Speciale
Il disgelo / Il Festival della Gioventù
Il 28 luglio 1957 a Mosca ebbero inizio le due settimane più intense, inaspettate, innovative che la storia culturale dell’Unione Sovietica avesse mai conosciuto. Per il VI Festival mondiale della gioventù e degli studenti confluirono nella capitale 34.000 persone da 131 paesi stranieri. Rappresentanti di tanti popoli e razze che, sulle ali del colombo della pace, simbolo dell’evento disegnato da Picasso, sarebbero volati a Mosca con fiori e chitarre in mano, molto prima della summer of love sanfranciscana, e con principi e intenti un po’ diversi ma neppure troppo.
Stalin era morto da quattro anni, il disgelo chruščëviano imperversava, con le altalenanti vicende che ne avrebbero caratterizzato la natura fino all’apogeo del 1961: aperture improvvise, che illudevano e facevano sperare, seguite da altrettanto repentine e punitive marce indietro. Segnali dell’insicurezza e dell’impreparazione del leader, ma anche di una sua caparbia quanto stravagante volontà di innovazione. In parallelo al rapporto segreto anti staliniano, ufficializzato nel corso del XX Congresso del Partito nel febbraio del 1956, che denunciava crimini e misfatti dell’idolo del popolo connotato da Chruščëv come spietato tiranno e responsabile del pericoloso culto della personalità, era seguita, a fine ottobre, la sanguinaria repressione della rivolta ungherese contro la vecchia guardia stalinista. Sorpresa, attesa, stupore, diffidenza, indignazione. Tutte queste categorie coesistevano e si alternavano nei sentimenti della popolazione. I più anziani, dopo l’estenuante quanto coinvolgente epopea bellica, condotta nel nome di Stalin, dai più ancora considerato come unico artefice della vittoria, guardavano alle denunce chruščëviane con sospetto e addirittura rabbia.
Comprensibile atteggiamento di fronte all’ennesimo blitz che avrebbe cambiato radicalmente e brutalmente il corso di una storia, quella russa-sovietica, che non riusciva a procedere con equilibrio e armonia ma presentava continui scarti e fulminee variazioni di percorso. I più giovani, invece, non contaminati dal mito staliniano e meno direttamente coinvolti nelle sofferenze della guerra, mostravano di apprezzare le aperture socio-politico-culturali, compresi gli inviti del leader a unirsi alle spedizioni che avevano come scopo il dissodamento delle terre vergini. In altre parole per loro, possibilità di lasciare genitori e sovraffollati appartamenti in coabitazione per vivere una stagione in compagnia di coetanei, campeggiando nel bosco, scoprendo in mezzo alla natura amore, sesso, amicizia e, non ultima, vodka; il tutto accompagnato dalle nascenti melodie dei cantautori e dall’immancabile chitarra. Pratiche e atteggiamenti che sarebbero passati alla storia come “romanticismo sovietico” e “spirito degli anni Sessanta”.
Il festival del 1957 fu la risolutiva rampa di lancio per tutto ciò. Un ricco programma di manifestazioni, dagli incontri-dibattito politici a una nutrita rassegna di cinema, dalla poesia alla musica nel nome di “amicizia e pace”, come recitava lo slogan del festival riprodotto su decine di migliaia di manifesti, distintivi, striscioni. Retorica a piene mani, senza dubbio, ma così diversa da quella dei decenni precedenti, meno roboante e, soprattutto, più agile e passibile di essere interpretata e fatta performare. Basta con le parate di eletti sulla piazza Rossa organizzate fino all’ultimo dettaglio in asfissiante perfezionismo, basta con l’estetica tripudiante e autoreferenziale che portava decine di simulacri staliniani a essere portati in trionfo davanti a lui, immobile e compiaciuto nella sua postazione di osservatore al riparo da ogni rischio sulla tribuna del mausoleo di Lenin. Oggi a sfilare, in formazioni colorate e spontanee, a bordo di ruspanti autocarri, erano i giovani stranieri con i quali i cittadini moscoviti potevano finalmente relazionarsi senza temere denunce o inibizioni. Il pubblico, liberamente confluito e costituito da chiunque avesse avuto il desiderio di unirsi alla festa, inneggiava lungo le quotidiane vie della città non già all’immagine di un dittatore ma a ragazzi e ragazze allegri e scanzonati. Così distanti dal grigiore delle delegazioni ufficiali, dei diplomatici, dei pochi giornalisti o uomini d’affari che per anni avevano costituito l’unico “turismo” straniero in Unione Sovietica.
