Alte Pinakothek, Monaco di Baviera / Firenze e i suoi pittori
Saltuariamente siamo noi che influenziamo le nostre letture, volendoci trovare ciò che possiamo trovarci. Per uno storico dell'arte pare quasi necessario specchiarsi negli Antichi Maestri di Thomas Bernhard. E per me, metatestualmente ma non in maniera così divagante, nei miei pittori fiorentini.
“Florenz und seine Maler” (Firenze e i suoi pittori) si è inaugurata il 17 ottobre 2018 presso la Alte Pinakothek di Monaco di Baviera e, come già si preannuncia nel titolo, è una mostra blockbuster, costruita sulla collezione e su importanti prestiti da Londra, Firenze, Vienna e New York, e messa in scena secondo un'evidente motivazione didattica, come a voler ristabilire sì il primato della scientificità della mostra, ma anche l'attenzione sull'esperienza dell'opera. Perché è vero che il ritmo è cronologico e tematico, ma alcuni accostamenti e rimandi permettono al visitatore una riconsiderazione di ciò che è stato il Rinascimento fiorentino del secolo XV.
Troviamo un primo accostamento vertiginoso tra la Vergine col Bambino (1445/50) di Beato Angelico, dalla Galleria Sabauda di Torino, e la Vergine col Bambino e due angeli (1435/40) di Filippo Lippi, dal Metropolitan di New York: due modalità diversissime di concepire l'immagine. In Angelico coesistono due mondi – quelli, volgarmente detti, del Gotico e del Rinascimentale; piuttosto mi viene in mente la meta-pittura dell'Apparizione della Vergine e del Bambino a San Filippo Neri (1675) di Carlo Maratta, presso la Palatina di Firenze, laddove i due mondi di rappresentazione rispondono a due concezioni pittoriche che differiscono. Le considerazioni tassonomiche non soddisfano in pieno lo sguardo di oggi: i due mondi che si incontrano non sono né “culturali in sé” né “estetici in sé”, quanto confluiscono nella possibilità di fondazione di una concezione di immagine (Bildbegriff), che reca in sé un certo grado di autosufficienza, che renda infine l'opera un fatto: non è che che il Beato non si decida per una visione precisa – che significa precisa? se vogliamo ideologica – dell'arte, quanto egli utilizzi gli strumenti a sua disposizione, per dare corpo a un'immagine in definire. Se da una parte c'è l'opera d'arte, dall'altra si dà, come supplemento, il fatto d'opera, un'opera autotelica che, allo stesso tempo, definisce un'epoca storica.
Sul proscenio la Madonna siede col Bambino non proprio in grembo; il gruppo è incorniciato da un mirabilissimo sipario aperto, a foglia d'oro punzonata a ricami virtuosi; anche le aureole rispondono alla tecnica “greca”, pur giocando con il senso prospettico (la lettera A è parzialmente eclissata dalla presenza lievemente plastica del volto di Maria). Nel mentre, la scena alle spalle, un'esedra profonda, testimonia un senso delicato dello spazio, laddove la luce dalla finestra sulla sinistra costruisce plasticamente, alla Vermeer, il suo passaggio lungo le colonne, le pareti, il pavimento.
Dialetticamente in antitesi è l'analogo soggetto affrontato da Filippo Lippi, pittore che si innesta sulla tradizione fortemente plastica della pittura, inaugurata da Masaccio – e l'assenza di quest'ultimo si fa sentire, egli è il meno, nell'economia della mostra. Una certa noia del quotidiano traspira dalla Madonna: le figure, che si presentano come sculture, locate nel teatro, in scena qui e ora, sono figure intente a un qualche pensiero, non necessariamente meditativo o contemplativo, ma malinconico o distratto. Altri tre soggetti analoghi (da Parma, Firenze, e dalla collezione) e l'Annunciazione (ca. 1443/45), sempre in collezione, testimoniano la varietà della costruzione lippiana nel corso degli anni e la sua inesausta ricerca di differenti procedimenti scenografici e psicologici.
