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Parole e immagini (9) / Qui Odessa. Separare il grano dal loglio

2 giugno 2022

 

Non chiedo mai a nessuno di mettersi in posa. Semplicemente mi trovo accanto, parliamo insieme, capita anche che me ne vada senza nemmeno aver fatto uno scatto. Certe volte ho osservato per degli anni. Altre volte, un passante che mi viene incontro mi sorride in modo così intenso che afferro subito la macchina fotografica. Quasi tutti i ritratti che ho fatto me li ricordo, sebbene siano ormai almeno vent’anni che fotografo. Ma mi ricordo ancora meglio quelli che non ho fatto. Perché non ho fatto in tempo. Perché non ho superato l’imbarazzo. Perché non ho insistito.

 

Guardo il ritratto di Felix Kochricht accanto a sua moglie Tatiana Verbitzkaja, e mi sento a casa. Provo a capire come possa accadere che una semplice immagine di due persone in un interno domestico riesca a trasmettermi tanto calore, tanta dimestichezza, come se li conoscessi da sempre. Mi sento a casa, accanto a loro. C’è il calore di un ambiente pieno di quadri, e so già che non mancheranno milanesi e brianzoli pronti a insorgere dicendo che è troppo piena, che l’horror vacui stanca. Nelle case che ho abitato funziona così: non c’è più lo spazio per piantare nemmeno uno spillo alle pareti, e mi tocca sentire i rimbrotti di mio figlio che si sente oppresso da questa cupola sinestetica. Si sono messi in posa ciascuno con due distinte traiettorie di sguardo, quindi sono una coppia accordata ma composta da due entità distinte. Sanno nutrire una distanza, dunque, che è lo spazio in cui far germogliare il rispetto verso l’altro. Epperò quanta gentilezza, quanto tenero orgoglio per tutta la strada compiuta assieme, tutta la vita attraversata… In un altro scatto della serie lui è seduto e lei gli impone le mani sulla testa, come se tenesse una teca di cristallo. Un amore lancinante che buca la pellicola e ci raggiunge. Sono colpito dall’intensità dello sguardo di Felix nelle cinque foto che mi ha mandato Anna. Ogni volta ha un’espressione diversa. Sembra un attore scespiriano. Ma io, perché mi sento a casa?

 

90° giorno dell’invasione, Il giornalista Felix Kochricht con la moglie Tatiana Verbitzkaja.


Per esempio Zhvanetzkij non l’ho mai fotografato. Lo conoscevo da una vita, ci frequentavamo, e una volta lui si confessò: gli dava fastidio che uno dei due occhi vedesse peggio dell’altro. Questa cosa gli procurava un certo imbarazzo, e si percepiva. A un estraneo non diresti una cosa del genere. “Anna, almeno tu, per favore, abbi pietà, non mi fotografare!..”  E io l’ho accontentato, non l’ho fotografato, nemmeno quando sono comparse le macchine fotografiche incorporate dentro il telefono, e tutti si sono messi a fargli foto durante le tavolate o per strada. Non ho mai infranto la sua richiesta. 

 

Felix è un caro amico e collega storico del papà di Anna, Evgenij Golubovskij, e quando erano molto giovani mia mamma Evelina deve essere stata una sua fiamma. C’è una fotografia stupefacente di loro due, così eleganti, così innamorati della vita. Sono nel porto. Dietro di loro si vedono una nave e una gru su rotaie – un impasto di ferraglia sovietica, quelle infrastrutture industriali che sembravano vetuste e pericolanti già dal secondo giorno dopo l’inaugurazione. In primo piano loro, appoggiati con nonchalance hollywoodiana a un palo, lei di schiena e lui di spalla. Elegantissimi. Lei con una gonna a pois bianchi e lui con una giacca di tweed. Evelina mi dice che lui aveva i capelli rossi, e anche lei era rossa. Due rossi. Due ambasciatori di Venere in mezzo a un porto pieno di polveri.

