettono tutto quello che è stata la loro vita personale: loro padre, loro madre, le influenze che tutto questo ha avuto sulla loro vita. E allora, se ci mettessero – io, Chambi e Adams – nello stesso posto e ci dicessero di lavorare, sicuramente noi tre faremmo tre cose completamente diverse.

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© Sebastião Salgado/Contrasto, Monte Roraima. Stato del Roraima, Brasile, 2018.

Perché? Perché noi nel nostro lavoro mettiamo tutto quello che è la nostra eredità. E quindi, in quell’intervento che è lo scatto fotografico che dura una frazione di secondo, c’è tutto questo. E, oltre a questo, c’è anche la realtà, la realtà di dove siamo in quel momento, ed è questa secondo me la meraviglia della fotografia, no? Oltre a loro sono sicuro che ci sono tanti altri fotografi che lavorano in questo modo incredibile e mi auguro che ne arrivino altri, perché secondo me l’essere fotografo è veramente essere la memoria della società, riuscire a vedere e a far vedere la meraviglia del nostro pianeta, abbracciare proprio l’epopea della storia. Questo è quello che facciamo noi, perché il fotografo è più di un creatore, è un privilegiato che, attraverso il proprio privilegio, riesce a far vedere agli altri, attraverso ciò che ha ereditato, quello che è una certa realtà. 

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© Sebastião Salgado/Contrasto, Giovane donna Ashaninka. Stato di Acre, Brasile, 2016.

Si può dire che Lei abbia uno stile, una tonalità perfettamente riconoscibili. Come è arrivato alla Sua fotografia?

Da giovane fotografo ho davvero fatto di tutto. Mi sono occupato di ritratti, mi sono occupato di nudo, di quello che era il paesaggio, eccetera eccetera. Poi, a un certo momento, da giovane, mi sono reso conto che c’era anche la fotografia sociale. E allora mi sono davvero buttato a corpo morto dentro questo settore. Perché mi sono reso conto di vivere in un paese che era povero, sottosviluppato, pieno di problemi e questioni sociali. Così ho anche studiato scienze sociali, per laurearmi poi in economia politica, quindi non nell’economia di gestione aziendale, ma in una disciplina che mi ha permesso di studiare il marxismo, di occuparmi di geopolitica. E dunque si può dire che sia stata la mia formazione ad avermi portato a occuparmi di fotografia sociale. Non sono stato io in prima persona, è come se mi ci fossi trovato quasi naturalmente. Quindi per me questa è stata, semplicemente, una scelta di vita. Ho scelto la fotografia, tutte le variabili che compongono il mio modello di vita e ho scelto di occuparmi di questi temi. 

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© Sebastião Salgado/Contrasto, Famiglia Ashaninka. Stato di Acre, Brasile, 2016.

Si può dire, infine, che con il lavoro Amazônia Lei creda nell’esistenza di un Paradiso in Terra? 

Se c’è ancora un Paradiso sulla Terra. Sì, ce ne sono due o tre di Paradisi, grandissimi, sulla Terra. Sono tre spazi che per me sono ancora intatti e che sono la rappresentazione di quello che era il nostro pianeta quando il nostro pianeta è nato. C’è l'Antartide, che è il mio Paradiso freddo, di una bellezza e una dimensione assolutamente incredibili. È quasi impossibile tradurre in immagine la meraviglia dell’Antartide. È una terra incredibilmente bella, incredibilmente pura. Il secondo Paradiso è la foresta boreale, che copre gran parte del nord della Terra, passa dalla Russia e dal Canada e arriva in Alaska. È una zona molto protetta, e io sono contento che ci sia questa protezione. E poi, ovviamente, il terzo Paradiso è ciò che ho rappresentato in fotografia della foresta Amazzonica che, per me, è veramente il Paradiso in Terra. È uno spazio incontaminato, puro, pulito, è dove si ritrova la natura, soprattutto il suo potere e la sua forza. È impossibile per me descrivere questo potere senza pensare alla pioggia amazzonica, uno degli spettacoli più incredibili. Quando qualcuno visita l’Amazzonia si rende veramente conto, dai colori e dalla forza naturale di quel luogo, cosa sia davvero la foresta amazzonica. E tutti coloro che la visitano restano increduli di fronte a uno spazio di questo genere. Poi ci sono le popolazioni autoctone, indigene, che sono il “noi” di quello che eravamo cinquemila, seimila anni fa, e che rappresentano ancora la preistoria dell’umanità. Ciò che io chiamo la matrice dell’umanità. La salute di queste persone, la bellezza fisica e morale di queste persone è tutto talmente incredibile che davvero lo credo un Paradiso. 

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© Sebastião Salgado/Contrasto, Indiana Yawanawá. Stato di Acre, Brasile, 2016.

La maniera in cui queste popolazioni si relazionano tra di loro, gli spazi interi, tutto è fenomenale, veramente impossibile da descrivere. Ecco perché ho cercato, attraverso questa mostra, di far vedere a ciascuno, per far prendere loro coscienza, di quanto sia necessario proteggere questa zona del mondo. Perché da questa zona dipende la sopravvivenza dell’umanità. È stato recentemente scoperto e sancito e studiato anche scientificamente che l’umidità che si crea nella foresta amazzonica, le microscopiche gocce di umidità che lì si creano, vengono trasportate creando le piogge negli Stati Uniti, in Europa attraverso l’Atlantico, e nel resto dell’America. Quelli che si definiscono “fiumi volanti”. Quindi, la foresta amazzonica è ciò che ci permette di avere l’agricoltura, per esempio, nei paesi circonvicini, in Argentina come in Brasile, e le piogge amazzoniche sono quello che si pensa possa dare un aiuto enorme alla conservazione della biodiversità del pianeta. Quindi dobbiamo davvero tenere in considerazione che la foresta amazzonica è la nostra riserva di acqua dolce valida per tutto il pianeta. E che se l’umanità riesce a vivere e a ricostruire e a vedere questo Paradiso può conservare la salute e la bellezza di cui tutti, da sempre, hanno bisogno. 

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© Sebastião Salgado/Contrasto, Giovani donne Suruwahá. Stato di Amazonas, Brasilel, 2017.

La mostra Amazônia, visitabile fino al 19 novembre 2023, è promossa e prodotta da Comune di Milao – Cultura, da Fabbrica del Vapore e Contrasto con CIVITA e General Service Security. La mostra è curata da Lélia Wanick Salgado, moglie e vera compagna di viaggio del fotografo. 

In copertina, © Sebastião Salgado/Contrasto, Yara Ashaninka, territorio indigeno di Kampa do Rio Amônea, Stato di Acre, Brasile, 2016.

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