Un'opera senza tempo / La linea infinita di Wacław Szpakowski
Disegni nel turbine della storia
Wacław Karol Szpakowski? Pochissimi sanno di chi si tratta, e pochissimi conoscono la storia di questo artista, architetto e ingegnere polacco. Nato nel 1883 in Polonia, nel 1897, a 14 anni, lascia la Polonia e si trasferisce con la famiglia a Riga. Qui trascorre l’adolescenza, studia architettura, suona il violino nell’orchestra giovanile e s’interessa ai fenomeni atmosferici. Tiene un quaderno di appunti su tempeste, uragani e cicloni, e raccoglie fotografie di architetture dalle forme lineari. Custodirà gelosamente questi quaderni malgrado gli eventi bellici e diversi traslochi forzati.
Così si spiegano i lunghi intervalli d’inattività: in molte circostanze, la preoccupazione maggiore era la mera sopravvivenza (l’artista perderà un figlio, l’unico maschio, durante la guerra). Szpakowski, non dimentichiamolo, fa parte di quella generazione che ha vissuto le due guerre mondiali. Ora, nel corso delle sue lunghe traversate tra Lituania, Russia, Lettonia e Bielorussia, non perde occasione per prendere appunti e disegnare, incuriosito dai fili del telegrafo o dall’invisibilità della corrente elettrica. Gli bastava poco, un foglio di carta e una matita, per realizzare quelli che chiamerà i suoi “esperimenti con la linea dritta”. Sentendo di non poter incidere sul corso degli eventi storici, Szpakowski trovò nel disegno una superficie disponibile che non sfuggiva al suo pieno controllo.
Per un artista sconosciuto, è curioso che la prima opera che ci resta sia un autoritratto multiplo, realizzato con due specchi a 90 gradi (1912). A partire dal 1900 riempie tre quaderni di pattern di linee ornamentali (1900, 1903-1907, 1908). Da questi, nel 1923-33, trarrà circa 70 disegni a inchiostro su carta, più sistematici e rifiniti, divisi per serie di lettere consecutive, da A a F, secondo la composizione visiva.
Dopo un soggiorno in Russia si stabilisce a Varsavia con la moglie, da cui avrà quattro figli, imbarcandosi sull’ultima nave salpata dal porto di Arkhangelsk (Arcangelo) prima che la città sia conquistata dall’Armata rossa. In tempo di guerra, lavora al Ministero della Posta e del Telegrafo e realizza una seconda serie di disegni, questa volta a spirale (serie S). Nel maggio 1945, come in uno scioglilingua, Wacław è a Wrocław, dove resterà fino alla fine dei suoi giorni, lavorando come designer al Centro di ricerca e progettazione per il trasporto stradale e aereo. Suoi i pattern lineari per soffitti o murali di cinema, asili e centri sociali. Nel 1953-54 realizza un album di 96 disegni (di 31 x 25 cm.) con linee ritmiche e griglie più architettoniche. Se nel 1969 il suo nome era noto a una ristretta cerchia di specialisti, Szpakowski morì nel 1973 nel più completo anonimato.
Da New York…
Inverno 2013, MoMA, New York. M’inerpico all’ultimo piano dove è esposta Inventing Abstraction, 1910-1925 (a cura di Leah Dickerman). La mostra si apre nel modo più prevedibile possibile per questa istituzione: un diagramma a parete in cui gli artisti sono presi in una nitida rete di rapporti reciproci. Un omaggio al primo direttore del MoMA, Alfred Barr, e alla sua idea di elaborare, dell’astrazione come del cubismo e, in finale, della storia dell’arte occidentale, una rappresentazione spaziale. Con tale visualizzazione grafica, attraversata da frecce che mettono in relazione e in tensione artisti lontani nella storia e nella geografia, il diagramma ribadisce il legame indissolubile dell’astrazione con il modernismo, perlomeno per come si è costituito, e per come si studia tutt’oggi, negli Stati Uniti.
Esplicito, al riguardo, il sottotitolo della mostra: How a Radical Idea Changed Modern Art.
Ritrovo gli appunti presi nel corso della visita. Incapace di elaborare un rigo davanti al muro mozzafiato di Malevich e di Mondrian, quattro aspetti generali hanno ritenuto la mia attenzione: 1) le due tendenze principali della prima astrazione pittorica: quella grafica e quella cromatica; 2) l’articolazione tra cubismo e arte astratta su cui il MoMA riflette almeno dalla mostra di Barr (Cubism and Abstract Art, 1936), senza cadere nel mito delle origini che ha intossicato la storia dell’astrazione; 3) i rapporti a volte sotterranei tra artisti americani ed europei: Morton Schamberg che vede Léger e Picabia all’Armory Show; Marsden Hartley lettore de Lo Spirituale nell’arte di Kandinsky; Patrick Henry Bruce e Delaunay; Joseph Stella e i futuristi; il sincromismo di Morgan Russell e gli Ideogrammi di Apollinaire e così via; 4) L’estensione del canone dell’astrazione, segnato da pochi ma ingombranti protagonisti, a figure marginali o sconosciute. Se quest’ultimo punto era il meno sviluppato (vedi il muro di Mondrian e Malevich), le sorprese non mancavano.
