Quell'individuo / Flann O’Brien, le sue lettere e la sua pinta d'inchiostro
Se si dovesse comporre una Sacrilega Trinità delle Lettere irlandesi, il posto del Padre toccherebbe sicuramente al blasfemo Joyce, quello del Figlio al blasfemo Beckett e quello dello Spirito Santo a un bevitore bilioso e scorbutico di nome Flann O’Brien, al secolo Brian O’Nolan, grande scrittore di culto dai molti pseudonimi la cui fama è andata ampliandosi sempre più in questi ultimi decenni, durante i quali sono stati pubblicati postumi alcuni suoi lavori narrativi di grande importanza, come Il terzo poliziotto, e parecchi altri testi teatrali e televisivi che si supponevano perduti; inoltre sono stati raccolti e editi in numerosi volumi tutti gli scritti che egli aveva pubblicato sull’“Irish Times” e su altri quotidiani del Paese, e si sono moltiplicati anche i volumi saggistici sulla sua opera e i convegni a essa dedicati, cosa che era pressoché inimmaginabile al momento della sua morte, avvenuta nel 1966.
All’epoca però Brian O’Nolan era più conosciuto con lo pseudonimo di Myles che non con quello di Flann. Myles na Gopaleen, autore della rubrica giornalistica più comica che sia mai stata concepita e che già dal titolo Cruiskeen Lawn (in gaelico: Il boccale traboccante) aveva lasciato intendere quale sarebbe stato il tono dei testi di cui si sarebbe composta e che nel corso del tempo era divenuta sempre più simile al banco di un pub intorno a cui di volta in volta, oltre al grande vecchio e sapiente Myles, si sarebbero alternati a parlare, sproloquiare, monologare, dialogare, lamentarsi e inveire, tra rivoli di whiskey e birra e mozziconi di sigarette fumate, innumerevoli personaggi ricreati da prototipi dublinesi incontrati e osservati appunto nelle osterie e alle fermate degli autobus, o inventati di sana pianta ma dotati tutti della medesima padronanza di quella meravigliosa lingua che è la parlata dublinese, che già Joyce aveva catturato nelle pagine più divertenti dell’Ulisse e di cui pure O’Casey, il drammaturgo cantore della Dublino proletaria, si era servito per le sue più grandi opere teatrali.
Flann invece, dopo aver conosciuto un momento di notorietà verso la fine degli anni trenta, con la pubblicazione del suo primo romanzo At Swim-Two-Birds (tradotto in italiano col bellissimo titolo di Una pinta d’inchiostro irlandese), era sparito dalla circolazione per oltre vent’anni ed era riapparso solo dopo che, grazie all’interessamento di Graham Greene, il libro era stato ripubblicato in Inghilterra all’inizio degli anni sessanta, attirando parecchio interesse e sollecitando il suo autore a riconsiderare la propria attività narrativa che forse egli aveva troppo sbrigativamente abbandonato e che in effetti proprio grazie a questo rilancio avrebbe ripreso, con la stesura e la pubblicazione di altri due romanzi (Vita dura e L’archivio di Dalkey) e lasciandone poi incompiuto un terzo (Slattery’s Sago Saga).
In realtà, di libri che Flann aveva scritto sotto i trent’anni, in quella sua prima fase di fulgida e dirompente creatività ed esuberanza linguistica, oltre a At Swim-Two-Birds, ce n’erano altri due. Il primo, rifiutato dall’editore perché ritenuto un po’ troppo fantasioso, s’intitolava The Third Policeman (Il terzo poliziotto) e somigliava a una allucinatoria e stuporosa visione dell’aldilà: romanzo di una forza narrativa straordinaria, che Giorgio Manganelli, per citare solo una voce autorevole di casa nostra, avrebbe definito “amabile, inconsueto e ragionevolmente demente”. Il secondo, invece, era una parodia scritta in gaelico delle vecchie narrazioni orali tipiche delle zone rurali più sperdute dell’ovest d’Irlanda che s’intitolava An Béal Bocht (La miseria in bocca), che però aveva circolato in un numero limitato di copie e in una lingua, il gaelico, che allora era ancora accessibile solo a pochi.
