Ci siamo ancora / Ester Safran Foer. La memoria è l'inizio

4 Settembre 2020

Negli anni Novanta, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si cominciarono a vedere in Ucraina e Lituania file di uomini vestiti strambamente di nero, con grandi cappelli, oppure anziani signori, per lo più americani, che giravano per i più sperduti villaggi esibendo ingiallite foto di loro parenti e chiedendo informazioni su luoghi cancellati dalla furia nazista e indicazioni sul bosco dove avrebbero potuto esser state ammazzate e sepolte le persone delle loro famiglie.

Da queste nacque una singolare attività turistica con autisti, interpreti, improvvisati storici locali che “aiutavano” gli stranieri nelle loro ricerche, guadagnando considerevoli somme.

Nel 1999 il giovane scrittore Jonatahan Safran Foer (1977), si recò in Ucraina per scrivere la sua tesi per l’Università di Princeton ma, in realtà, per fare delle ricerche sul campo sul destino dei suoi parenti. L’insuccesso della spedizione lo ha raccontato, con molta autoironia, in un bel romanzo che ha avuto molto successo: Everything Is Illuminated (Ogni cosa è illuminata, Guanda 2002), dal quale è stato tratto il tragicomico, e omonimo, film con la regia di Liev Schreiber (2005).

 

Il romanzo racconta di un giovane ebreo statunitense, Jonathan, che si reca in Ucraina alla ricerca di Augustine, la donna che salvò la vita a suo nonno durante le deportazioni naziste. Armato di una fotografia che ritrae Augustine con suo nonno, Jonathan inizia così la sua ricerca del paesino fantasma di Trachimbrod, lo shtetl in cui all'epoca suo nonno viveva, distrutto dai nazisti durante la guerra e perciò scomparso dalle mappe. Nel suo viaggio è accompagnato da una guida locale, Aleksandr (Alex), con il quale stringerà presto amicizia, e dallo strambo nonno di Alex, che sostiene di essere cieco (ma in realtà ci vede benissimo), e che per questo si fa condurre dal proprio cane-guida, Sammy Davis Junior Junior. Incontreranno infine Lista, una delle amanti di Safran, il nonno di Jonathan. Lista, unica sopravvissuta al pogrom, racconterà loro di come Trachimbrod sia stata rasa al suolo dai tedeschi, e della morte di sua sorella Augustine…

 

In realtà Jonathan doveva trovare un uomo che salvò, coraggiosamente, suo nonno. Lo sappiamo oggi dal libro di sua madre, Ester Safran Foer, I Want You to Know We’re Still Here (Voglio che sappiate che ci siamo ancora, Guanda 2020). La madre non si è accontentata degli scarsi risultati delle ricerche del figlio e si è messa caparbiamente sulle scarse tracce dell’uomo, che compare in una vecchia fotografia accanto a suo padre, dopo averlo salvato. Il padre, immigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra, si suicidò poi nel 1951, ufficialmente a causa di un tracollo finanziario (“So che scampare alla guerra non voleva dire, necessariamente, esserle sopravvissuti”, nota amaramente la figlia a p.52). Mettendo in piedi una rete internazionale tra i sopravvissuti dello shtetl di Trachimbrod, Ester raccoglie migliaia di informazioni, visita di persona i possibili testimoni e, alla fine, assieme al suo primo figlio Franklin (1974), giornalista di “The Atlantic” ed ex redattore di “The New Republic”, si recherà anche lei in Ucraina e scoprirà la verità.

 

Alla base del suo lavoro di ricerca sta una riflessione sulla “postmemoria”: l’idea che i ricordi traumatici, anche se non ha sperimentato direttamente gli eventi continuino a vivere nella generazione successiva. La docente della Columbia University, Marianne Hirsch, che ha introdotto il termine “postmemoria”, ipotizza che le storie con cui si cresce, poiché trasmesse a livello affettivo, diventino ricordi a pieno titolo e che tali ricordi ereditari, frammenti traumatici di eventi, si sottraggano a una ricostruzione coerente.

