Gli opposti conformismi e la questione mediorientale

16 Luglio 2014

“La soluzione possibile, quella vera, la conoscono tutti. Bisognerà solo decidere quante morti inutili di palestinesi e di israeliani vogliamo ancora mettere tra il nostro presente e la pace, quella dell'unica soluzione”. Sono passati oltre dieci anni da quando, in un auditorium del Nord Italia, a Pavia, David Grossman diceva queste parole profetiche, drammatiche, a una platea che per lo più chiedeva invece identità, e uno specchio in cui definirsi.

 

David Grossman

 

Capita spesso così, quando l’insopportabile eterno ritorno della violenza e della guerra mediorientale riporta in homepage questa lunga tragedia. La tragedia, una storia intricata, fatta di molti torti e di ragioni lontane e sbiadite, diventa lo sfondo lontano. In primo piano, nei dibattiti e sui social network, esplodono le grida di un tifo che, da entrambe le curve, sembra dimenticare spesso ogni senso della proporzione, soprattutto se attenzioni e parole spese vengono raffrontate con tragedie ed eccidi che, ad ogni latitudine, generano dolori insanabili e traumi nel silenzio uniforme dell’opinione pubblica occidentale. Non c’è al mondo storia capace di mobilitare le coscienze, l’indignazione, il senso di identità e appartenenza (sfogata sulla tastiera) quanto il conflitto Israelo-Palestinese. Non c’è vicenda vicina o lontana che indigni o mobiliti quanto quel piccolo lembo di terra, popolato da pochi milioni di persone e grande quanto una media regione italiana. Perché? Davvero la vicenda è così materialmente importante? Davvero un morto palestinese o israeliano sono più importanti, più decisivi per noi e i nostri valori democratici, di un bambino cinese che lavora in una grande fabbrica o di un nigeriano trucidato?

Torniamo per un po’ a David Grossman, a quella frase pronunciata dieci anni fa in un auditorium di Pavia, due anni prima di perdere il figlio Uri sul finire della guerra in Libano, mentre fedele al proprio ruolo di sentinella della coscienza di un paese il padre scrittore metteva in guardia un paese disperato dalla nuova spirale di violenza senza sbocchi verso la quale sembrava avviarsi. Allora, nel 2004, al governo c’era Ariel Sharon, non più soltanto il mostro di Sabra e Shatila ma, ormai, il falco convertito a pragmatico leader di un Israele duro ma desideroso di pace stabile. Lo stesso Sharon che vent’anni prima litigava con Oriana Fallaci perché – diceva lui – i palestinesi non esistevano, e nei primi anni Duemila invece diceva che la nascita di uno Stato Palestinese era una questione di giustizia, creando lo spazio per un’opposizione da destra a – guarda un po’ – Bibi Netanyahu. La soluzione possibile, l’unica, di cui parlava David Grossman, a raccontarla oggi sembra quasi archeologia di un processo di pace, dagherrotipo stinto di un’epoca che fu. Parlava, quella soluzione, di un ritiro dell’esercito dai territori palestinesi occupati da Israele; di un progressivo smantellamento pressoché integrale dalle colonie e di eventuale conguaglio di terre dove le colonie siano ormai diventate città, come è alle porte di Gerusalemme.

 

Ariel Sharon

 

Naturalmente, per un intellettuale progressista e pacifista come Grossman, la soluzione unilaterale scelta da Sharon non poteva essere la migliore, e quindi prima di intraprendere la via della decisione tutta maturata a Gerusalemme bisognava verificare davvero, a fondo, con ogni volontà, che l’interlocutore palestinese avrebbe rifiutato ogni piano ragionevole di pace come già aveva fatto – e varrebbe la pena di ricordarselo – al tempo della Camp David di Clinton e Ehud Barak. Quella soluzione, naturalmente, implicava la rinuncia da parte palestinese di ogni violenza e di ogni rivendicazione sul passato, il riconoscimento della piena legittimità ad esistere dello stato di Israele e l’accettazione di una dura repressione qualora la parte araba fosse venuta meno a questi patti.

 

Bill Clinton, Ehud Barak, Arafa, Camp David

 

Per entrambi i lati, questa soluzione passa anzitutto per un’autocritica fattiva e concreta di quanto fatto, delle politiche adottate, delle propagande sostenute per decenni. Per Israele, significava (e significa) rinunciare alla colonizzazione dei Territori occupati dopo la guerra dei Sei Giorni, imponendo ai coloni (quelli motivati religiosamente, quelli incentivati economicamente, tutti quanti abitino nel futuro stato di Palestina) di tornare entro i confini riconosciuti di Israele, un po’ come fece Sharon con i coloni di Gaza nell’estate del 2005. Per i palestinesi, significa rinunciare all’obiettivo storico della distruzione dello Stato Sionista, che oggi fonda esplicitamente l’identità politica di Hamas e che per decenni è stato il collante dell’Olp di Arafat. Per tutti significherebbe un compromesso stabile e sostenibile sulle questioni sensibili: la spartizione delle riserve naturali e idriche, anzitutto, e una dignitosa soluzione della spinosa e simbolica questione di Gerusalemme, città santa che l’accordo Onu del 1947 (che prevedeva anche la nascita di uno stato Palestinese, accanto a Israele) affidava a una tutela internazionale, che la guerra scatenata dagli stati arabi nel 1948 e vinta da Israele finì col consegnare al controllo Giordano, fino a quando la Guerra dei sei Giorni – 1967 – non la consegnò alla situazione attuale, e cioè al controllo israeliano.

