E, signori miei, che gran lettura! / I Falsari di André Gide (e i loro lettori contemporanei)

11 Gennaio 2017

«Ahimè! vedo che la realtà non vi interessa».

«Sì» disse Edouard, «ma mi imbarazza».

«Peccato», disse ancora Bernard.

 

Del mio appuntamento con I falsari di Andrè Gide oramai pensavo soltanto di averlo mancato del tutto. Si può capire, più di trent’anni dopo. A parlarmene era stata una compagna di studi universitari e il suo racconto dei livelli di lettura (romanzo, diari nel romanzo, diari fuori dal romanzo...) aveva impegnato le ore di una di quelle conversazioni potenzialmente interminabili, in cui sublimare chissà cosa, che poi alla fine sono il vero e unico rimpianto che si possa provare di quell’età sgraziata (o selvaggiamente aggraziata). Avevo acquistato poco dopo l’edizione nei tascabili Bompiani, in due volumetti con un precario cofanetto di cartoncino leggero (mi pare di ricordare). Al primo tentativo di lettura, le parole di Gide non mi riportarono però l’incanto che ne provava la mia compagna, né furono tali da suscitare un incanto propriamente mio. Rimase un nulla di fatto, cioè di letto: un lento oblio in cui i due volumetti affogarono, nell’allargamento progressivo della mia libreria personale, senza che nei decenni mai una volta, ripassandone gli scaffali in rassegna, mi venisse da riprenderli in mano. Unica remora, la certezza che il complesso progetto gidiano dovesse prima o poi costituire una parte assai importante dell’opera sui giochi letterari che a lungo sono andato vagheggiando. In particolare della sezione dedicata ai giochi che Roger Caillois chiama di «mimicry», mimetismo e travestimento. Era questa una trovatina di cui sono andato fiero a lungo, un escamotage utile per risolvere un problema teorico sul gioco in letteratura. Fra gli impulsi al gioco descritti da Caillois, non è difficile identificare quando la letteratura si impegna nell’agonismo (per esempio, nelle tenzoni poetiche) o quando sfida il caso (per esempio, nei giochi aleatori delle avanguardie dadaiste e surrealiste). 

 

Ma nel caso del mimetismo e del travestimento, come distinguere il gioco dalla normale e pacifica essenza mimetica e rappresentativa della letteratura? Il mio sofisma era, ed è rimasto, questo: la letteratura gioca a mimare e travestire quando lo fa al secondo grado, cioè in una dimensione metaletteraria e per esempio con una mise en abyme, la «messa in abisso». È stato proprio Gide a parlarne, nel suo Diario, già nel 1893: «Preferisco che in un’opera d’arte si ritrovi, trasposto in questo modo, sulla scala dei personaggi, il soggetto dell’opera»; cita al proposito quadri di Memling, Las Meninas di Velázquez, il teatro nel teatro dell’Amleto ma conclude che «nessuno di questi esempi è del tutto corretto. Lo sarebbe molto di più [...] il paragone col procedimento dello stemma, che consiste nella mise en abyme di un secondo emblema all’interno del primo». 

La riedizione del romanzo, nella bella traduzione di Oreste del Buono (sempre da Bompiani, pagg. 454, € 15,00), un acquisto d’impulso in una libreria, una malattia di stagione che mi ha consigliato la permanenza fra le quattro mura: è bello come concomitanze imprevedibili arrivino a risolvere in poche ore questioni rimaste aperte tanto a lungo. E, signori miei, che gran lettura! Che sapienza, che scrittura (e che traduzione)!... Che riposo dalle fatiche dell’intrattenimento letterario, leggere finalmente, in uno stato lievemente febbricitante, il romanzo che include il diario di uno scrittore che sta scrivendo un romanzo che si intitola agli spacciatori di monete false, proprio come il romanzo che si sta leggendo, e di cui del resto parla anche un diario tenuto dall’autore e accluso all’edizione italiana dell’opera! (In italiano non si può che tradurre come «I falsari» l’assai più pregnante originale «Les faux monnaeyurs», «falsi monetieri»). 

 

In tanti punti ho chiuso le pagine, tenendo il segno con un dito, per apprezzare un passaggio particolare. In due punti ho addirittura messo un’orecchia alla pagina. 

Il primo è capitato a pagina 200, quando Edouard, il personaggio del romanziere, è indotto da tre amici a parlare del romanzo che sta progettando e si accorge che li sta rendendo perplessi. Davvero intende scrivere una storia non di «esseri viventi» ma di «idee»?  Lui risponde: «Quello che vorrei fare, capite, è qualcosa di simile all’arte della fuga. E non vedo perché quello che è stato possibile in musica non sia possibile in letteratura». Questa scena cade proprio alla metà del libro, ed è il suo cuore: immediatamente dopo a Edouard verrà mostrata una moneta falsa vera e propria (e scusate il paradosso) da parte di un altro personaggio, Bernard. La scena finisce con lo scambio di battute che ho messo sopra in epigrafe, quello in cui a proposito della moneta falsa Edouard nega che la «realtà» non lo interessi: il problema è che lo imbarazza. 