 

Una delle fotografie in questo articolo è una sovraimpressione, ossia il risultato di due inquadrature che per caso si sono sovrapposte l’una sull’altra. L’effetto è un po’ mistico. Ma anche la storia non è priva di un suo misticismo. La protagonista si chiama Julia Mel’niciuk. La conosco da cinque anni. Ai tempi faceva la modella di nudo per un mio amico pittore, e io cercavo persone per fare dei nudi all’aperto, in mezzo alla natura. La prima volta ci siamo incontrate per strada. La giornata è fredda, ma lei ha vuole farsi ritrarre subito, e così andiamo a casa mia. Di norma evito domande personali o invasive, ma a un certo punto penso che fosse incinta. “Ma no, dai, – dice la ragazza facendo un gesto con la mano, – per il momento non ci riusciamo.” Io provo dentro di me come un movimento di tenerezza, e maledicendomi per la mancanza di tatto, le ripeto che mi era parso così… Il mattino dopo squilla il telefono, e una voce felice mi raggiunge: “Ma come avete fatto a indovinare? Sì, è vero, aspetto un figlio!”

 

94° giorno dell’invasione, Julia Mel’niciuk.


Mi sento a casa, mi sento in Europa. Quel luogo in cui cacciatori di immagini come Anna da secoli si divertono a estrarre l’anima dalle loro prede esercitando il nobile sport del ritratto, certe volte anche sollecitati da loro, e certe volte addirittura ben pagati. Ma che cos’è esattamente l’Europa? Che cosa ci tiene insieme? Qual è il collagene? Recentemente, pensando a come si possa irrobustire il senso di appartenenza a un organismo politico a cui si rimprovera un eccesso di tecnicalità e burocrazia politica, mi sono divertito a immaginare un nuovo inno per l’Europa, in alternativa all’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven adottato nel 1972. Per prima cosa, sarebbe bello che l’inno dell’Europa cambiasse ogni dieci anni, accettando che oggi le cose mutano alla svelta, e le musiche dell’Ottocento o di sapore ottocentesco hanno il fiato corto. È un gioco utile, mi pare, a cui vorrei invitare i lettori di Doppiozero. Perché no, festeggiamo il nuovo formato grafico con un concorso di idee.

 

Le cose si capiscono giocando. È difficile davvero, e non tanto per trovare una musica che sappia incontrare il gusto di tradizioni plurali, quanto per la difficoltà di piacere e convincere generazioni diverse, musicalmente assai distanziate. Darsi un inno oggi sembra una missione impossibile, come risolvere la congettura di Poincaré, bisognerebbe mettere una taglia da 1 milione di dollari. A me è venuto in mente il concerto di Keith Jarrett nel teatro dell’opera di Colonia nel 1975. Il pianoforte non era quello richiesto dall’artista e aveva un pedalo rotto, ma alla fine Jarrett suonò. Americano ma con ascendenze ungheresi. Musicista jazz ma con solidi studi classici alle spalle. Un miscuglio come l’Europa. Un inno jazz, poi, è come dire: noi vi diamo la nostra versione, ma avrebbe potuto anche essere un’altra. Inno dubitativo per la società del dubbio. Musica liquida per il tempo liquido. Sul palco Jarrett (anche lui da bambino esecutore di Bach) canticchia in trance come faceva Glenn Gould, magnetico, profondo. Un pianoforte solo, niente orchestre e bande di paese. Il canto della dignitas della persona contro le geometrie di cartapesta degli eserciti. È solo una proposta. Sono curioso di ascoltare le vostre. Dunque, che cosa ci tiene insieme?

 

So che Francesco Cataluccio sta scrivendo un libro intorno all’idea di Europa e decido di telefonargli. Mi dice che l’idea del romanzo è quella di un albergo in cui le persone vanno e vengono di continuo, ognuno con la propria storia. L’Europa si è venuta formando intorno a un mare chiuso, il Mediterraneo, sul quale si affacciano genti e culture diverse che hanno imparato a convivere, a conoscersi, a mischiarsi. È la mescolanza la parola chiave. E Odessa ne sarebbe la metafora perfetta. C’è il mare, l’apertura, lo snodo fra agricoltura e navigazione. C’è il mito degli antichi, con tutta la cultura classica che ha irrorato lo sviluppo della città. E ci sono gli ebrei, che come hanno fatto in Europa, hanno generato una trama di scambio fittissima e fertile a vantaggio della comunità. Nelle parti europee più lontane dal centro, verso Est, sembra abbiano più chiare di noi le idee su cosa sia e cosa rappresenti l’Europa.

