Bierre

15 Marzo 2013

Sono seduto sull’autobus, e guardo la città dal finestrino: le strade, i negozi, i bar, il solito traffico di auto. È quasi ora di pranzo, la gente si accalca per tornare a casa, donne e studenti soprattutto. Io sono un ricercato, terrorista in clandestinità, uno di quelli che per rapire il presidente della Democrazia Cristiana ha sparato e ucciso cinque persone della scorta. Vado in via Montalcini, strada di una periferia residenziale. Lì, al piano rialzato di una palazzina di tre piani, teniamo prigioniero in un bugigattolo Aldo Moro. Tutti parlano di noi, le Brigate Rosse. Anche sull’autobus. Come mi sento? E che cos’è la gente per me, le persone comuni che ho a fianco? Non è facile essere uno di loro, vestirsi con anonima cura, né troppo dimesso né elegante. Specchio la mia riuscita nell’indifferenza degli altri. Ma mi accorgo dei confini tra quello che recito e quello che sono divenuto?

 

Sto facendo il percorso di un brigatista trent’anni fa, e penso queste cose seduto sul 44. Tra i vari saliscendi - Monteverde, Colli Portuensi - guardo la folla di palazzi ocra che si incastrano a cuneo come le automobili parcheggiate, il regno romano del terziario. Non molto diversi da quelli al capolinea, tranne che questi sono più bassi e con un’apertura panoramica sul quartiere della Magliana, la ferrovia per Fiumicino, le torri dell’Eur. Sono gli ex brigatisti a dire che si muovevano soprattutto in autobus. Non avevano granché da fare, oltre a entrare e uscire dallo stanzino di Moro, scrivere comunicati sul tavolo della cucina, recapitarli qui e là come corrieri privati, andare a dormire nelle rispettive abitazioni-rifugi. E soprattutto fingere di essere normali. Ma come sono le persone normali? Fossi davvero un brigatista del 1978, non sarei sceso direttamente in via Montalcini, oggi capolinea del 44 che ho preso in via Dandolo, e che trent’anni fa non esisteva. Sarei sceso 500 metri più giù, vicino alla chiesa moderna di Santa Silvia, in piazza Lorenzelli. A via Montalcini sarei arrivato a piedi: Camillo Montalcini, funzionario (1862-1948), dice la targa. Vi si potrebbe aggiungere la data di morte, avvenuta nel box di un garage, di un altro funzionario dello Stato: Aldo Moro, maggio 1978. Poche le palazzine all’epoca, appartamenti spaziosi, da media borghesia.

 

 

Seduto su una panchina nel giardino di fronte, ex villa dell’ingegner Bonelli, ora sede del XV° municipio e giardino pubblico ricco di alberi, guardo l’anonima casa di quel garage, il n. 8: mattoncini rossi a vista, balconi col muretto bianco, grandi finestre. E soprattutto l’appartamento al piano rialzato, abitato nel 1978 da un altro ingegnere che stava sempre in casa, l’ing. Altobelli, alias Germano Maccari.   Difficile immaginare che in quella palazzina, per cinquantacinque giorni, Moro è stato prigioniero, prima di essere ucciso in garage per ragioni di speculare fermezza tra apparati ideologici: i comunicati delle Brigate Rosse e le dichiarazioni dei partiti di governo esibirono una comune autonomia della politica dalla vita umana.

 

Intanto i carcerieri di Moro condussero una vita così anonima che sembrava una commedia di Pirandello. Recitavano bene? Per niente, mi dice una signora che abita ancora lì, già insegnante di scuola, la stessa che li incontrò in garage il mattino dell’uccisione di Moro, ed è turbata ancora oggi da questa involontaria esperienza. L’ingegner Altobelli, che lavorava in casa come fosse uno scrittore, e la sua fidanzata che stava fuori tutto il giorno, erano cosi strambi, dice, che i vicini li sospettavano di traffici vari, senza tuttavia mai pensare che custodissero la chiave del più incredibile psicodramma politico dell’Italia repubblicana. Non uscivano mai, non ricevevano neanche una visita.

L’incongruità della loro convivenza con Moro era anche mentale e linguistica. Ha scritto la residente ufficiale delle Br, Anna Laura Braghetti: “avevamo raggiunto il cuore dello stato, e non ci capivamo niente”.

 

 

Dopo essere stato abitato da un’anziana signora, l’appartamento è stato di nuovo rinfrescato. Le grate bianche decorate poste su tutte le finestre e le porte-finestre che girano intorno all’edificio, fino al giardino condominiale sul retro su cui affaccia la cucina, furono messe da Mario Moretti. Dalle memorie della Braghetti conosciamo anche l’arredamento, acquistato in un mobilificio del raccordo anulare: divani a fiori gialli e arancioni, un tavolo con le seggiole, tavolini di vimini, ecc. C’è un giardino pensile male utilizzato, “l’unico nella tetra storia delle basi brigatiste”. Aggiunse piante al soffitto, una vasca con pesci rossi, una gabbia con due canarini. Un secolo dopo Guido Gozzano, e senza ironia, era questo l’interno borghese nell’immaginario brigatista. “La classe morta” – titolava in quegli stessi anni un’intensa pièce teatrale di Tadeusz Kantor. A chi riferirla?