Come ultimo tassello mancante di quella che potremmo definire ora l’opera completa di questo strano autore che per gran parte della vita aveva svolto il mestiere di funzionario statale, divenendo però anche tristemente noto come il primo ed unico caso di licenziamento dal pubblico impiego, è stata pubblicata recentemente in Irlanda la voluminosa edizione delle sue lettere, dal titolo The Collected Letters of Flann O’Brien (a cura di Maebh Long, Dalkey Archive Press, Dublin 2018, pp. 603). Un libro certamente utile per gli studiosi e i lettori appassionati di O’Brien e che in diverse sue parti si rivela veramente interessante. Tra queste vi è sicuramente quella piuttosto cospicua contenente una lunga serie di lettere indirizzate da Brian O’Nolan all’“Irish Times”, nelle quali egli utilizza per la prima volta lo pseudonimo di Flann O’Brien, e dunque risalenti al periodo di poco antecedente alla pubblicazione del suo primo romanzo. Inizialmente queste lettere erano state concepite come una satirica intromissione da parte sua in una disputa aperta dagli scrittori Sean O’Faolain e Frank O’Connor, i quali stavano dibattendo sulle pagine del quotidiano argomenti relativi all’attività e alla programmazione teatrale di una città come Dublino in rapporto alla tipologia del pubblico che normalmente frequentava i teatri. O’Connor lamentava una scarsa capacità di comprensione degli effetti prodotti dai meccanismi narrativi delle opere in cartellone da parte degli spettatori abituali e ne biasimava il comportamento dato che molti di loro, a quanto pareva, non si trattenevano dal ridacchiare nemmeno nei punti in cui la storia rappresentata prendeva risvolti tragici; mentre O’Faolain, da parte sua, discettando di arte e differenze fra realismo e naturalismo, optava per un’importazione massiccia di opere di autori stranieri anche cervellotici, e obiettava alle idee di O’Connor, secondo cui il raggiungimento degli “Ideali per un Teatro Irlandese” (così era stata chiamata questa loro controversia) lo si sarebbe potuto ottenere solo puntando, come criterio di scelta delle opere da rappresentare, sulla qualità paesana delle storie sviluppate nei testi e delle loro ambientazioni, che a questo punto potevano essere solo di matrice campagnola e contadina.
O’Brien era intervenuto nella diatriba deridendo entrambe le posizioni e alimentando ulteriormente la controversia con una serie di lettere scritte di suo pugno ma utilizzando pseudonimi sempre diversi, tanto che di lì a poco la pagina in cui queste lettere venivano pubblicate era diventata forse la sezione più seguita del giornale. Cosa che non era certo sfuggita al suo direttore, un omone grande e grosso di nome Bertie Smyllie il quale, tramite un conoscente comune, aveva poi organizzato un incontro con O’Brien convocandolo in un pub del centro di Dublino, il Palace Bar, frequentato allora dalla cricca della stampa, dove Smyllie aveva una saletta a lui riservata nella quale era solito tenere consiglio fuori dell’orario d’ufficio. E da questo incontro sarebbe scaturita la decisione da parte di Smyllie di affidare a O’Brien una rubrica umoristica e satirica che O’Brien avrebbe poi condotto per il successivo quarto di secolo, dal 1940 al 1966, firmandola con lo pseudonimo di Myles na Gopaleen.
Ma non sempre in armonia con la direzione, come testimoniano parecchie lettere del periodo successivo ai primi due anni della rubrica, quando Myles aveva cominciato a lamentarsi e a batter cassa per ottenere un aumento che gli veniva continuamente lesinato, e anche per motivi inerenti al tono sempre più critico, soprattutto nei confronti di qualche pezzo grosso della politica e dei tanti maneggioni del suo sottobosco, che la rubrica avrebbe assunto nel corso degli anni diventando quasi una tribuna privilegiata da cui Myles poteva lanciar strali a suo piacimento per colpire i propri avversari personali. Cosa che si sarebbe rivelata piuttosto rischiosa, dato che gli avrebbe poi procurato non solo qualche grattacapo col giornale ma anche il licenziamento dall’ufficio governativo presso cui era impiegato, e questo proprio per aver preso di mira, irridendone l’incapacità decisionale con sottili giochi di parole e doppi sensi, un pezzo più grosso degli altri il quale evidentemente non ci aveva pensato due volte a fargliela pagare, ossia il sindaco stesso di Dublino, Andy Clarkin.