 

Bella risposta, ma mi manca qualcosa. In fondo, anche nelle città americane si è cercata l’integrazione di genti e culture diverse, e non sempre le cose sono andate come si pensava. Chinatownt o Little Italy sono comunità arroccate nelle loro identità, isole spazio-culturali che marcano il territorio e rivendicano autonomia dalla nazione grande costruendo delle sottonazioni. L’integrazione ha mostrato dei limiti invalicabili. Ci deve essere dell’altro. Mi viene in mente una parola: accuratezza, una parola fondativa con tante a, e con a bordo il concetto di cura, che vuol dire attenzione, ascolto, presa in carico. Il tipo europeo, tutto sommato – e non solo lo svizzero o il tedesco – è accurato, preciso. È accurato, per esempio, nel validare la storia che si lascia alle spalle.

 

Noi portiamo il fardello degli errori passati, alcuni terribili come le guerre Galliche, le Crociate, anche quelle contro i Catari, le guerre centenarie per far nascere le nazioni, il fiume di sangue della Rivoluzione francese, di cui siamo tutti nipoti, e poi l’indicibile, la Shoah. Ci trasciniamo il fardello provando a non rimuoverlo, provando a non dimenticare. E quando ci riusciamo – a non dimenticare – distinguiamo. (È il perfecto distingo della prima strofa della canzone Gracias a la vida di Violeta Parra del 1966, resa celebre da Mercedes Sosa e che parimenti potrebbe funzionare come inno europeo, pur essendo cilena: Gracias a la vida que me ha dado tanto / Me dio dos luceros que cuando los abro / Perfecto distingo lo negro del blanco.)

 

81° giorno dell’invasione, Mikhail Ksida, solista della Filarmonica di Odessa.


Separiamo il grano dal loglio. Sappiamo valutare l’impronta positiva lasciata dal vento di cambiamento della rivoluzione, tenendo a mente che il costo è stato elevatissimo in termini di vite umane e tenuta morale perdute, ma sappiamo anche che buttare a mare il buono e il costruttivo generati dal volo dell’utopia sarebbe un inutile spreco a posteriori. Siamo degli utopici pragmatici, un ossimoro. Alimentiamo utopie che poi trattiamo con senso della realtà. Gli errori vanno capiti, non rimossi. Ne discende come cifra dell’Europa un desiderio insopprimibile di verità e di giustizia – la capacità di distinguere appunto e di non fare di tutta l’erba un fascio – e subito accanto come una pietas verso noi stessi. Così siamo riusciti a diventare un porto di attracco anche per le altre culture, un luogo – in alcuni casi anche una scuola – di riflessione ponderata e rielaborazione del passato.

 

Già gli antichi si volgevano indietro per trarre ispirazione dall’Età dell’oro. E quando penso questo, penso che Odessa è anche molto ‘precisa’ nel suo comportamento così dignitoso e attaccato alle tradizioni tutte sue, come è giusto che sia per una città consapevole. Dall’altra parte, nello spazio post-sovietico, non vedo questa accuratezza ahimé, non vedo consapevolezza. C’è un rapporto doloroso e distorto con l’eredità storica, è sotto gli occhi di tutti, da Ivan il Terribile in poi. Settant’anni di un esperimento sociale senza precedenti e ai limiti della hubris umana, in nome di un’ineccepibile idea di uguaglianza hanno storpiato un grande paese già storpiato di suo, producendo menzogna patologica e corruzione molecolare. Eppure, durante questo esperimento, pur nel contrasto con le personalità di spicco nei vari campi, sono state realizzate cose da togliere il fiato – la scienza, la scuola, i diritti delle donne, la corsa nello spazio, la solidarietà internazionale… Il problema è che oggi non sanno distinguere accuratamente le cose buone e quelle brutte del comunismo. Non soppesano. E ci tocca assistere al rigurgito gastrico dello stalinismo. Che peccato, quanto spreco di intelligenza e di futuro. E che paura.

