Luisa Rabbia alla Collezione Maramotti / Love. Disegnare la pittura
“Mi piace guardare alle radici anche dove non si vede l’origine”, dice Luisa Rabbia.
Ci sono opere che si manifestano a voce alta, ostentando la propria presenza, come a rivendicare uno sguardo. Ce ne sono altre, invece, che respirano nello spazio e attendono l’arrivo di chi le osservi, coltivando una vita segreta che accade prima e dopo l’incontro con lo spettatore. I lavori di Luisa Rabbia appartengono a questa seconda categoria: sono opere che richiedono un approccio modulato dalla gentilezza e che tendono una mano a chi decide di entrarvi in relazione, aprendo la porta a un mondo di silenziosa vastità.
Luisa Rabbia, originaria di Pinerolo, vive e lavora da molti anni a New York e l’esposizione alla Collezione Maramotti è un’occasione importante per poter osservare da vicino il suo lavoro. Love è a tutti gli effetti una piccola retrospettiva dove trovano spazio tele, disegni e una grande opera murale. Le opere sono state selezionate a partire dal 2009, periodo al quale appartengono i disegni a matita e acrilico From the Within Out (2009), forme blu su bianco che appaiono come esseri organici primordiali, biomorfismi non meglio identificati. Possono essere considerate opere-ponte, fondamentali per capire il passaggio tra il lavoro della prima parte della carriera dell’artista e le opere più recenti: caratterizzate da un evidente interesse per la superficie, sono lavori “epidermici”, in cui si supera la necessità di una figurazione controllata e dove lo spazio della rappresentazione si apre e prende il passo di una meditazione pittorica, nel quale segno e campo di colore sono interdipendenti.
Pur avendo sperimentato linguaggi differenti, che spaziano dal video alla scultura, il medium d’elezione di Luisa Rabbia è il disegno, con la sua forza segnica e la relazione diretta con il gesto. Se è convenzione identificarlo come disciplina concettuale per eccellenza, nel lavoro di Rabbia esso è anche traccia del corpo, prediletto per la sua forza espressiva a fronte della sua scabra specificità. Proprio per questa virtù, l’artista lo elegge a linguaggio primario durante il primo periodo dell’esperienza negli Stati Uniti, dove le contingenze la portano a prediligere un medium leggero, che le consenta una gamma espressiva vasta ma senza la necessità di ampi spazi d’installazione o tempi di produzione estesi. In fondo, una semplice penna blu e un foglio di carta possono generare interi mondi.
Nel gesto del disegno si può quindi individuare il nucleo della pratica artistica di Rabbia, incardinata nella dialettica tra spazio interiore ed esteriore. L’artista dice infatti: “Il disegno è sempre stato il mio media. Ho sempre preferito il segno al pennello”. Questa relazione con il segno si evince in tutte le opere in mostra, nelle quali però l’azione grafica non si esaurisce nel solco della matita, bensì si attiva, irradiando la propria energia in relazione alla pittura. La punta della matita che tocca la superficie della carta e il flusso che ne scaturisce sono qui l’a-priori di qualunque altra manifestazione creativa, quel movimento verso l’altro che è il fondamento del lavoro di Rabbia, un’energia che la ricollega idealmente ai lasciti dell’Arte Povera. Uno scambio interno/esterno che riguarda sia la dimensione dello spazio dell’opera, fenomenologico e simbolico, sia il rapporto tra artista e mondo, nel tentativo di trovare un punto di incontro tra l’intimità dell’esperienza dell’io e l’inconoscibile che risiede nell’alterità, nella forma di una comunione laica con l’esistente.
La relazione tra spazio empirico, tangibile della tela, e spazio interno della rappresentazione rimanda inoltre alla lezione di Agnes Martin, artista amata da Rabbia e la cui presenza aleggia tra le tele. Tra le due artiste non si può parlare di rapporto di filiazione né di citazionismo, piuttosto si tratta di mondi contigui che risuonano l’uno nell’altro, accomunati da una volontà di scarnificazione dell’opera tesa a far emergere una verità profonda, universale e a tratti scandalosa.
Le opere del 2009 segnano un approccio alla forma in cui si percepisce un movimento generativo: la forma è ancora conchiusa ma si avverte la destinazione cui tendono quei soggetti densi, che rappresentano uno snodo cruciale della produzione, prefigurando ciò che verrà dopo. Fino ad allora, il lavoro di Rabbia è stato chiaramente delineato, pur nell’eterogeneità di mezzi e soluzioni impiegati. In esso si dispiega una riflessione sul tema dell’esperienza privata e collettiva, sul corpo come contenitore di memorie e sulle dinamiche di relazione tra gli individui, mettendo in luce la fragilità intrinseca della condizione contemporanea umana, o meglio, postumana.
Oggi il disegno di Luisa Rabbia è mutato, innestandosi nella pittura e ha dato vita a opere che tendono all’astrazione, dalla tavolozza profonda contenuta in una gamma di viola, blu, rossi e marroni, colori che vibrano a basse frequenze e che rimandano al potere evocativo dell’Espressionismo Astratto. Un colore purificato dai vincoli della forma e trascendente, che emerge quasi con un movimento di autodeterminazione: “In qualche modo dipingo ma dipingo con i segni del mio corpo, delle mie mani, e poi i colori arrivano con le matite colorate. Prima che io inizi a disegnare abbiamo solo una grande superficie blu.”