Le piramidi umane di cittadini che, alla ricerca di un punto d’osservazione privilegiato, si formavano a ridosso dei monumenti nulla più avevano in comune con le artificiose formazioni di atleti ibernati, per gli occhi di Stalin, in posizioni rigide e assurde.
L’entusiasmo era sincero, partecipato, la soddisfazione istintiva e liberatoria, l’orgoglio grandioso: la propria città, il proprio Paese diventavano il centro di una manifestazione galvanizzante, mondiale, libera, in cui principi fondamentali come solidarietà, condanna del razzismo, volontà di dialogo sembravano essere fondamentali e destinati a durare.
Assieme ai giovani di mezzo mondo scendevano in piazza il desiderio di relazioni non controllate, di emancipata opinione pubblica, di scambio di idee aperto e leale, di formativi dubbi al posto di vincolanti certezze. Rock around the Clock risuonava magicamente a fianco di più domestiche ma sincopate melodie come Esli by parni vsej zemli (Se tutti i ragazzi del mondo potessero radunarsi insieme). Incipit utopistico, a non nascondere la consapevolezza che quanto animava le vie e le notti moscovite ancora non era realtà a tutto tondo, ma che ci si poteva sperare e che le basi erano state poste. Alla pace fu intitolata la sequenza di una serie di vie nel nord-est di Mosca, a formare la lunghissima arteria che ancora oggi porta il nome di Prospekt Mira (corso della Pace). Jeans e scarpe da ginnastica fecero il loro trionfale ingresso in URSS e i giovani stiljagi (azzimati e improbabili fashion victims dei primi anni Cinquanta), protagonisti di una pionieristica ma indiscutibilmente preziosa contro-cultura giovanile, compresero che l’occidente vero era cosa altra da quanto loro avessero immaginato e scomparvero assieme alla propria fissazione per lo stile.
Gli anni immediatamente successivi avrebbero testimoniato momenti importanti sul fronte culturale (la pubblicazione dell’Ivan Denisovič di Solženitsin, per esempio), l’immenso successo dei cosiddetti “giovani poeti”, rock star ante litteram (Evtušenko, Achmadulina, Voznesenskij). Sul fronte politico: la riabilitazione di migliaia di cittadini ingiustamente condannati durate il terrore staliniano e la rimozione del corpo dello stesso Stalin dal mausoleo di Lenin. Sul fronte scientifico-tecnologico, il lancio dei primi sputnik, i satelliti artificiali che avrebbero aperto la strada alla conquista umana dello spazio con il volo di Gagarin del 1961. Ma anche eventi di portata contraria, quell’altalena a cui facevo riferimento in precedenza: il violento attacco da parte dello stesso Chruščëv ai pittori astrattisti alla mostra del Maneggio moscovita e la conseguente feroce condanna che questi subirono, la persistenza di “eredi di Stalin” al potere, la repressione del jazz e il ritorno forzato alla musica popolare russa. Il 1964 avrebbe assistito alla defenestrazione di Chruščëv, responsabile di troppi errori, circondato da troppi “cattivi” consiglieri. La bella illusione sarebbe sfumata, i ragazzi del Festival sarebbero precocemente invecchiati e tempi di nuovo cupi sarebbero arrivati con Brežnev, sotto la superficie del cui stagno sovietico (stagnazione fu il termine scelto per caratterizzarne l’immobilità governativa) i fermenti non sarebbero comunque mancati. Intanto però il giaccio era stato rotto. L’URSS non era più soltanto lager e terrore. L’Europa, Italia compresa, sull’onda della canzone che aveva chiuso le manifestazioni del Festival l’11 agosto 1957, sognava la sua romantica e oleografica “Mezzanotte a Mosca”.