Molto interessante al riguardo è una lettera del 13 marzo 1953 indirizzata al ministro Seán MacEntee e articolata in quattordici punti, nei quali O’Brien, dopo aver succintamente riassunto la propria carriera presso l’amministrazione locale e dichiarato di aver rassegnato le dimissioni dal suo impiego perché costretto dal capo del suo dipartimento il quale aveva dato l’ordine di far sloggiare “quell’individuo” (“that fellow”, cioè O’Brien) dagli uffici governativi della Custom House, chiarisce che il casus belli riguardava un articolo ironico pubblicato nella sua rubrica ai danni appunto del sindaco di Dublino, ma negando fermamente di esserne stato lui l’autore, dato che la rubrica figurava sì a suo nome ma vi collaboravano anche altri giornalisti o amici suoi. E citava ad esempio un articolo in cui ad essere stata presa di mira era la polizia municipale di Dublino, colpevole secondo l’autore di negligenza, articolo che per l’appunto era stato scritto dal figlio di un conoscente del ministro. Ma questa spiegazione evidentemente non era bastata, o non era stata creduta.
Sarebbe inutile citare i restanti punti della lettera, che in buona parte vertono su questioni retributive, ma effettivamente a partire da quel momento la vita di O’Brien si sarebbe complicata non poco. La corrispondenza successiva a questo periodo e fino al termine del decennio rivela un progressivo slittamento verso il basso e il tentativo continuo da parte di O’Brien di mantenersi a galla impiegando le proprie risorse intellettuali. Cosa non facile nella Dublino degli anni cinquanta, che da seconda capitale dell’Impero Britannico, qual era stata fino a trent’anni prima, ora si dibatteva tra problemi derivanti da alcolismo e disoccupazione. Le sue lettere di questo periodo infatti sono in gran parte scritte alla ricerca di qualche opportunità di lavoro e riguardano principalmente offerte di collaborazione a giornali di provincia (di cui una rivolta anche alla testata inglese del “Guardian”); richieste di posti di insegnamento presso istituzioni accademiche come il Trinity College o anche solo di posizioni amministrative; accordi presi per la rappresentazione di opere teatrali, sketch televisivi e radiodrammi da lui scritti per l’occasione e successive discussioni per problemi riguardanti compensi pattuiti ma non liquidati o liquidati solo in parte; richieste di consulenza presso editori; progetti generici sottoposti a chi di dovere, come quello di una rivista letteraria che avrebbe dovuto intitolarsi “The Dublin Man”; proposte per la riedizione di suoi libri e una lunghissima sequenza di batti e ribatti con l’Ufficio delle Imposte per questioni riguardanti le annuali dichiarazioni dei redditi, sempre difettose e mai a suo vantaggio.
La cosa strana di tutto questo periodo di difficile situazione economica in cui O’Brien si era ritrovato dopo il licenziamento, è che egli non sembra aver mai neanche minimamente contemplato l’idea di rimettersi a scrivere narrativa, anche se ora avrebbe avuto la possibilità di farlo a tempo pieno. Una volta passato il tourbillon del decennio precedente, che lo aveva visto tentare la sorte anche altrove grazie ai buoni uffici dello scrittore William Saroyan, che si era dato da fare per pubblicare At Swim-Two-Birds in America, le uniche lettere che indicherebbero una volontà di ripresa della propria attività letteraria, almeno fino alla sua riscoperta avvenuta in Inghilterra, sono quelle spedite alla ditta Jameson per ottenere l’incarico di scrivere una storia del whiskey irlandese di cui egli riteneva di essere (e di fatto era) un ottimo conoscitore, e altre indirizzate all’agente letterario inglese Anthony Sheil, a cui aveva sottoposto l’idea di scrivere un libro sull’Irlanda che si sarebbe dovuto intitolare Golden Ireland Now And Then, ma in entrambi i casi i progetti non si sarebbero realizzati.