 

 

Il punctum che di questa pagina mi ha però colpito è l’affermazione sull’Arte della fuga, e il motivo è assai più contingente. Le parole di Edouard sull’opera di Bach sono quasi le stesse che, qualche anno dopo, sarebbero state pronunciate da Raymond Queneau e Michel Leiris, uscendo dalla Salle Pleyel di Parigi dopo aver assistito a un’esecuzione dell’opera bachiana. Con la differenza che Leiris e Queneau consideravano «l’opera di Bach non tanto dal punto di vista del contrappunto e fuga quanto per la costruzione di un’opera mediante variazioni che proliferano pressoché all’infinito attorno a un tema assai scarno»: fu per Queneau l’idea seminale degli Exercices de Style, idea che cominciò a dare frutti ancora un decennio dopo, verso la fine della Seconda guerra mondiale. Invece Gide e il suo avatar letterario Edouard pensavano proprio all’alternanza di contrappunto e fuga, con le voci di narratore, personaggi, personaggio diarista che si passano il testimone nel dare corpo ai temi del romanzo, temi che ora in una stroncatura postuma (del genere della stroncatura per magnificazione «un libro importante [...] per la maestosità del suo fallimento») il romanziere Alessandro Piperno elenca così: «egotismo, denuncia dell’ipocrisia borghese, pederastia, gelosia, dialettica tra angelismo e demonismo» («André Gide», in La Lettura, 31/12/2016), oltre al ricorso alla mise en abyme (più una tecnica che un tema, salvo che Edouard ne parla nel romanzo, e quindi è una tecnica che, appunto per mise en abyme, diventa anche un tema: la mimicry è sempre destinata a diventare deliziosamente esponenziale).

 

Il tema del romanzo fallimentare è presente anche in un testo molto più indulgente con Gide, la prefazione di Piero Gelli, che di Gide è studioso, nonché curatore dell’imponente edizione italiana dei Diari (Bompiani, 2016): «Se si guarda alle intenzioni con cui lo scrittore partì, con riferimento ai grandi romanzi [...] indubbiamente l’operazione è fallimentare, ma quasi volutamente». Gide, insomma, non poteva non accorgersi della sua stessa operazione: «si costruisce un’opera unica, quasi senza oggetto o senza scampo al di fuori dei giochi e degli intrighi che si formano durante lo svolgersi dei capitoli e delle varie vicende tutte più o meno inconcluse».

Per parlare – in modo più o meno cerimonioso, paradossale, ironico – di «romanzo fallimentare» occorre avere presente e tenere come valida la nozione opposta che, a rigor di semantica, dovrebbe essere quella di «romanzo di successo». Successo o fallimento rispetto all’intentio auctoris (Gelli), ed è l’interpretazione meno sconsolante; o addirittura successo o fallimento rispetto alla necessità che l’opera abbia un oggetto esterno a sé e innanzitutto che per decenza abbia almeno una trama. Anzi, la necessità che il romanzo sia la sua trama, come presuppone Piperno: «L’intreccio romanzesco interessa talmente poco Gide che finisce con il non interessare neppure il lettore: riassumere la trama de I falsari non solo è impossibile, ma vorrei dire persino fuorviante». Immaginarsi come Giorgio Manganelli commenterebbe un tale commento, o il seguente: «L’ossessiva, dolente ruminazione sul romanzo da scrivere lo [Gide] emoziona mille volte più del romanzo stesso». Ora non voglio fare a queste affermazioni il torto di prenderle troppo alla lettera: per quanto il romanziere loro responsabile sia anche uno studioso di letteratura le ha pur sempre affidate a un giornale, nei limiti qualitatitivi e quantitativi imposti alla profondità di scrittura e pensiero da una tale sede. Quello che mi interessa, allora, non è tanto di tentarne una confutazione, quanto di leggerne i presupposti. 

 

Da quando, come è successo, chi l’ha decretato che a un romanziere sia prescritto l’obbligo di «emozionarsi»? Che il romanzo consista nella sua trama e giammai possa consistere in un pensiero a proposito della forma di rappresentazione che il romanzo stesso costituisce? Romanzieri, dateci intrecci sapienti, temi affascinanti, che possano brillare nelle sinossi che attireranno i lettori: sempre che non vogliate fallire quanto Gide, si intende.

La mia domanda è: esistono ancora lettori – e dico lettori, non dico professori, studiosi di letteratura, letterati, scrittori – che preferiscono il «fallimento» di Gide al «successo» di qualche romanziere odierno da classifica? O davvero oggi la letteratura non è che narrativa, con il suo catechismo suadente e i relativi obblighi di rappresentazione e di un bello scrivere tarato su scelte lessicali preziose e paracule, senza badare molto a sconci sintattici che saranno notati solo da cacadubbi senza voce né seguito? 

 

Mi è rimasto ancora indietro l’appunto sulla pagina della mia seconda orecchia, che è la 339 della riedizione Bompiani. È una pagina appunto di «ruminazione» da parte di Edouard e qui la trascrivo:

 

Incongruenza dei caratteri. I personaggi che, da un capo all’altro del romanzo o del dramma, agiscono esattamente come si può prevedere... questa coerenza viene proposta alla nostra ammirazione, mentre al contrario proprio da essa riconosco che i personaggi sono artificiali e fittizi.

 

Con grazia e leggerezza, Gide respinge la tentazione, o la prescrizione, di nascondere gli artifici della narrazione. In una moneta falsa non c’è nulla di letterariamente reale: non perché sia falsa, ma perché a farla diventare letterariamente reale può essere solo il modo che ha la scrittura di lavorarla. La realtà che imbarazzava Edouard era appunto quella della monetina falsa che Bernard gli aveva teso: Edouard voleva scrivere di monete false senza averne vista una, partendo dall’idea di monete da dieci franchi che valgono due soldi. Bernard ne ha in tasca proprio una e all’idea, oppone la cosa: una vera moneta falsa, che suona quasi come se fosse d’oro e invece è di cristallo dorato: «Con l’uso diventerà trasparente. No, non strofinatela, me la sciupereste. Ci si può già quasi vedere attraverso». Ecco, se per voi (voi che leggete all’epoca dei romanzi non fallimentari) la letteratura è una moneta d’oro abbiate cura di non strofinarla troppo: rischiereste di rendere trasparente la sua inutilità. 

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