Nel lavoro di Rabbia però non si ravvisa una dimensione lirica o un dramma in atto. Ciò che si manifesta è una figurazione mimetica, una rete di segni che suggeriscono contemporaneamente mappe geografiche, radiografie, cellule, arbusti, reticolati venosi, cartografie, mappe del cielo (Microcosmo, 2014). Le tele offrono allo spettatore l’occasione di una lettura immaginifica, dove rintracciare ferite e aperture carsiche, alvei di fiumi e burroni, visioni che si situano ambiguamente tra la geografia dei territori e l’atlante medico (Pathway, 2014, Untitled, 2013). Tutto sembra in dialogo: un sesso o un fiume, batteri e minerali, radici, pelle umana e animale, rizomi, funghi, polmoni. Ogni elemento concorre a formare una rete di segni apparentemente casuali ma che delineano una trama solcata da una scrittura automatica di lontana ascendenza surrealista. La barriera tra ciò che è dentro e ciò che è fuori è scomparsa, tutto si pone come un superamento del corpo fisico inteso come limite verso il mondo esterno. Qui vi è nudità profonda, l’antitesi di quella che il filosofo Leonardo Caffo definisce “un’umanità edificata sui confini”, un esercizio di disvelamento realizzato attraverso una figurazione che ha la forza di non assomigliare a nulla di ciò che il mercato contemporaneo offre come discorso sull’attuale.
Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo
Sono della stessa essenza.
Quando il tempo affligge con il dolore
Una parte del corpo
Le altre parti soffrono.
Se tu non senti la pena degli altri
non meriti di essere chiamato uomo.
Sa’di di Shiraz
Questa sorta di mappa universale dell’esistenza pone l’uomo non più al centro dell’universo, ma inserito in un sistema complesso dove ogni cosa esiste in relazione alle altre, senza esercizio di dominio o gerarchia. Anche l’artista è parte di questa danza. Non ci sono veli, ciò che offre di sé allo spettatore è una spoliazione dalle maschere e l’ostensione del proprio vissuto: “Mi interessa trovare le connessioni tra un paesaggio interno che quindi è basato sull’esperienza personale, e un paesaggio collettivo, in cui incontri l’Altro, che è anche un paesaggio fisico, è l’ambiente.”
Se la pelle è paesaggio e il blu un colore ideale che rappresenta una “razza universale”, le impronte digitali di I Want to be There, Too (2015) sono la moltitudine umana, le masse dolenti dei migranti ma anche la testimonianza di ogni singola individualità, l’unità cellulare. Millenni di evoluzione umana e ambientale che raccontano di storie che si sommano ad altre storie, reazioni chimiche, cause e conseguenze che concatenano l’esistente dalle origini misteriose del cosmo all’istante che è appena trascorso; uno dopo l’altro gli accadimenti attestano un vissuto condiviso che apre a una reale possibilità di empatia tra gli individui e verso le cose del mondo. Tutti noi siamo quelle impronte digitali, esseri in attesa sotto un fiume di linee di sangue che risalgono il corso del tempo e dell’arte fino a Munch e in avanti, nel domani. Perché, ormai lo sappiamo, il tempo non corre lineare e l’arte ne è la dimostrazione.
“Non riesco mai a trovare negli altri colori quella profondità, quel mistero che il blu raccoglie. Quel silenzio.”
Un velo blu pervade le opere, donando una qualità di rarefazione alle immagini, sottraendo corporeità alle figure. Nel murale site-specific Another Country (2017) il blu palpita sotto la sottile trama a pastello bianco che corre lungo tutta la superficie, emersa quasi come un frottage. Concedendosi il tempo per osservare l’opera in silenzio, a lungo, accade di entrarvi in risonanza. Se avesse un suono, sarebbe l’accordo continuo dello “shruti box” indiano, lo strumento a mantice che accompagna il canto dei mantra. Non si tratta di evocare uno scenario spirituale connotato specificamente, quanto di cogliere quel soffio – un Aleph forse – quel respiro che si percepisce nelle tele e che si innalza grazie alla vibrazione del colore. Si avverte scorrere negli organi di NorthEastSouthWest (2014), in Everyone (2013), nei “corpi celesti” incastrati nell’amplesso di Love (2016) che Mario Diacono, nel testo critico che accompagna il catalogo, rilegge anche all’insegna della mistica ebraica, evidenziando un sotterraneo legame con le Sefiroth, l’Albero della Vita capovolto le cui radici si allungano nell’aria.
In un orizzonte storico segnato dalla frantumazione, l’esperienza che ci offre il lavoro di Luisa Rabbia è quella di una forma di visione periferica. Non un centro ma molteplici centri, non una identità ma tutte. La riappropriazione di un senso profondo di “kinship”, che non si limiti alle dimensioni ridotte di un clan familiare ma che si allarghi a comprendere ogni parte della realtà in cui siamo immersi, è un’ipotesi sociale potente per il nostro presente, una tesi che sfida apertamente le paure che concorrono a definire l’umore del nostro tempo.
Superato definitivamente il limite della forma imposto dalla scultura, protagonista della prima stagione del lavoro dell’artista, oggi Rabbia è approdata – grazie al disegno – sulle sponde di un territorio figurativo nuovo, che attende di essere pienamente esplorato. Un territorio dagli spazi smisurati, un continente le cui coordinate geografiche risiedono nel cuore dell’uomo.