Segue poi un periodo in cui le lettere registrano fastidi e perdite di tempo con le banche e addirittura con la propria macchina da scrivere, nuovi problemi con le tasse e soprattutto una lunga serie di incidenti più o meno seri che gli erano capitati salendo o scendendo da autobus e altri mezzi pubblici o mentre era alla guida dell’auto, incidenti però tipici di chi avesse alzato un po’ troppo il gomito, e che lo avevano lasciato di volta in volta o con un braccio rotto o con una gamba ingessata o con un ferita al capo o con qualche problema al coccige. D’altra parte era stato proprio lui a consigliare i suoi lettori su cosa fare in caso si fosse stati fermati dalla polizia mentre si era alla guida in stato di ubriachezza o comunque con un tasso alcolico superiore a quello consentito. La soluzione consisteva nel tenere sempre una fiaschetta di whiskey a portata di mano nella tasca interna della giacca o in quella posteriore dei pantaloni, di estrarla ben in vista davanti ai poliziotti e di berne tre o quattro sorsi dietro fila, di modo che ora sarebbe stato impossibile per i poliziotti stabilire quanto si fosse bevuto prima di essere stati fermati.
Poi, superato finalmente questo periodo in cui di fortuna sembrava proprio che gliene arridesse poca, ecco il miracolo della resurrezione. Qualcuno si era ricordato di lui in Inghilterra e il suo primo romanzo ritornava alla luce, attirando su di sé l’attenzione di parecchi critici che non avrebbero esitato in proposito a parlare di un vero e proprio caso letterario e spostando sul suo autore quella di diversi agenti disposti ora a interpellare editori stranieri in Europa e in America per eventuali traduzioni e opzioni su lavori futuri. Come già accennato in precedenza nel giro di pochi anni O’Brien avrebbe dato alle stampe altri due romanzi: il primo, Vita dura, un gioiellino in parte autobiografico di ambientazione joyciana, e il secondo, intitolato L’archivio di Dalkey, in parte un rifacimento di alcune idee già presenti nel Terzo poliziotto che ora però erano state calate in uno schema narrativo molto più tradizionale benché non privo di episodi del tutto irrealistici, come ad esempio la scoperta di un Joyce redivivo e residente in una cittadina sul mare a nord di Dublino e la comparsa di Sant’Agostino che dialoga con alcuni protagonisti del libro in una grotta subacquea.
Riguardo a quest’ultimo, dalle lettere relative al periodo di composizione del romanzo (1963) si evince una continua e mai soddisfatta necessità di sapere se il santo africano, proprio perché africano, fosse nero o bianco. Necessità che poi pian piano si sarebbe trasformata in una specie di ossessione destinata a rimanere irrisolta (tranne che nella riduzione teatrale del romanzo a opera di Hugh Leonard, dal titolo The Saints Go Cycling In, in cui il volto di Sant’Agostino, pur nascosto da un foltissimo barbone bianco, appare di carnagione chiara).
Quello che stupisce però, in questa fase di rinascita e ripresa creativa, è il metro di giudizio che O’Brien esprime in più lettere riguardo ai suoi lavori narrativi, essendo tutto sbilanciato a favore degli ultimi, mentre i primi a più riprese vengono considerati e dunque liquidati come “insensatezze giovanili”. E questo nonostante gli apprezzamenti critici più che favorevoli e positivi riservati a un’opera come At Swim-Two-Birds da parte di autori non di poco conto come Dylan Thomas, Jorge Luis Borges, Graham Greene, Anthony Burgess, V.S. Pritchett, per citarne solo alcuni. Ma si ha come l’impressione che la ferita procuratagli dal suo esordio sfortunato non si fosse mai rimarginata e che soprattutto lo avesse portato a rinnegare l’elemento sperimentale presente in dose massiccia nei suoi primi libri, concepiti anche per irridere il realismo dominante nella letteratura irlandese dell’epoca, a cui però pure lui avrebbe fatto ritorno nella seconda e ultima fase della sua produzione, seppur con qualche deviazione o concessione alla sua vecchia vena di scrittore pirotecnico e innovativo, che usa l’ironia ed esibisce, smontandoli, i meccanismi narrativi tradizionali proprio come antidoto all’illusione realista.