In mostra ci sono otto delle nove tavole della predella della Pala di San Marco, ancora di Angelico: in particolare l'ultima di destra, Il sogno di Giustiniano (ca. 1438/40), dal museo omonimo a Firenze, riecheggia il gusto astraente del pittore, nella trattazione del supplemento spaziale sulla destra, laddove una porta aperta rilascia, libero, il gioco di luce che introduce a un luogo non definibile, se non attraverso l'autosufficienza della pratica pittorica: un non-luogo.
Angelico stupisce ancora con un disegno di Crocifissione (c. 1425/30), dall'Albertina di Vienna, nell'economia dell'impianto allestitivo una risposta visuale allo stesso soggetto, trattato da Giotto nella sala post-introduttiva (ca. 1303/06-1312/13, Alte Pinakothek): laddove il naturalismo del secondo si muove all'interno di un codice, nel primo esso si trasforma in un tripudio splatter di sangue, sangue ovunque. Se il visitatore volesse investire il proprio tempo nella collezione al piano superiore, potrebbe completare un vertiginoso confronto con la Crocifissione di Rubens, laddove il Cristo è appeso come un ammasso suino di carne e sangue.
Si può notare nel percorso di mostra, come le direzioni date dall'Angelico e da Filippo siano quelle che domineranno la seconda metà del Quattrocento, attraverso opere che rimandano meta-pittorialmente alla loro inquieta e zigzagante ricerca nel riconsiderare il processo pittorico: si vedano, per esempio nella sala centrale, le ambiziose sceneries teatrali de L'adorazione dei Magi di Botticelli (ca. 1475, Uffizi) e della Pala Tornabuoni del Ghirlandaio (e bottega, ca. 1490/94, Alte Pinakothek). Il primo medierà la luce di Angelico – arrivando ad astrusità metafisiche, come nel Ritratto di donna (1470/75) dal Victoria and Albert di Londra, il cui impianto pur ricorda il Lippi di cui sopra – il secondo la plasticità, financo dellarobbiana, di Lippi, il cui conflitto di mondi di rappresentazione pur ricorda l'Angelico di cui sopra. Questo per fare della sintesi: in verità Botticelli e Ghirlandaio sono anche loro delle direzioni. Botticelli per una pittura “mentale” e ideologica, e per una “romanticizzazione” del ruolo d'artista. E, in particolare, il disegno del Ghirlandaio, per una pala d'altare in SS. Giusto e Clemente a Volterra (ca. 1492, Albertina), pare anticipare, se mai in arte si potesse anticipare qualcosa, gli impianti dell'Annibale Carracci romano.
Nonostante la mostra sia incentrata sulla pittura, la scultura coeva deve entrare in gioco al di là: si hanno così due piccoli bronzi di Donatello – un Putto danzante a tutto tondo (1429, Bargello) e un Compianto sul Cristo morto (1455/60, Victoria and Albert) ad altorilievo, allestito significativamente vicino allo stesso soggetto del tardo Botticelli (ca. 1490/95, Alte Pinakothek) –, ma soprattutto un incredibile Ritratto di fanciullo (c. 1455/60, Bargello) di Desiderio da Settignano, un busto enigmatico e, potremmo osare definire oggi, post-identitario, laddove non è l'androginìa, ma proprio l'indeterminatezza del sesso, a rendere così presente questa scultura e così fuorviante l'antico adagio della scultura rinascimentale quale recupero dell'antico: questi scultori non fanno del postmodernismo ante-litteram, ma rimpastano le nuove suggestioni con caratteri propri e autotelici.
Il pregio di questa mostra, soprattutto per i non-connoiseurs, è quello di mettere in scena supplementi e differenze di un secolo e di un luogo, dove – dice la vulgata: è nato il Rinascimento; di ricordarci che forse quest'etichetta sta un po' stretta, che non v'è unitarietà, ideologica o culturale in senso lato, e che ciò che rimane non sono i racconti, come questo, bensì i fatti d'opera che ci parlano ancora oggi. Quindi, se mai fosse ancora necessario testimoniare, che è la manifestazione artistica a sopravvivere, a divenire parabola, a uscire fuori dal tempo e “fuor di squadra”.