 

 

In uno scritto sull’estetica degli anni Settanta - sui temi dello sparire, del dissolvimento, del diventare fantasmi - ho suggerito che anche i cosiddetti “terroristi”, o almeno molti di essi, fossero presi da un’altra fantasia che non la “lotta armata per il comunismo” o l’“attacco al cuore dello Stato”: quella di sparire, come Il fu Mattia Pascal. Il potenziale estetico della clandestinità non viene cancellato neppure dalle rappresentazioni giornalistiche più banali, o dalle loro stesse testimonianze: “La forza della guerriglia urbana sta tutta nel fatto che agisce quando nessuno se lo aspetta: è come un fantasma”, dichiarò Mario Moretti a proposito di via Fani. E su Via Montalcini: “Laura e il suo fidanzato sono le uniche persone che gli altri inquilini vedono durante il sequestro. Prospero Gallinari, io e naturalmente Moro non siamo mai stati visti. Gallinari è un fantasma, esattamente come Moro”.

 

Anche nel film di Marco Bellocchio, Buongiorno notte, emerge la pirandelliana condizione di ontologicamente clandestini dei brigatisti. L’appartamento più squallido, la vita più banale, la miseria triste del geometra, dell’ingegnere o del bancario Tal dei Tali, residente in una periferia impiegatizia, qualcosa che non si potrebbe immaginare più anonimo (ma con dentro una stanza murata), è come un teatro in cerca d’autore. (E, forse, la stessa ricerca poliziesca e giudiziaria di un “Grande Vecchio” che muovesse le fila del gioco, non era che l’insoddisfazione estetica di fronte a un’epica troppo banale). Il fascino del falso, di una vita e un nome indossato come un abito, rende iperreale quella normalità giudicata “fascista” e “razzista” da Orson Welles, un decennio prima, ne La ricotta di Pier Paolo Pasolini. Giocare ai normali era il paradosso della vita di un brigatista e, forse, chissà, la sua intima ragione d’essere. Al loro cospetto, l’idea bellissima di Bellocchio, nell’interpretazione di Roberto Herlitzka, del sogno dell’evasione tranquilla di Aldo Moro dalla sua prigione di normalità, che cammina all’alba scoprendo con occhi da poeta il fascino della periferia, ne fa un eroe libero e felice come il personaggio della Passeggiata improvvisa di Franz Kafka. È un sogno del cinema, ma capace di mettere in risalto per contrasto la cupezza e la miseria epica ed espressiva dei professionisti della autonomia della politica – sia quelli dello Stato che quelli delle BR.

 

 

Tra la miriade di libri dedicati al caso Moro e ai suoi segreti, oltre a quelli dei brigatisti cui si è finora delegato il compito della memoria, Eseguendo la sentenza (Einaudi) di Giovanni Bianconi si legge con la suspense di un romanzo, anche se conosciamo già la fine. È la ricostruzione dei fatti accertati avvenuti in quei cinquantacinque giorni (comprese le pubblicità di Carosello), un piccolo capolavoro di memoria e storia mescolate. Gli eventi detti storici acquistano un’aura di straordinarietà, come se non fossero fatti della stessa sostanza della vita di tutti. Ma è vero il contrario: la storia è fatta di cose, luoghi e persone ordinarie, e indagare la loro infraordinarietà è quello che ci resta. La normalità interpretata dalle Brigate Rosse (“fabbrica di omicidi”, le definisce nel suo libro la Braghetti) è in fondo la nostra, per questo è importante descriverla.

 

Due mesi fa sono andato a guardare le case che abitavano. La famosa via Gradoli, la meno nota via Chiabrera. Che cosa è abitare? C’è una geografia storica, una toponomastica che disegna un turismo della memoria del caso Moro. Anche questa è un’estetizzazione della realtà, spettacolo della frantumazione del mondo in cui tutti hanno perduto i propri riferimenti.

 

Alcuni anni fa in una grande città europea alcuni burloni posero delle targhe sui palazzi, con commemorazioni del tipo: “In questa casa / il 17 febbraio del 1977 / non è successo / nulla”. Targhe false, naturalmente, ma solo in questo senso: non c’è edificio o luogo abitato in cui non sia accaduto qualcosa di estremamente rilevante per qualcuno, ancorché invisibile. Succede sempre qualcosa, soltanto che non viene raccontato.