Mi riferisco a due disegni datati 1924 che, ci avrei giurato sopra non so cosa, erano per me mano di Frank Stella e si rivelarono invece essere di un tale Wacław Karol Szpakowski. Annotato il nome in stampatello per evitare di trascriverlo male, la cosa finì lì e dimenticai presto questo nome ostico da ritenere.
…a Łódź
Giugno 2015, Łódź, Polonia. Sgattaiolo via da una conferenza sugli archivi del futuro per visitare il Museo Sztuki. È uno dei primi musei d’arte moderna in Europa, attivo sin dal 1931, con una collezione pubblica d’arte internazionale d’avanguardia originalmente gestita dagli artisti, che organizzavano esposizioni, pubblicazioni e programmi educativi per un pubblico di massa, numeroso in questa città industriale e allora socialista. Annoto il nome dell’artista di tre disegni astratti. Confesso, non senza vergogna occupandomi spesso di astrazione, che non ebbi l’impressione di aver già visto queste opere da qualche parte. Erano infatti di Wacław Szpakowski. La sorpresa dell’incontro si rinnovò con la stessa intensità; e quando, con altrettanto stupore, realizzai la coincidenza, venni preso dal furore documentario.
Il catalogo della mostra del MoMA, forte dei suoi 37 brevi saggi, conteneva un solo paragrafo su Szpakowski (in Jaroslaw Suchan, “Early Abstraction in Poland”). Per maggiori informazioni rimandava al catalogo di una mostra tenuta nel 1992-94 all’Atelier 340 (Bruxelles), al Wilhelm-Hack Museum (Ludwigshafen) e al Muzeum Narodowe (Varsavia), pubblicato in cinque lingue, L’infinitude de la ligne. Introvabile nelle biblioteche italiane, ne esistono quattro copie in Francia, di cui una, fortunatamente, alla biblioteca dell’INHA, a dieci minuti a piedi da casa. Mi fiondo.
Ginnastica oculare
Osservo da vicino quanti più disegni di Szpakowski trovo riprodotti. Come descriverli in breve? Un tratto sottile di 1 mm, distanziato dal successivo da uno spazio bianco di 4mm., preciso e senza sbavature, con poche cancellature visibili. Il disegno è costituito da una sola linea geometrica continua, una traiettoria a zig-zag che evolve sulla superficie da sinistra a destra. Senza mai rivenire su se stessa, la linea si piega e si ripiega a novanta gradi: è una linea che non si chiude, che non delinea alcunché, che non si fa contorno, forma o spazio ma segna solo il progresso del tempo. Non figura ma puro rythmos.
Il risultato è un pattern simmetrico, frammento di un insieme più grande, di un divenire ininterrotto e ripetitivo. Un meandro ma anche un battito, un ritmo nel senso visivo quanto musicale del termine. Del resto l’artista, provetto violinista, tentò di mettere in musica alcuni suoi disegni, di renderne udibile il suono.
Per semplificare, nei suoi disegni Szpakowski seguiva tre fasi successive: coglieva anzitutto l’ordine matematico soggiacente ai fenomeni naturali e all’universo; in seguito isolava i principi di simmetria e ripetizione che li governano, quel codice invisibile alla base di ogni sua manifestazione; infine si sforzava di renderli visibili con i mezzi grafici più semplici possibili.
Szpakowski, autore di linee disegnate? Senza dubbio, ma anche, per suo volere, di “disegni di idee lineari”, con un “contenuto interno” ben preciso, accessibile a chi non si limitava a uno sguardo distratto. Chi non vede nient’altro che pattern dimentica l’atto performativo richiesto da questi disegni. Lo sguardo infatti è tenuto a ripercorre il tracciato della linea sul foglio, da sinistra a destra, seguendo i suoi tortuosi ziz-zag, come se si trattasse di una scrittura o di una partitura musicale. Solo dopo aver eseguito questa faticosa ginnastica oculare, Szpakowski si congratulò con sua figlia, affermando qualcosa come: hai colto il senso del disegno, sebbene siano stati necessari 935 movimenti! Questi disegni andavano visti “allo stesso modo in cui si compongono le parole di un testo a partire dalle singole lettere”. Così perlomeno scrisse in “Linie Rytmiczne” ovvero, per una volta la traduzione è agevole, “Linee ritmiche”, un articolo datato 19 giugno 1968 e apparso l’anno successivo sulla rivista Odra. Solo a 85 anni Szpakowski sentì dunque la necessità di rendere pubblico il suo pensiero, indirizzandolo a un lettore futuro.
