Artpod / Osvaldo Licini, “Amalassunta 1”, 1949
Una luna bianca, quasi impastata di gesso – simile a quella chiara materia incerta che si vedrà, vent’anni dopo, nelle immagini del primo allunaggio – ma che qui ancora conserva tutta l’allusività stregata del mistero inviolato. Il volto un po’ attonito di un’antica dama sdegnosa, con i due corni che si allungano in forma di mani alate, una che lambisce l’estremo della tela, in alto, l’altra protesa verso il piccolo cuore offerto da una mano graziosa, giù in basso, nell’estremo angolo sinistro del quadro. Ancora a sinistra, in alto, quasi a compensare la solitudine della luna, nel manto blu della notte macchiato di oscurità, una sghemba stella a cinque punte, dello stesso colore di gesso, senza alcuna pretesa di sfolgorante scintillio. Questa la Amalassunta 1, esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1950, assieme ad altre otto Amalassunte, quasi a inaugurare, dopo il lungo silenzio degli anni di guerra, un nuovo inizio nella pittura di Osvaldo Licini. I “Personaggi”, le “Amalassunte”, gli “Angeli ribelli”, gli “Olandesi volanti”, popolano ormai le sue visioni e le sue tele. Ritiratosi nella casa di famiglia di Monte Vidon Corrado, immersa nel quieto paesaggio marchigiano, la casa in cui era nato e dove era cresciuto affidato alle cure del nonno, si lascia lavorare da pensieri forti, nuovi, ribollenti. La sera, la notte sostava a lungo sull’altana della casa, a interrogare le profondità della terra e le vastità dei cieli, i profili delle colline e il giallo e il verde dei campi, in ascolto del cuore umano e del cuore del mondo. Ed ecco, sua compagna la luna, e gli angeli, e le figure in volo.
Ma perché quel nome, “Amalassunta”? Innumerevoli spiegazioni sono state fornite. C’è, dentro quel nome, la figlia del re ostrogoto Teodorico, per poco tempo anch’essa regina, come tutrice del figlio Alarico, presto assassinata nell’isola di Martana, sul lago di Bolsena. Una regina che lo aveva incantato fin da bambino. E poi, certamente, in quel nome vi è anche l’eco del dogma dell’Assunzione proclamato nel 1950: il “male” assieme all’ “Assunta” è un chiasmo che non poteva non intrigare Licini, accanito nel cercare il lato nascosto delle cose. Ma, alla fine, al di là di troppa filologia, è Licini stesso che svela l’intima essenza delle sue lune: “Amalassunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”.
Poche le parole per dirla: l’argento che buca la soglia dell’eterno, chinandosi sul cuore di chi è “un poco stanco”. Anche Leopardi – su cui Licini aveva in mente un grande lavoro – nella sua Recanati, non molto lontana da Monte Vidon Corrado, osservava la luna dietro le stesse colline, a dar luce agli stessi paesaggi. Talvolta confidente e amica, talaltra distante e muta, o ancora beffarda giudice della terra. Ma in una giovanile Storia dell’astronomia la definisce “capace di recar soccorso all’uomo che veglia, e incapace di recar molestia all’uom che riposa”. Per entrambi, un ponte di consolazione tra il terrestre e l’ignoto.
Ma c’è qualcos’altro che sembra unire il poeta di Recanati e il pittore di Monte Vidon Corrado. Nelle tele e nei disegni del primo periodo, fino più o meno a tutti gli anni Venti, con fedeltà pari a quella del suo amico Morandi verso le sue nature morte, Licini dipinge i paesaggi della sua terra: colline, villaggi, scorci di paese marchigiani. Un albero, un borgo, una casa. Come la siepe leopardiana, profili che separano il contingente e l’immenso.
In una seconda fase della sua ricerca, più o meno gli anni Trenta, Licini entra in dialettica con i movimenti surrealisti presenti in tutta Europa. Affascinato e attratto da varie forme di astrattismo, comincia “a dubitare”, come lui stesso scrive ad un amico, che un’altra realtà si nasconda dietro quella visibile delle cose. Inizia così quello che lui stesso chiama un “surrealismo personale”, una svolta astratto-geometrica per cominciare a individuare il nesso tra il caos del soggetto e l’ordine dell’universo: geometrie rigorose, colori definiti, linee che rimandano a un tentativo di definire l’origine e la fine.
Poi, il silenzio negli anni della seconda guerra mondiale. Appassionato del mondo reale non meno che della raffigurazione pittorica (sarà per due mandati sindaco del suo paese) è scosso dalle vicende che percorrono l’Europa. Lui stesso aveva conosciuta l’insensata carneficina della prima guerra mondiale, da cui era tornato ferito. In quel periodo decide “di non mostrare, di non esporre e di non vendere, per tutta la durata della guerra”. Ma il suo non è un silenzio inerte, arreso.
“Ti scrivo dalle viscere della terra, la regione delle madri, forse, dove sono disceso per conservare incolumi alcuni valori immateriali, non convertibili, certo, che appartengono al dominio dello spirito umano. In questa profondità ancora verde, la landa dell’originario, forse, io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo. Cessato il pericolo …. riapparirò alla superficie con la diafanità sovraessenziale, e senza ombra. Solo allora potrò mostrarti le mie prede, i segni rari che non hanno nome, alfabeti e scritture enigmatiche, rappresentazioni totemiche, che solo tu con la tua scienza potrai decifrare”. Così scrive, il 1° febbraio 1941, a Franco Ciliberti, fondatore del movimento “primordialista”, che sarà nuova fonte di ispirazione per Licini.
“Vivere, allora, andare al di là di noi stessi, trascendersi. Ecco perché ancora viviamo con questa speranza” – scrive nel 1943. “Sicuro, niente è finito, tutto deve ricominciare”. Dopo la dissoluzione, il rinnovamento. Per avvicinarsi alla verità, occorre trasfigurare il mondo.
Ecco allora le figure fantastiche, in volo nell’aria, sospese nel cielo. Ecco le Amalassunte. Questo astro spento e vivo al tempo stesso, che appare a sotto mille volti, mutevoli come mutevole è l’universo.
Dopo lo sbarco sulla luna del 20 luglio 1969 ebbe inizio un grande dibattere tra scrittori, artisti, filosofi, se quella visione così ravvicinata del freddo astro lunare con avesse raggelato anche la fascinazione umana per il cosmo, non ne avesse mostrato il lato oscuro degli interessi politici e dello sfruttamento economico, indebolendone l’attrattiva per i poeti e i visionari. Ma a me sembra – e l’attenzione per la ricerca scientifica cresciuta a dismisura in questi anni lo testimonia – che i piccoli e grandi passi compiuti dalla conoscenza, non facciano altro che incrementare il desiderio di inoltrarsi nei misteri delle galassie sconfinate. L’Amalassunta di Osvaldo Licini, come le tante lune raccontate, dipinte, cantate, non ha perso l’incanto con cui la guardava il suo creatore. Al contrario, ci attira a sé nel desiderio “di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo”.
Legge Ermanna Montanari del Teatro delle Albe.