 

 

Potrei essere dunque l’ing. Maurizio Borghi, alias Mario Moretti, colui che affittò già nel 1975 un altro “covo” dalla parte opposta della città, via Gradoli 96, sulla Cassia, dopo la Tomba di Nerone, e che durante il sequestro Moro abitò con Barbara Balzerani. All’epoca era una specie di villaggio: una strada ad anello senza uscita, con una parte ripida le cui case si affacciano su una boscaglia a strapiombo, come è il caso della palazzina A del numero 96. Un condominio popolare, appartamenti piccoli e numerosi, dalle cui finestre esce odore di spezie indiane e musica etnica, e dove mi colpisce la presenza di volti scuri di immigrati. Nessuno conosce la Storia di trent’anni fa. Oggi è un quartiere residenziale dismesso, in cui è impossibile sostare in automobile (un cartello avverte che la via è solo per i residenti). Trent’anni fa vi abitavano esponenti di Potere operaio, dei servizi segreti e criminali comuni, ma le Brigate Rosse, dichiarò Morucci alla Commissione parlamentare d’inchiesta nel 1997, non sapevano nulla. “Eravamo gente normalissima in giacca e cravatta che entrava e usciva dagli appartamenti, non ci incontravamo sotto i lampioni, non facevamo traffici strani”. “Sembrate dei marziani paracadutati”, obiettò il Presidente della commissione. Ancora il mito dell’invisibilità. Fantasmi. Si sa che il covo di via Gradoli fu scoperto casualmente per una perdita d’acqua il 18 aprile del 1978, e la polizia stilò il triste inventario dei locali, interno 11, II° piano, scala A: il soggiorno separato dalla cucina da una libreria contenente libri sulle armi, la camera da letto nel cui cassettone c’erano svariate pistole, tra cui una pistola mitragliatrice, la cucina e il frigo con scatolette di carne, porzioni di affettato, marmellata, tavolette di burro, dadi Star, il bagno con la biancheria sporca e un giubbotto antiproiettile, ecc.

 

Durante il sequestro Moro, Valerio Morucci abitò con Adriana Faranda in via Chiabrera, quartiere San Paolo, da cui si muovevano in coppia per “postare” le lettere di Moro. È una specie di canyon di palazzi di otto piani, con macchine posteggiate ai lati e nel mezzo, a spina di pesce. C’è il cinema Madison, e un bar dove si riuniva la banda della Magliana. Piccoli negozi, supermercati dai nomi secondari. E una Rosticceria-Pizzeria-Tavola Calda tale e quale era negli anni Settanta, dove mi siedo nonostante non abbia più il fisico di quegli anni. Guardo le finestre dell’appartamento al primo piano del numero civico 74, quello di Morucci e Faranda. È quasi di fronte a una scalinata, via Valeriano, che porta ad un casale contadino abbandonato tra i palazzoni (ospita adesso una Città dell’Utopia, luogo di servizio civile e corsi di lingue). In quegli anni la proprietaria rinunciò a notificare l’identità di Morucci alla questura, come richiesto dalla legge antiterrorismo, con motivazioni incredibili: “Mi fido di lei”, gli disse. Aggiungendo che invece non si fidava di quelli che vi abitavano prima, due studenti calabresi: “Lo sa che prima era una base delle Brigate rosse? Un giorno sono entrata, e nello sgabuzzino in fondo al corridoio ho visto una bandiera con la falce e martello!”.

 

 

Si svolse qui la riunione che l’8 maggio 1978 decise l’esecuzione di Moro, con Morucci, Faranda, Moretti, Seghetti e Balzerani. Le finestre, proprio accanto all’entrata, si affacciano basse sulla strada e sui piccoli negozi - di abbigliamento, di orologi, di surgelati. Mi alzo dalla sedia di plastica della rosticceria, indeciso se visitare la “Città dell’Utopia” o vedere il film al Madison, La promessa dell’assassino.

 

Quando passai la prima e unica volta in via Fani, angolo via Stresa, ricordai con trepidazione la ricostruzione dell’assalto, i brigatisti con divise da aviatori, la famosa mitraglietta Skorpion, il presunto Tex Willer, le armi difettose, la quantità di spari, il sangue, i morti, le varie automobili usate. La tragica rottura dell’ordine quotidiano di una strada, di un quartiere. Qualcosa del genere aveva descritto qualche anno prima Peter Handke in un libro capolavoro, L’ambulante, sorta di autopsia del genere poliziesco: “L’ordine è fatto del respiro che si trattiene prima di un grido”. “Prima del delitto, l’ordine sembra addirittura disordine”. Dopo il delitto, segue ogni volta il riordino del disordine precedente: il brulichio della vita corrente, quotidiana, abitudinaria: la nostra. Le macchine sfrecciamo nei due sensi, tra le palazzine anni settanta. Poi guardo la lapide, anzi la teca, con le foto in banco e nero dei volti dei cinque uomini della scorta di Moro, “uccisi con fredda ferocia” in quel luogo, alle 9,05 del 16 marzo 1978. Sopra la teca, un albero di mimosa.

 

 

L’articolo è apparso in forma ridotta su La Repubblica del 16 marzo 2008.

 

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