A questo proposito, varrebbe la pena soffermarsi brevemente su At Swim-Two-Birds (Una pinta d’inchiostro irlandese) dato che in Italia questo romanzo, pur avendo ottenuto eccellenti recensioni sia alla sua prima pubblicazione avvenuta da Einaudi nel 1968 che alla seconda da Adelphi nel 1993, non ha mai fatto veramente breccia nel grande pubblico, nemmeno nei periodi in cui (e sono stati molti) in questi ultimi decenni la cultura irlandese è stata lanciata e rilanciata in Italia non solo dagli editori ma anche dall’industria discografica, a dimostrazione di un sempre più forte e crescente interesse per quel Paese. E la stranezza sta proprio in questo, perché se esiste un libro che contiene in sé tutto ciò che è tipicamente irlandese, con quel suo misto di follia assurdità comicità e senso del tragico, e che addirittura è rappresentativo della cultura irlandese ancor più di quanto non lo sia l’Ulisse di Joyce, questo è proprio At Swim-Two-Birds. Senza contare che proprio Joyce era stato fra i primi a elogiare il libro, definendo il suo autore “un vero scrittore con un autentico spirito comico”, e che pure Manganelli, tanto per citare ancora lui, nella scheda di lettura che del romanzo aveva redatto a suo tempo per Einaudi non aveva esitato a definirlo un capolavoro.
Ma il problema di questo libro, per un lettore italiano, sta probabilmente nel disorientamento iniziale che esso produce, non solo perché è caratterizzato da tre inizi che a loro volta danno vita ad altrettanti livelli narrativi, ma proprio perché fin dalle sue prime pagine viene data per scontata la conoscenza di personaggi derivanti dall’epica gaelica e dalla ricchissima tradizione folkloristica e fiabesca celtico-irlandese, che ben difficilmente un lettore italiano può possedere. Una volta però che si sia penetrati nel meccanismo narrativo del romanzo, non si può fare a meno di apprezzarlo per la varietà delle sue invenzioni linguistiche (splendidamente rese in italiano dalla traduzione di Rodolfo Wilcock), per la comicità sempre latente o presente soprattutto nei dialoghi e per l’azzardo di fondo da cui nasce l’elemento parodistico e il trattamento ironico di certe tecniche narrative d’avanguardia elaborate all’epoca del Modernismo.
Ma veniamo al libro, partendo proprio dal suo titolo, At Swim-Two-Birds, che deriva dall’anglicizzazione di un toponimo gaelico, il cui significato letterale sarebbe A Nuoto-Due-Uccelli, e sta a indicare un luogo immaginario dell’antica Irlanda legato alla figura leggendaria del re pazzo Sweeney, protagonista del più celebre e antico poema di lingua gaelica che proprio in questo romanzo viene riportato nella sua interezza e anche tradotto in inglese per la prima volta. Ed è a Swim-Two-Birds, o Snàmh-dà-én, come si dice in gaelico, che il re Sweeney, costretto a vagare sugli alberi a seguito di una maledizione lanciatagli da un monaco, si ferma per tirare un po’ il fiato e incontra gli altri personaggi del romanzo. Il titolo italiano tuttavia, Una pinta d’inchiostro irlandese, appare azzeccatissimo perché esprime con la sua immagine l’idea che il libro contenga un guazzabuglio di storie alimentate a base di birra scura e che alla fine l’effetto prodotto dalla lettura sia simile a quello di una grande ubriacatura. Cosa che peraltro corrisponde al vero.