La lingua ebraica manca di una parola precisa che connoti la Storia. Come ha mostrato il grande storico Yosef Hayim Yerushalmi (1932-2009), nel libro del 1981 Zakhor. Jewish History and Jewish Memory (in italiano come Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Pratiche Editrice 1983, poi Giuntina 2011), la parola “storia” viene tradotta con zakhor che significa “memoria”. La storia è pubblica. La memoria è personale. Come nota Ester Safran Foer: “La memoria riguarda racconti ed esperienze selezionate. La storia è la fine di qualcosa. La memoria è l’inizio”.

 

Ester sostiene di esser cresciuta in mezzo ai fantasmi: “la mia infanzia è stata piena di silenzi, punteggiati di tanto in tanto da rivelazioni sconvolgenti (…), perseguitata da parenti di cui si parlava raramente e da storie che nessuno voleva raccontare”. A cominciare dalle circostanze della sua nascita: ufficialmente l’8 settembre 1946 a Ziegenhaim in Germania. I suoi genitori (Ethel Bronstein, di Kolki, salvatasi in Uzbekistan e Louis Safran, di Trochenbrod), gli unici membri delle rispettive famiglie a essersi salvati dall’Olocausto, si sposarono nel campo profughi di Łódź, in Polonia, il 5 maggio 1945 ed Ester nacque là il 17 marzo 1946. Zieghenheim, in Germania, dove Ester risulta nata con un’altra data, fu il secondo campo dove i Safran furono trasferiti. 

 

 

Il libro di Esther Safran Foer, non è tanto importante per la storia che, in un certo senso, completa e corregge la parziale finzione di Ogni storia illuminata, quanto per come racconta una vicenda ancora poco studiata: il destino dei sopravvissuti all’Olocausto nei due anni successivi alla fine della guerra. 

I genitori di Ester, che campavano a stento a Łódź, grazie a una piccola attività di commercio, volevano andarsene al più presto (come gli altri 50mila ebrei che si trovavano in città) e riuscire ad emigrare negli Stati Uniti, grazie all’aiuto di un parente che già abitava là. Ma, in pratica, tutte le opzioni migratorie fuori dal cimitero europeo erano impraticabili. Vennero organizzati centinaia di campi profughi, non solo in Germania, ma anche in Austria e in Italia: ospitavano circa 850.000 persone. Nessuno voleva i profughi ebrei, nemmeno gli Stati Uniti. L’unica possibilità, anche questa non facile e rischiosa, era di emigrare in Palestina per contribuire alla nascita dello Stato d’Israele. In Germania in particolare, la vita nei campi profughi (spesso gli stessi campi di lavoro tedeschi) era insopportabile. Ester riferisce della testimonianza di Gina Roitman su un’ostetrica tedesca che uccideva i neonati ebrei schiacciandogli la fontanella e dicendo che non erano sopravvissuti al parto (p.87). Due soldati ebrei americani, Edward Herman e Robert Hilliard scrissero, nel 1945, una lettera di denuncia alle autorità alleate: “Con la vostra colpevole negligenza siete responsabili della morte degli ebrei europei quanto lo sono in precedenza i più diabolici tra i nazisti. Migliaia di ebrei europei sono ridotti all’indigenza, senza cibo, riparo, vestiario e assistenza medica”. Il presidente statunitense Truman ordinò un’inchiesta, guidata da Earl G. Harrison che riferì: “Trattiamo gli ebrei come li trattavano i nazisti, se non fosse che noi non li sterminiamo”. Ma gli Stati Uniti, come molti altri paesi, facevano mille difficoltà all’immigrazione ebraica.

La Polonia, racconta Ester, per gli ebrei era ancora molto pericolosa perché l’antisemitismo era assai diffuso. 