 

guerra dei sei giorni


Astraendo, la via alla pace di Grossman – quella da sempre indicata dagli intellettuali della sinistra israeliana – poteva darsi (e può ancora darsi) raggiungendo non solo un accordo politico, economico, internazionale ed istituzionale, ma anche accettando da entrambi i lati (del muro unilateralmente costruito da Israele dopo la più feroce ondata di terrorismo palestinesi dall’epoca di Settembre Nero) una nuova dimensione di psicologia collettiva: il nemico doveva (e deve, e dovrà) diventare un ex nemico. Il nemico doveva (e deve, e dovrà) essere riconosciuto come altro da sé, ma dovrà essere accettato come eterno vicino di casa, uno con cui dividere il territorio e non, invece, come il pluridecennale oggetto attorno al quale costruire la propria identità e senza il quale, addirittura, pezzi importanti di società israeliana e palestinese fanno fatica a definire chi sono.

 

Come si vede, “l’unica soluzione possibile”, quella da cui siamo partiti, è una formula chimica complicata e instabile, fatta da presupposti complicati da costruire e che non pare poter prescindere da alcuni presupposti analitici dolorosi. Perché entrambi i popoli che si dividono e contendono quel lembo di terra sono portatori di diritti ma anche, soprattutto, di grandi torti. Israele ha tutto il diritto di esistere e di difendersi, ci mancherebbe altro, ma deve accettare che come tutti i diritti anche i suoi siano sottoposti a giudizi, valutazioni, legittime critiche e al limite invalicabile dei diritti altrui. Soprattutto – per stare alla storia di questi giorni – deve accettare che le contromisure che mette in campo siano discusse non solo, non tanto, in misura della loro sempre opinabile proporzionalità (che se i razzi di Hamas non venissero intercettati, parleremmo diversamente) ma anche indagate nella prospettiva di voler capire quali siano i reali obiettivi di un’azione come quella che ha portato alla morte di circa duecento palestinesi. Il dubbio di chi pensa che a Netanyahu servisse soprattutto mettere in chiaro – davanti al mondo, alla debolissima Europa, alle chiamate evocative di papa Francesco – che di una pace duratura non si può parlare con lui e il suo governo, pare quantomeno legittimo. Tanto più che, intavolato un discorso che riprenda in mano un destino di pace stabile, lo stesso Netanyahu si troverebbe di fronte alla storica ingiustizia della colonizzazione ebraica da affrontare, con costi politici del tutto incompatibili con la sua storia e la sua consistency.

 

Benjamin Netanyahu


E d’altro canto, appena di là dal muro, le maggiori debolezze e lo storico diritto violato, quelli dei palestinesi, non possono velare lo sguardo di chi cerca risposte razionali. E le colpe, dicevamo, stanno anche dalle parti di Ramallah, di Gaza, di Betlemme, di Hebron. Sono le responsabilità di un popolo e di una classe dirigente che da sempre si accontentano della spiegazione propagandista che vuole il nemico sionista e/o occidentale colpevole di tutto, di ogni proprio male, di ogni ingiustizia, e non ricorda mai che qualche volta, nemmeno un milione di anni fa, una pace era possibile, e fu lo storico leader Arafat a dire no. Certo, era un compromesso e una pietra tombale su un passato doloroso; certo: ma questa è la politica, o no? E sempre per stare dal lato dei palestinesi, è difficile ignorare che la risposta terroristica nei confronti di Israele sia stata quella in cui finalmente annullare tante frustrazioni e rabbie causate sì da Israele dalle sue politiche repressive, ma anche – assai spesso – dalla malapolitica e dalla corruzione che la classe dirigente allevata da Arafat e coccolata da mezza Europa ha lasciato correre sperperando miliardi e miliardi di aiuti internazionali ricevuti in ogni epoca. E ancora, da ultimo, colpisce il fatto che la Striscia di Gaza sia, in questi anni, diventata il territorio di monopolio di forze politiche islamiste, tanto che ogni tregua e ogni cessate il fuoco viene rifiutato da Hamas come non si trattasse di scelte politiche – appunto – ma di una guerra santa che rifiuta la politica e la storia.

Torniamo, per chiudere, a quello specchio identitario e manicheo che, invece, sembra sempre la questione mediorientale quando la guardiamo da qua. Non è in discussione la buona fede di chi – per legami personali, per sensibilità maturate, per gli incontri fatti in una vita, per i retaggi che il Novecento ha lasciato dentro ciascuno di noi, che ci piaccia o no – sente il bisogno di dire chi è declinando con passione e animosità la propria “scelta di campo”. È però doveroso discutere, questo sì, l’utilità ultima di queste prese di posizione rispetto all’obiettivo naturale che dovrebbe essere un avanzamento del dibattito a casa nostra e, perfino, un miglioramento della coscienza collettiva rispetto a una questione ritenuta importante. Nella dimensione curvaiola che ha ormai stabilmente assunto il dibattito sul Medioriente, è evidente che ogni buon obiettivo non si avvicina, anzi. Le due curve restano lì, isolate, forti delle proprie ragioni quanto più possono specchiarsi nei torti degli altri, senza mai essere sfiorate dal dubbio che a confrontarsi, in quello specchio, siano solo due opposti conformismi. E senza mai pensare, cosa ancora più grave, che nel bisogno del perdurare di un nemico, i filopalestinesi e i filoisraeliani di casa nostra riescono a rappresentare assai bene certe chiusure e certe ottusità delle società israeliana e palestinese. Della parte peggiore di entrambe, per la precisione.

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