Scrittura che lotta contro l’altrove anonimo / Kim Thúy, camei di vita tra il Vietnam e il Canada

13 Ottobre 2018

Oggi è stato assegnato The New Academy Prize, riconoscimento teso a colmare il vuoto della sospesa assegnazione del Nobel per la letteratura. Erano 47 gli autori selezionati dai librai svedesi per questo premio alternativo, tra i quattro finalisti anche Kim Thúy, autrice pubblicata in Italia per i tipi di nottetempo e tradotta da Cinzia Poli.

 

La terza di copertina dell’ultimo libro di Kim Thúy riporta che la scrittrice è nata a Saigon nel 1968, ha abbandonato il Vietnam all’età di dieci anni con la sua famiglia e altri boat people, rifugiata politica in Canada è cresciuta a Montréal, dove ha lavorato come interprete, avvocato, ha aperto un ristorante e si è occupata di critica gastronomica. Oggi si dedica alla scrittura.

Kim Thúy amalgama, nei suoi tre romanzi usciti in Italia, questa esperienza di vita con una forte inventiva letteraria fatta di parole, lingua, odori, sapori, persone: Riva, Nidi di rondine e Il mio Vietnam, sono la sua storia rifratta in altre cento, mille, migliaia di storie che sono state sradicate da una vita, la loro vita, da una tradizione, da un Paese, dagli affetti per ricominciare una nuova vita in una nuova tradizione, in un nuovo Paese, con nuovi affetti. Tra queste partenze e questi arrivi, tra la vecchia vita e la nuova vita, ci sono il mare e i campi profughi. 

Sono storie di chi non è voluto partire, di chi non è potuto partire, di chi è partito ma non è mai arrivato, di chi è arrivato e non è uscito dalla vecchia vita, e di chi è arrivato ed è entrato nella nuova vita.

Nei suoi romanzi le donne sono le protagoniste in quanto spesso artefici della storia privata di molte famiglie, donne che debbono prendere da sole decisioni enormi per sé e per i propri cari, donne instancabili col peso di molte vite sulla schiena. 

E le donne fanno da personaggi ai quattro temi che attraversano tutti i suoi scritti fino a ora tradotti in Italia: la lingua, la storia, l’amore e la cucina. 

 

La lingua, come identificatore non solo di identità ma anche di tradizione: quella del Vietnam, del Nord o del Sud, i gesti di ogni regione, il francese del Canada. La lingua è cultura, tradizione, carattere, educazione; l’incontro con la nuova lingua è l’incontro con l’altro, ma i personaggi di Kim sono gli estranei e l’altro li accoglie.
In questi tre romanzi ci sono personaggi che sono dei veri e propri traghettatori di lingua, con la loro accoglienza e la loro dedizione, spiccano perché portano per mano bambini e adulti nel nuovo mondo con gentilezza e devozione, con rispetto e attenzione. Prima fra tutti Jeanne, la maestra di francese alle elementari: “Jeanne, la nostra fata in body e calzamaglia rosa, i capelli appuntati con un fiore, ha liberato la mia voce senza utilizzare le parole. Parlava a noi – i suoi nove piccoli vietnamiti della scuola elementare Sainte-Famille – con la musica, le dita, le spalle.

 

Ci mostrava come occupare lo spazio circostante distendendo le braccia, alzando il mento, respirando a pieni polmoni. Ci svolazzava intorno come una fata, e i suoi occhi ci accarezzavano uno dopo l’altro. Il suo collo si allungava fino a formare una linea continua con la spalla, il braccio e la punta delle dita. Le sue gambe facevano grandi movimenti circolari come per spazzare le pareti, smuovere l’aria. È stato merito di Jeanne se ho imparato a liberare la voce dalle pieghe del mio corpo perché potesse affiorarmi sulle labbra”. 

La lingua è ciò che dà la possibilità di esistere, ricostruirsi, smettere di desiderare di essere vô hình, invisibile, e Jeanne, e altre, danno la possibilità, con grazia e gentilezza, di divenire visibili attraverso il gesto e attraverso la parola. 

 

 

Parlare per Kim è liberare la voce interiore, così come scrivere per lei è liberare i ricordi e intesserli con storie altre, da conoscere: storie che sono Storia e al contempo autobiografia e al contempo finzione narrativa. La storia del paese, fatta dalla e della storia di uomini e donne, è raccontata tramite una miriade di personaggi che sembrano voler occupare poco spazio nel testo, come se si concentrassero nelle pagine rendendo in tal modo le loro vicende dei camei indimenticabili e perfetti: “Ci dimentichiamo spesso dell’esistenza di tutte queste donne che hanno portato il Vietnam sulle spalle, mentre i mariti e i figli sulle loro portavano le armi. Ce ne dimentichiamo perché, sotto il cappello conico, non guardavano il cielo. Aspettavano soltanto che il sole tramontasse sopra di loro per poter perdere i sensi più che addormentarsi. Se avessero atteso il sopraggiungere del sonno, si sarebbero immaginate i figli fatti in mille pezzi o i corpi dei mariti che galleggiavano su un fiume come un relitto […] Queste donne lasciavano crescere la tristezza nella cavità del loro cuore. Con tutto quel dolore si appesantivano talmente da non potersi più risollevare. Non potevano più rialzare la schiena inarcata, piegata sotto il peso della tristezza. Quando gli uomini sono usciti dalla giungla e hanno ricominciato a camminare sugli argini di terra intorno alle loro risaie, le donne hanno continuato a portare sulla schiena il peso dell’inconcepibile storia del Vietnam. Molte volte si sono spente così, sotto quel fardello, nel silenzio”. Kim Thúy dà voce con la sua scrittura a queste donne, le rende finalmente visibili e indimenticabili.