La struttura del romanzo infatti consiste nell’intrecciarsi continuo e spesso simultaneo di quattro piani narrativi, che nella finzione sono creati da autori diversi. A un primo livello (a), la storia, raccontata in prima persona da uno studente di Dublino, si riduce alla trascrizione delle sue attività giornaliere, che lo vedono più dedito alla frequentazione di osterie che non di lezioni universitarie, o a quella di amici coi quali egli discute di corse di cavalli e letteratura: in particolare è proprio a uno di questi che egli parla del romanzo che sta scrivendo, esponendogli di volta in volta le teorie estetiche sulle quali il romanzo si basa (e che si riflettono sulla struttura stessa del romanzo in cui il ragazzo narratore è inserito, ossia quello che stiamo leggendo noi). Egli dice ad esempio che un buon romanzo dovrebbe avere tre inizi diversi (e il romanzo ha infatti tre inizi diversi); che è antidemocratico costringere i personaggi a essere uniformemente buoni o cattivi, ricchi o poveri, e che questi non devono essere inventati ma prelevati da opere già esistenti (come difatti avviene nel romanzo, ad eccezione di uno, Mr Furriskey, che è talmente canaglia da dover essere inventato di sana pianta).
Oggetto del romanzo che egli sta scrivendo – e qui scendiamo al secondo livello narrativo (b) – è uno scrittore di nome Dermot Trellis, che a sua volta, chiuso nella stanza di un albergo chiamato del Cigno Rosso, sta scrivendo un romanzo [terzo livello narrativo (c)], che ha per argomento le nefande conseguenze del peccato, e a questo scopo ha reclutato un personaggio depravato, il suddetto John Furriskey, il cui compito è quello di violentare donne e comportarsi in maniera indecente. Il quarto livello narrativo (d) è raggiunto quando i personaggi di Trellis, il quale ha completa padronanza su di loro solo in stato di veglia, si riuniscono nei momenti in cui questi dorme e convincono Orlick, ossia il figlio che Trellis ha avuto da un’illecita relazione con uno dei suoi personaggi femminili, a scrivere un libro in cui Trellis venga processato e ucciso. Ma alla fine Trellis si salva perché, in sua assenza, la donna delle pulizie sbadatamente getta nel fuoco i fogli in cui i personaggi ribelli erano stati creati dall’autore. Creati poi per modo di dire, dato che, come s’è detto, essi derivano da racconti mitologici, canti bardici, folk-tales, romanzi western ambientati nel porto di Dublino e altre opere ancora. Oltre ai tre narratori (lo Studente, Trellis e Orlick), e al malvivente di nome John Furriskey, abbiamo infatti il pooka (cacodemone) Fergus MachPhellimey, una specie di diavoletto umano dotato di poteri magici prelevato dal patrimonio fiabesco celtico; Finn MacCool, ardimentoso guerriero del passato leggendario irlandese e figura di spicco dei poemi relativi al Ciclo degli Eroi; il re Sweeney, di cui già s’è detto; Shanahan e Lamont, personaggi prelevati dai romanzi western e al tempo stesso rappresentanti del ceto popolare di Dublino e dunque beoni e assidui frequentatori di osterie; e infine Sheila Lamont, la ragazza creata da Trellis per essere violentata. Questi personaggi non sono introdotti nella maniera usale, ma con veri e propri annunci.
Come è evidente, dunque, si tratta di un romanzo piuttosto complesso, a scatole cinesi, “a bookish book” è stato definito, un libro libresco, meta-romanzo per eccellenza; ma una volta chiarita la struttura, diventa più facile anche apprezzare il tipo particolare di affabulazione da cui è caratterizzato, l’esuberante immaginazione da cui è sostenuto, la stramberia delle tante divagazioni di cui si compone e l’originalità dei suoi artifici letterari. Esemplare sotto quest’ultimo aspetto è il fatto che la trama del libro di Trellis, cioè il testo (c), riguardante le nefande conseguenze del peccato, non venga mai sviluppata ma si riduca ad essere solo una sintesi delle intenzioni contenute nel suo progetto. Allo stesso tempo però il corpus più consistente del romanzo, cioè della macrostruttura intitolata At Swim-Two-Birds, è ad opera dei personaggi reclutati da Trellis, cioè quelli del testo (c), e ciò anche se il testo a cui dovrebbero appartenere di fatto non esiste.
