Red mirror / La Cina e il Grande Fratello

4 Giugno 2020

Ci siamo accorti che la Cina c’è e insieme agli Stati Uniti dominerà il mondo prossimo venturo. L’Europa, speriamo riesca a uscire dalla morsa. Ogni buon libro che parli del gigante cinese è allora benvenuto, e alcuni tra i giornalisti italiani più informati e competenti ne stanno sfornando. Simone Pieranni in Cina ha abitato molti anni, e ora la segue dalla sua posizione agli esteri del Manifesto, che non per nulla è diventato il giornale italiano che sforna in continuazione notizie interessanti sull’Asia tutta, grazie anche a una batteria di freelance abituati a consumare le suole delle proprie scarpe nel mondo reale. Questo suo Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in cina, per Laterza, indaga la trasformazione del reale in Cina, con un titolo che è tutto un programma: programma rispettato.

 

Riesce, Pieranni, a immergerci in quella distopia geograficamente localizzata che sta diventando la Cina, il paese tecnologicamente più avanzato al mondo che di questa supremazia farà il grimaldello per una penetrazione geopolitica e soprattutto culturale. Si parte da wechat, app totalizzante, socialmente olistica, dentro alla quale già da anni i cinesi trovano tutto, e fanno tutto. La Cina, che in tante sue parti è ancora terzo mondo, è diventata cashless grazie a wechat, al punto che lo straniero in visita non avvezzo a usarlo può trovare difficoltà nella vita di tutti i giorni. È emblematica l’immagine del mendicante che, sul marciapiede, esibisce su un cartello il suo QRcode. Meglio: è da fantascienza, da Black Mirror, ed è questo che sfrucuglia la nostra curiosità, sono queste immagini che ci faranno venir voglia di Cina, fino a quando non ci accorgeremo che l’implementazione del grande fratello non è cosa che sta solo dentro ai nostri schermi come fiction, ma impatta le nostre esistenze reali: eccolo lo specchio. Insomma la Cina corre veloce e qui punta l’attenzione Red Mirror, che ce ne presenta lo stato di avanzamento in una puntuale misurazione del divario con l’occidente, già all’inseguimento. Grazie a una diffusione sempre più capillare dei sistemi di riconoscimento facciale si va costruendo una costante interconnessione del cittadino con l’entità che possiede i suoi big data: uno stato che è una dittatura, altro che la multinazionale che in occidente vuole venderci quattro carabattole – ma attenzione, perché la multinazionale americana il modello cinese lo sta studiando a fondo.

 

Quelle che Pieranni ci racconta sono sperimentazioni già di vasta portata in Cina, definirle invasioni della privacy è un eufemismo: interi quartieri, intere cittadine, dove è possibile ricostruire ogni più piccolo movimento delle persone tenendole sotto sorveglianza, e cominciando a tessere una rete entro la quale ciascuno sappia che sgarrare comporta una sanzione. Lo smaltimento non differenziato dei rifiuti sullo stesso piano del mancato pagamento di una rata di mutuo, l’infrazione stradale e quella pedonale: la Cina sta cercando la più utile metodologia di inquadramento del cittadino, magari anche un sistema a punti già definito come sistema dei crediti sociali, stabilendo soglie oltre le quali, e già accade nelle aree di sperimentazione, non si possono più comprare biglietti ferroviari o accedere a servizi sanitari.

 

Photo Credit: Kevin Hong.


Le corporations che implementano questi panopticon dichiarano: “Se per qualche giorno non vediamo passare dal portone una persona, andiamo a cercarla”. Il nome del progetto che pretende di portare sul territorio una telecamera ogni tre abitanti prende il nome da un vecchio slogan maoista: la popolazione ha occhi acuti. Del resto, è sui sistemi avanzatissimi di riconoscimento facciale che si basa l’operazione. E la popolazione sembra apprezzare la possibilità di avere città più sicure, ordinate, pulite, organizzate.

 

Ci ricorda Pieranni come proprio l’onnipresente wechat, che nasce come social network, non molto differente da quelli che usiamo noi e che in Cina sono oscurati, è il luogo principe dell’esercizio della censura di stato, che in pochi minuti cancella i contenuti scomodi, e l’ultima recente occasione nota fu quando i medici di Wuhan provarono ad avvertire la città che un virus sconosciuto stava assediandola. Tra le pagine più interessanti del libro ci sono quelle in cui si descrive l’esercito dei 50 centesimi: due milioni persone remunerate per ogni contenuto favorevole al regime condiviso su wechat e sul suo gemello weibo.  Red Mirror, raccontandoci pezzi del mondo prossimo venturo, l’Intelligenza Artificiale e l’Internet delle cose, il 5g, il soft power cinese che oggi si costituisce proprio sul tentativo di colonizzazione tecnologica, è tangenzialmente un ottimo documento per farsi raccontare la Cina. E quindi lo sfruttamento terribile di ogni forma di manodopera, anche quella intellettuale delle Silicon Valley d’oriente, il modo in cui la pretesa superiorità del modello meritocratico cinese si coniuga invece con la pratica del guanxi, e cioè molto prosaicamente la maniglia, l’aggancio, la relazione famigliare indispensabile a proiettarsi verso l’alto. Io penso che sarà importante conoscerla la Cina, nei prossimi mesi. La lotta per la supremazia con gli Stati Uniti si dipanerà soprattutto sul terreno della sfida tecnologica, i giganti privati americani del web sono già in corsa.

 

Ma la lotta si combatterà molto sul piano della propaganda, e quindi leggete anche Red Mirror. A noi verrà posta una questione: l’efficace reazione cinese all’epidemia è sintomo di una inferiorità delle nostre democrazie rispetto al ’modello cinese’? Io immagino i confronti, a breve, tra le nostre app di controllo dell’epidemia e il sistema cinese, avanzatissimo perché innestato, appunto, su piattaforme preesistenti di tracciamento, di riconoscimento facciale, di condivisione totalizzante dei dati. A questa offensiva di propaganda l’occidente sta rispondendo con le domande sulla diffusione del virus in Cina, che al di là della fuffa sulla sua origine non naturale, nascondono l’intenzione di ricordare che, in assenza di libertà di stampa e di opinione, le informazioni non circolano: non c’erano, in Cina, né testate giornalistiche indipendenti né liberi social network sui quali far partire l’allarme virus in tempo. Una delle domande con le quali Pieranni chiude il libro è: preferiremo che i nostri Big Data siano in mani cinesi o in mani americane? Io spero sapremo sottrarci al dilemma. E in generale spero saremo capaci di non schierarci con Xi Jinping perché non ci piace Trump, o con Trump perché non ci piace Xi Jinping.

 

Non ho intenzione di scegliere tra l’espansionismo cinese e l’imperialismo americano che ha preteso fin qui di dominare il mondo. Ma studiando la Cina una cosa non possiamo mai dimenticarla: niente libera opinione, niente libera informazione, niente democrazia, niente diritto di sciopero, dissidenti in carcere. E qui mi sento di fare l’unico appunto a questo ottimo libro: sulla falsariga di quanto fanno purtroppo altri bravi osservatori di cose cinesi, in una pagina dedicata alla profondità del controllo sociale Pieranni definisce la Cina come un paese ‘dalle evidenti tendenze autoritarie’. Peccato si trattenga dall’usare la parola giusta: dittatura.

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