 

L’amore è un incontro di voci, di gesti, di persone. L’amore della scrittrice per i suoi personaggi si manifesta nell’amore verso le madri, i figli, i mariti, le mogli, verso l’umano. Un amore in Kim Thúy complesso da esprimere in quanto lei è abitata da diverse lingue, diverse culture e ognuna di esse esprime l’amore in modo diverso: parole, gesti, segni. Come toccare o baciare i capelli di qualcuno in Canada sia divenuto un gesto di affetto imparato, con grande fatica e spesso sofferenza, da chi proviene dal Vietnam dove significa una mancanza di rispetto o un’offesa: l’amore ha confini, ma sono confini da imparare. Come le sei declinazioni del verbo “adorare” in vietnamita: “adorare alla follia, adorare al punto di restare impietriti come statue, adorare con ebbrezza, adorare fino a perdere i sensi, fino alla stanchezza, fino all’abbandono di sé”. E anche amare ha molte sfumature, perché l’amore viene dalla testa e non dal cuore: e dunque il lessico si ribalta, la geografia delle tradizioni e quella del corpo prendono una nuova forma, i gesti cambiano non portando più la mano al cuore ma alla testa. In vietnamita “il gesto di amare può essere classificato, quantificato attraverso parole specifiche: amare per piacere (thich), amare senza essere innamorati (thu’o’ng), amare amorevolmente (yêu), amare con ebbrezza (), amare ciecamente (mù quáng), amare per gratitudine (tình nghĩa). Quindi è impossibile amare e basta, amare senza la testa”.

 

In Kim Thúy l’amore, la lingua, la storia hanno un denominatore comune, una valvola di sfogo comune: la cucina. Nella cucina, negli ingredienti e nelle ricette Kim amalgama tradizioni, lingua, storie, esprimendo tutto l’amore possibile nei gesti minuti per realizzare ogni piatto. Una bambina di nove anni separata dal fratello e dal padre al momento dell’arresto, ricorda il fratello stretto a lei e la figura del padre oltre la rete divisoria; lui deve fingere che non siano figli suoi, solo così li può salvare, ma non resiste all’impulso di aiutarli: “L’ultimo ricordo che Hông ha conservato del padre è una tazza di plastica gialla scolorita, con un po’ di brodo chiaro fatto con un pezzo di pomodoro e qualche gambo di prezzemolo. Quando era passato davanti ai figli, l’aveva appoggiata in un angolo del terreno e il piccolo l’aveva tenuta fra le mani, in mezzo alle gambe piegate, e aveva aspettato che Hông arrivasse alla rete per farle bere un po’ di quell’acqua che sapeva di pomodoro. Lei non aveva mai assaggiato niente di così squisito. Dalla liberazione aveva cercato di ricreare quei sapori cucinando la zuppa almeno una volta alla settimana”.

Ogni ricetta è il frutto di una storia in Kim Thúy, una storia in cui si intrecciano lingua e amore, per protrarre la memoria anche di chi, senza nome, dietro una rete, ha fatto una zuppa col nulla, e poi è sparito per sempre. 

 

Tutto ciò che è “madre” in storie di deportazione, fuga, emigrazione, spesso perde il suo significato stereotipato e condiviso: i personaggi di Kim Thúy perdono la lingua madre perché, a un certo punto della loro vita, la debbono reimparare in quanto, dopo molti anni, la lingua è cambiata con un uso nuovo. La cucina non sarà mai più la ricetta madre, ma sarà quella che verrà adattata in un paese nuovo e con ingredienti simili, sempre alla ricerca di una onestà filologica con l’originale ma sempre contaminata in una evoluzione. La madre spesso non è la madre biologica, c’è la prima madre, la seconda madre, la Mamma con la maiuscola, perché le vicende in un paese martoriato dissestano l’ordine delle cose, così come la fuga e la sopravvivenza innescano nuovi legami che si intessono ai precedenti. Forse solamente l’inferno non cambia, come scrive Asli Erdoğan, “Il mio inferno non era né il mio Paese, né qui. Lo trasportavo dentro, proprio come le immagini del paradiso”.

 

Nidi di rondine, parla di amore, lingua, cucina e storia, madri, e parla di buchi, i buchi che abbiamo dentro. Inizia così:

“La Mamma e io non ci somigliamo. Lei è bassa, e io sono alta. Lei ha la carnagione scura, e io ho la pelle delle bambole francesi. Lei ha un buco nel polpaccio, e io ho un buco nel cuore.
La mia prima madre, colei che mi ha concepita e messa al mondo, aveva un buco nella testa. Era una giovane adulta, o forse era ancora una ragazzina, dal momento che nessuna donna vietnamita avrebbe osato avere un figlio senza la fede al dito.
La mia seconda madre, colei che mi ha raccolta in un orto in mezzo a piante di gombo, aveva un buco nella fede. Non credeva più alle persone, soprattutto quando parlavano. Allora si è ritirata in una capanna, lontano dai bracci possenti del Mekong, per recitare preghiere in sanscrito. 

La mia terza madre, colei che mi ha visto tentare i primi passi, è diventata la Mamma, la mia Mamma. Quel mattino ha voluto aprire di nuovo le braccia. E così ha aperto le imposte di camera sua, che erano rimaste chiuse fino a quel giorno. Mi ha notata in lontananza, avvolta in una luce calda, e sono diventata sua figlia. Mi ha offerto una seconda nascita crescendomi in una grande città, un altrove anonimo, in fondo al cortile di una scuola, circondata da bambini che mi invidiavano perché avevo una madre insegnante e venditrice di banane candite.”

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