Ed è proprio in questo nucleo vuoto, in questa assenza del testo che dovrebbe costituire il vero obiettivo della scrittura, che si rivela anche l’idea geniale, quasi metafisica, che sta alla base del libro e che da sola basterebbe a collocarlo fra gli antesignani dello sperimentalismo postmoderno, senza nemmeno considerare gli altri suoi aspetti che in maniera ancora più evidente rimandano a convenzioni all’epoca non ancora codificate e tipiche di quello che in seguito sarebbe stato definito antiromanzo, come il continuo intrecciarsi di realtà e finzione e l’interazione fra autore e personaggi, con questi ultimi che reclamano una loro indipendenza e sfuggono al controllo del primo.
Rispetto a un’invenzione letteraria come questa, alla quale poi in definitiva O’Brien deve la sua fama, i due romanzi del suo secondo e ultimo periodo, pur essendo notevoli anch’essi in quanto a trovate sorprendenti, in grado di dare al momento opportuno le giuste impennate allo svolgimento della trama, non sono comunque paragonabili a Una pinta d’inchiostro irlandese, sia per il vigore linguistico che in questo romanzo viene espresso, con continui cambi di registro e una carrellata di oltre trenta stili letterari parodiati magistralmente, sia per la complessità dello schema narrativo, che negli ultimi due in effetti è composto da una sola sequenza di episodi ordinati in senso cronologico senza alcun affastellamento di piani narrativi, ma semmai con una disposizione per scene ideale per una riduzione teatrale. E difatti il secondo dei due, ossia L’archivio di Dalkey, non aveva neanche fatto in tempo ad essere pubblicato che già veniva sottoposto a un riscrittura adattabile al palcoscenico, come risulta da uno scambio di lettere fra O’Brien e il regista Hugh Leonard, risalenti al novembre del 1964, in cui si cerca per l’appunto di decidere in quale modo realizzare certe scene, come ad esempio quelle relative alle apparizioni di Sant’Agostino nella grotta subacquea.
Più curioso però, sempre riguardo all’Archivio di Dalkey, è un altro fatto avvenuto pochi mesi prima e di cui si dà conto in una lettera al Comando della Polizia di Dublino del 24 aprile 1964, e in un’altra al fedele e storico agente letterario di O’Brien, Timothy O’Keeffe, del 16 maggio 1964. Quello era un periodo in cui O’Brien era costretto a stare in casa, in stampelle, con una gamba ingessata dopo uno dei suoi soliti incidenti e, come egli racconta nelle lettere, un giovanotto aveva cominciato ad andare a trovarlo sul pomeriggio tardi mentre tornava a casa dal lavoro, e siccome la prima volta, nel presentarsi, aveva fatto il nome di amici comuni, O’Brien lo aveva accolto volentieri anche perché nelle sue condizioni non poteva muoversi né vedere nessuno. Inoltre questo bel tipo il più delle volte portava con sé da bere e a O’Brien ciò non dispiaceva. Salvo poi accorgersi qualche tempo dopo che da casa sua erano sparite diverse cose di valore che evidentemente gli dovevano essere state trafugate in un momento di confusione o stupore alcolico, e fra queste vi era appunto il manoscritto dell’Archivio di Dalkey, quello di Vita dura, e uno schedario contenente la sua corrispondenza con agenti e editori. Tutta la refurtiva sarebbe poi stata trovata in casa di quello strano individuo, ma per un attimo O’Brien deve aver pensato di essere finito anche lui dentro a uno dei suoi romanzi, proprio come avviene nel suo primo, At Swim, in cui a un tratto ci si accorge che il romanzo di cui si sta leggendo in realtà non c’è.