La rete delle influenze
Allargo il giro delle mie ricerche, come il documentato catalogo della mostra Costruttivismo in Polonia (a cura di Silvia Parlagreco, Il Filatoio, Caraglio, Bollati Boringhieri 2005), in particolare il saggio di Janusz Zagrodzki (“Razionalismo e spiritualità dell’avanguardia polacca”). L’attività di Szpakowski, mi è presto chiaro, s’inscrive sullo sfondo più ampio dei rapporti della Polonia con le avanguardie russe, col cubismo (1907-14), con l’espressionismo dei Formisti, col futurismo e il gruppo di Giovani Yiddish, e soprattutto col Costruttivismo polacco (1923-1936). Dall’effervescenza degli anni venti all’istituzionalizzazione degli anni trenta, questo movimento coinvolse pittura e scultura, affiche e tipografia, architettura e progetti industriali, fotomontaggio e scenografia teatrale. Mai movimento artistico s’immischiò di più con la cultura di massa, con risultati estetici eterogenei quanto ancora poco conosciuti: l’Unismo di Władysław Strzemiński, arrivato in Polonia dalla Russia nel 1922, la cui sala neoplastica è ricostruita al museo di Łódź; le Composizioni spaziali Katarzyna Kobro; i gruppi Blok (1924-1926), Praesens (1926-1939) e a.r. (1929-1936); la rivista Zwrotnica. Senza dimenticare il soggiorno a Varsavia di El Lissitzky (1921) e Malevich (1927), o gli scambi intensi con Berlino nei primi trent’anni del XX secolo.
Szpakowski è imparentato al Costruttivismo per l’attenzione alla composizione e alla costruzione come disposizione ordinata di forme geometriche semplificate su una superficie piana. Da Jaroslaw Suchan apprendo che l’interesse per i ritmi di un ordine universale avvicina Szpakowski a Kobro; la precisione meccanica e l’economia formale dei suoi disegni a Berlewi; l’equilibrio degli elementi delle sue composizioni a Strzeminski.
Allargo il cerchio dei riferimenti e m’imbatto nel matematico greco Eudosso di Cnido, stimato da Szpakowski per i suoi studi di meccanica, astronomia e geometria; in The Sense of Beauty di George Santayana, sconosciuto all’epoca in Polonia ma citato negli appunti del nostro. Accenno relazioni e genealogie con Joseph Albers e Frank Stella.
La cucina analogica dello storico dell’arte è in ebollizione. Dopo un paio di giorni ho riempito un foglio A3 col nome di Szpakowski al centro e una fitta rete di richiami degna, in uno sprazzo di autostima, di un diagramma di Alfred Barr. Eppure non posso ignorare un elemento decisivo quanto disarmante che rischia di mandare il castello di carte in aria: che Szpakowski realizzò le sue opere nel più completo isolamento dal mondo artistico, nella più totale indifferenza verso la produzione contemporanea dell’epoca, polacca o internazionale che fosse. Intrinsecamente moderniste, le sue opere sono tali per difetto, risultato di un modernismo elettivo, privato e, in finale, segreto. Il suo idioma astratto è così intrinsecamente modernista che per ben due volte l’ho confuso per un Frank Stella della fine degli anni cinquanta. E che Stella allora non lo conoscesse ne fa un soggetto intrigante per un diagramma alla Barr.
Come la linea infinita
Come disse Getulio Alviani dopo aver visitato la mostra del 1992: “L’opera di Szpakowski è assolutamente senza tempo: sospesa e asettica, potrebbe essere opera degli egiziani, dei Greci o dei Maya. Possiede lo spirito e l’essenzialità di un’antica scrittura, i cui testi restano nascosti dietro le sue linee asciutte e discontinue” (lo riporta Janusz Zagrodzki). Le sue opere furono esposte per la prima volta proprio a Łódź, dove le rividi, e a Wrocław solo nel 1978 (anno in cui, per inciso, un altro polacco, Karol Wojtyła, diventava papa). È tuttavia assente da L’avanguardia polacca 1910-1978 (Palazzo delle esposizioni, Roma 1979), che pure esponeva una selezione di opere del museo di Łódź, tra cui Tadeusz Kantor, Roman Opalka e Krzysztof Wodiczko. Sporadiche le successive occasioni: Présences Polonaises(Centre Pompidou, Parigi 1983), Inventing Abstraction, fino a una mostra dell’estate 2016 a Wrocław il cui catalogo è già introvabile (a cura di Elzbieta Lubowicz e con un saggio di Masha Chlenova, “Waclaw Szpakowski: Motivating the Line”).
Szpakowski è senza dubbio uno dei grandi assenti del centesimo anniversario del movimento d’avanguardia polacco che cade proprio quest’anno. L’eccezione è la sua prima mostra negli Stati Uniti, Grounding Vision (a cura di Masha Chlenova e Anya Komar, Miguel Abreu Gallery di New York, gennaio-febbraio 2017, con la partecipazione di Guy de Cointet, Hanne Darboven, Trisha Donnelly, Sam Lewitt, Hilary Lloyd, Florian Pumhösl, R.H. Quaytman). Qui emergevano gli elementi modernisti della sua opera che anticipano l’estetica del minimalismo, dell’Op Art e dell’astrazione geometrica, se non persino degli algoritmi e dei diagrammi digitali.
Senza precettori né allievi, più che in penombra la figura e l’opera di Szpakowski restano avvolte in una fitta oscurità. Il suo caso eccezionale ci ricorda che la storia dell’astrazione resta ancora da scrivere, basta uscire dai sentieri battuti. Quello di Szpakowski è ancora esile come la linea infinita dei suoi disegni.