La passione di Dario Argento per la paura

21 Novembre 2014

C’è un uomo intrappolato tra due vetrate come in una gabbia di cristallo. Una dà sulla strada, l’altra su una sala bianca infestata da immani sculture deformi, scure. Nella sala c’è una donna vestita di bianco. Un uomo in nero, il viso coperto, l’accoltella allo stomaco. Poi, scappa. Aiutami!, grida la donna all’uomo nella gabbia; ma quelle grida ci arrivano mute. Perché, insieme al testimone, anche noi siamo chiusi nella gabbia; sordi in un silenzio claustrofobico. Il testimone prende a pugni le vetrate, urla alla donna Aprimi!, e lei vorrebbe farsi salvare ma le forze l’abbandonano, cade a terra.

 

Mentre il sangue rosso s’impossessa del suo vestito bianco, la donna striscia sul pavimento su cui si apre una grossa traccia scarlatta, e infine, gli occhi imploranti fissi negli occhi del testimone, muore. “Spesso”, dice Dario Argento in Paura, la sua biografia appena uscita per Einaudi, a cura di Marco Peano, “prima di scrivere una sceneggiatura, mi dico che quella vicenda in realtà è stata già raccontata, esiste da qualche parte, e io devo semplicemente ricordarla”. Dario Argento ha trent’anni quando il suo primo film, L’uccello dalle piume di cristallo, esce. Tutto ha inizio da un sogno. C’è lui nella gabbia di vetro, è lui che vuole salvare la donna; ma “più davo pugni sul vetro per avvisarla, più gridavo e mi dibattevo disperato, più mi rendevo conto che nessuno mi sentiva…”.

 

 

 

 

Dalle prime esperienze come giornalista/critico cinematografico per “Paese Sera” alla scoperta: sono un regista!, dalle difficoltà per girare il primo film al successo mondiale, da L’uccello dalle piume di cristallo a Profondo rosso al progetto di The Sandman, dall’eterna domanda “Perché uccide sempre le donne?” alla naturale risposta: “Perché amo lavorare con loro”, dal rapporto col cinema di Hitchcock agli incontri con grandi come Morricone, Bava, Leone, Polanski, Argento in Paura racconta.

 

Con sincerità entusiasmante, severità verso i propri risultati, riconoscenza: prima di tutto verso il padre Salvatore, figura centrale della sua vita, che fonderà la casa di produzione SEDA perché il primo film di suo figlio, da tutti rifiutato, veda la luce. “Col tempo ho imparato che ogni volta che fai qualcosa di nuovo, un salto in avanti rispetto al tuo percorso, all’inizio questa decisione non piace. La gente vuole rassicurazioni, e io mi guardo bene dal fornirgliele”. E Argento questo fa: inventa una nuova grammatica del cinema, lottando contro la censura ma pure contro chi, dopo il successo di un suo film, ne vuole sempre un altro uguale, un altro uguale. “Volevo un film”, dice Dario, “come nessuno aveva fatto”.

 

Dario Argento, Paura

 

Non solo un’autobiografia, non solo un pezzo di storia del Cinema e della Storia in cui il suo cinema nasce e vive – il post ’68 e gli anni di Piombo, per esempio – in Paura Dario Argento fa un racconto più ampio di una sola vita e di una professione: il libro è anche un viaggio nell’officina dell’artista e, di più, una riflessione sull’arte. È questa la vera anima di Paura, libro prezioso non solo per chi Argento già lo ama ma pure per chi ancora non lo conosce, e per chi con passione s’interroga sul fatto artistico. “Thriller, horror, fantastico, terrore, giallo, noir… sono soltanto parole che usiamo per definire i nostri sogni”. Il sogno e la solitudine sono materia della vita come dei film: da sempre Argento si dibatte tra isolamento e condivisione, tra l’amore per le figlie e quello per l’adorato, battagliato cinema. Come ogni passione, il cinema è la più estatica delle esperienze come la più crudele; ti scaglia tra le stelle come ti tira giù, magnetica, cupissima, dentro lo sconforto; e poi daccapo. E Argento lo racconta.

 

Una passione forte non è solo un dono: è anche un’arma contro se stessi e quelli che più amiamo. Anche questo Argento racconta: la crudeltà dei sogni. Poiché l’Autore questo è: un estraneo rinchiuso in una gabbia che disperatamente tenta di comunicare con l’esterno, di mutare in parole – in immagini – il sogno che ha chiuso nella testa. Solo con una ferrea volontà che sconfina nel folle, a volte nello spietato, ci si può guadagnare splendidi, rarissimi momenti, in cui si riesce a coniugare sogno con immagini, intenzione con risultato. Cioè: a comunicare con il pubblico. “So cosa vuol dire essere diverso dagli altri perché l’ho vissuto. E allo spettatore volevo far provare la stessa cosa”; poiché l’Autore di ogni forma d’arte questo è: un mezzo attraverso cui far passare una storia, nella speranza che questa storia sarà tua, ti parlerà di te.

 

Questo pezzo è apparso su pagina99

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