 

Lo storico di origine polacca Lukas Krzyzanowski, nel libro Ghost citizens (Harvard UP, 2016), racconta la storia del ritorno a casa, in Polonia e negli altri paesi del centro Europa, dei sopravvissuti dai campi di sterminio e di prigionia, o dall’esilio in Unione Sovietica. Erano persone che avevano perso tutto: molti volevano tornare a casa propria (che spesso non c’era più) oppure emigrare in Israele o negli Stati Uniti, o in America Latina. Per almeno due anni furono costretti a rimanere in un pericoloso e disagevole stato di incertezze e paura, una sorta di tragico Limbo: ammassati in “campi di raccolta” o, quando fecero ritorno per i fatti propri, sottoposti a ogni genere di angherie (cfr. M. Hillel, Le massacre des survivants. En Pologne 1945-1947, Plon, Paris 1985). 

Come racconta Krzyzanowski, nel luglio del 1946, c’erano in Polonia 244.964 persone che si dichiaravano ebrei. Di essi: 136.550 erano ebrei polacchi rimpatriati dall’Unione Sovietica nel periodo febbraio-giugno 1946 (in base all’accordo per il rimpatrio tra Polonia e Unione Sovietica, del 6 luglio 1945); gli altri 108.000 erano ebrei che erano sopravvissuti alla guerra in Polonia o erano arrivati clandestinamente dall’Ucraina, la Bielorussia e la Lituania. La maggioranza di essi abitava nelle terre sottratte (le cosiddette: Terre riprese) alla Germania (Breslavia e la Slesia e Stettino), oltre che a Varsavia e Łódź. Verso questi sopravvissuti, che avevano perso tutto, l’ostilità era diffusa.

 

Ne erano consapevoli soprattutto le organizzazioni ebraiche che aiutavano il rimpatrio, la sistemazione e il reinserimento degli ebrei scampati all’Olocausto: “Ancora durante il periodo di preparazione al rimpatrio, in Unione Sovietica, fu fortemente propagandato lo slogan del rimpatrio nelle Terre Occidentali sottratte alla Germania. Bisognava tener conto che sarebbe stato impossibile che i rimpatriati ebrei, provenienti soprattutto da città e cittadine della Polonia centrale e orientale, potessero insediarsi nei luoghi dove avevano risieduto prima della guerra (...). Si dovette garantire alla popolazione ebraica che rientrava la sicurezza personale, perché era minacciata (...). In questa situazione, era ovvio che occorreva indirizzare i rimpatrianti principalmente verso le terre occidentali, poiché quei terreni, abbandonati dai tedeschi, potevano facilmente procurar loro un tetto sulla testa”. Una notevole testimonianza diretta sull’argomento fu scritta in yiddish da Ian Turkov (1898-1982) e pubblicata a Buenos Aires nel 1959. Più recentemente tradotta in francese (En Pologne après la liberation. L’impossible survie des rescapès juifs, Calmann-Lévy, Paris 2008) è il racconto di un viaggio all’inferno, con pochi sprazzi di umanità. 

 

Voglio che sappiate che ci siamo ancora, mischiando ricordi personali, testimonianze raccolte in giro per il mondo, e lettura di documenti rimasti per molto tempo inediti, completa questi ancora pochi libri su un capitolo dell’immediato dopoguerra che è rimasto troppo a lungo ignorato. Il libro di Ester Safran Foer si può considerare un “monumento” alla sua famiglia e agli ebrei sopravvissuti all’Olocausto. I monumenti hanno molto a che fare con la nostalgia. Nel linguaggio comune la nostalgia è quel particolare moto di commozione per il passato, per ciò che si è vissuto, ma anche che non si è vissuto, se non retrospettivamente, ovvero come rimpianto, che è diventato tipico della cultura contemporanea. Mentre nel passato la nostalgia designava uno spazio e un paesaggio concreti, le nozioni contemporanee designano soprattutto persone e una persistenza soggettiva del passato vissuto (cfr. Jean Starobinski, La leçon de la nostalgie (1966), in Id., L’Encre de la mélancolie, Éditions du Seuil, Paris 2012; tr. it., La lezione della nostalgia, in Id., L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino, 2014). I monumenti, in quanto appunto “sostituti simbolici” del nostro rimpianto per qualcuno o qualche fatto accaduto, sono la rappresentazione di una memoria nostalgica che non ha molto a che fare con la verità storica. Ma, in certi casi come questo, in fondo, forse poco importa.

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