 

Sono trascorsi cinque anni, e ci siamo accordate per un’altra sessione fotografica. Io volevo farle un ritratto, ma quando entro nella stanza, lei si toglie subito i vestiti e va a sdraiarsi sotto la finestra con una grazia così morbida, così felina. Risultato: l’unico scatto che si è salvato è questa sovrimpressione. È successo che per la prima volta in vita mia due intere pellicole si siano rovinate al momento dello sviluppo. Di solito compro l’acqua distillata per lo sviluppo in farmacia. Questa volta, invece, dopo essermi fatta quattro ore di fila per fare benzina, avevo visto una bottiglia di acqua distillata nello shop della stazione di rifornimento, e avevo deciso di comprarla al volo. Diluisco, sviluppo, e scopro che la pellicola è letteralmente smangiata. Non riesco a capire, fino a quando non mi viene in mente di annusare l’acqua rimasta nel flacone. Mistero svelato: invece di acqua distillata era un liquido per tergicristalli. Li avranno scambiati. Così, le fotografie di Julia sono rimaste impresse per sempre solo nella mia memoria.

 

Felix non sembra tanto felice nella quinta foto. Sprigiona un appena percettibile retrogusto medievale che lo imparenta con il cavaliere Antonious Block, del Il settimo Sigillo di Ingmar Bergmann (1957), ossia Max von Sydow. Osserviamolo meglio. Esprime compostezza, saggezza, densità e un certo senso aristocratico della vita (faccio appello alla vostra immaginazione, so bene che l’espressione non è del tutto a fuoco). Il volto è l’immagine di una città. In fondo, una città è anche un luogo in cui tante anime hanno un comune sentire, si parlano e sono legate, quindi non c’è nulla di strano che una di loro possa parlare a nome di tutte le altre. Mi colpisce la postura, la mano destra che si appoggia calma e serafica. È un tocco gentile, accurato. E poi il volto, la scena principale. Gli occhi guardano oltre, nell’altrove, forse scrutano la fine di una città che vive la minaccia dell’invasione. È possibile. Non c’è scoramento, non c’è disperazione, c’è osservazione calma e semmai un’allusione lieve alla malinconia.

 

81° giorno dell’invasione, Jaroslava Slavinskaja con il figlio Ramil.


La storia si ripete, sempre però introducendo delle lievi differenze, e lo sguardo di Felix si dispone a catturarle. È dunque uno sguardo in attesa. Le labbra, invece, ci dicono altro, non si accordano agli occhi. C’è un sorriso, forse represso, contorto e levigato come un legno sulla spiaggia. È un sorriso che lotta con gli occhi, che vuol dire altro, che ricorda la pasta della vita di tutti i giorni, lontana dalle stragi della guerra e dai paradossi della politica. È il sorriso di Odessa, sembra sussurrare “Nonostante tutto, qui siamo a Odessa.” Un sorriso che fa buon viso a cattivo gioco, e il gioco a questa mano è davvero cattivo. Sarà lecito parlare di una persona come se fosse una città? E di una città come se fosse una persona? Lecito non saprei, nei discorsi è comune. 

 

Quando una persona si svela, mostra tutte le facce. Durante un unico discorso sorride, diventa triste o diventa pensosa. Quale sarà la faccia vera? Sono tutte vere. Io con la macchina sono il diapason, sono lo strumento con il quale – se si viene a coincidere con l’altro – la persona entra in risonanza.


Felix è di formazione medico ma ha sempre fatto il giornalista. Nell’arco della sua vita ha diretto e fatto nascere diverse testate. Ha viaggiato molto, è un collezionista di arte contemporanea, ha partecipato attivamente alla vita pubblica di Odessa e ama i gatti. È noto nella sua cerchia per dei componimenti leggeri e folgoranti che colgono le pieghe ironiche dei fatti: un cantastorie della schiuma dei giorni. La guerra è anche questo: pensare ad altro.

 

Весна в Одессе – больше, чем весна:

поэтам, барышням и кошкам –

здесь рифма – вовсем не до сна.

 

La primavera a Odessa è più che una primavera:

i poeti, le ragazze e i gatti –

e qui la rima è baciata – hanno in testa ben altro che dormire.

 

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