Noi gli ebrei e anche gli altri / Aldo Zargani, In Bilico
Aldo Zargani è legato per noi a un libro indimenticabile, Per violino solo. La mia infanzia nell’aldiqua, un libro struggente, nutrito di umorismo raro nelle nostre lettere, tragico e delizioso, che ha avuto un successo che ha valicato le frontiere del nostro paese.
In Bilico (noi gli ebrei e anche gli altri), Marsilio 2017, sta in parte nei suoi immediati dintorni e in parte si allontana perché lascia l’infanzia e ci introduce nelle storie da adulto dell’autore. Per entrare in questo suo mondo nulla di meglio che partire dal suo microcosmo, un brevissimo racconto che s'intitola “Berlinesi”, che potete leggere qui.
La prima parola che mi viene per definire i sentimenti che mi ha suscitato è commozione, una commozione che apre a un grumo di oscurità e insieme a lampi di comprensione non razionale. Tutto è raccontato per bene in un ottimo italiano narrativo, sino a quello finale folgorante (probabile stravolta reminiscenza deamicisiana), che apre sul passato in una sorta di ossimoro che oppone l’infamia al pianto, ma insieme lo genera. Ma come possono essere infami quattro innocenti? E come un infame può piangere la sua infamia?
La parola infamia raduna etimologicamente un coacervo di attributi negativi: turpitudine, malvagità, scelleratezza, indegnità, perversità, corruzione, che ben connotano nazismo e Shoah, perché sono essi che stanno al fondo del racconto.
Ma a quel fondo si arriva parlando d’altro discorsivamente, leggermente, tangenzialmente.
C’è una vecchia signora berlinese che dal 1945 non usa più deliberatamente la sua lingua ed è una presenza enigmatica, per la famigliola tedesca berlinese; di essa sappiamo solo che parla fitto e allegro ed è curiosa per quell’essere solitario e silenzioso che certamente conosce la lingua tedesca.
La vecchia signora è dolorante per questa appartenenza che rifiuta, e sarà severa con i suoi connazionali, ma l’infamia che attribuirà loro non potrà non riguardarla personalmente perché oggi non ci sono più dei colpevoli e degli innocenti, in quanto tutti sono stati cancellati dal tempo, e l'infamia si è trasferita dentro alle irresponsabili generazioni future.
Io non so se quel pianto sia realmente accaduto o stia nell’immaginario di Zargani o della vecchia signora, ma esso appare nel racconto come la sua perfetta conclusione, una conclusione che apre a tante letture sulla natura della Shoah: sulla distinzione tra bene e male, su come il male possa albergare simultaneamente e contraddittoriamente nella stessa persona, e anche in quella innocente; come il senso di colpa possa esistere, slegato da una colpa propria ed essere incorporato nei cromosomi e nei caratteri genetici di un’altra generazione ed è questa sopravvivenza a indicarci l'eternità di Auschwitz.
Partecipe alla profondità del racconto la leggerezza della scrittura, nel senso che gli attribuisce Calvino nelle sue celebri lezioni americane; c’è in questo racconto una sottrazione di peso nell’uso della parola, anche quando essa ha di fronte l’opacità del mondo e la sua spietata energia. Per dare un senso a questa leggerezza anche nel trattare vicende gravi, collettive e individuali, Calvino citava Perseo che vince e uccide Medusa guardandola nello specchio e padroneggia il suo volto tremendo tenendola nascosta e tirandola fuori per rendere di sasso i nemici.
Questo rifiuto di una visione diretta non è un rifiuto della realtà, ma l’uso di un percorso tangenziale per rappresentarla. La leggerezza appare qui come una reazione all’ineluttabile pesantezza del vivere una storia come quella della Shoah, e non è una fuga da questa colpa ma una sua evocazione insieme fulminea, lieve eppur profonda.
Gli altri racconti stanno ai margini e sugli esiti della condizione particolare dell’essere ebreo in bilico per la sua storia e la catastrofe novecentesca che lo ha investito, ma vivono sempre in quest''aura ironica, lieve e paradossale che evita il peso della materia che ci schiaccia: un viaggio a Lugano dell’intera famiglia nell’oscuro autunno 1939 alla ricerca di un lavoro del padre, già prima viola dall’orchestra della radio di Torino, visto con gli occhi di un bambino divertito e curioso, viaggio che finisce tragicamente nel nulla; un incontro severo e allusivo prima del padre e poi del figlio nel dopo guerra con un grande direttore d'orchestra compromesso col nazismo; la sepoltura, di una vecchia zia, nel cimitero ebraico di Torino, che è una grottesca, allegra avventura, si direbbe del tutto realistica, che non potrà non divertire la nostra Keillah per il ritratto di un rabbino intransigente guardiano delle regole e un dolcissimo Isacco, evangelico interprete dell’ebraismo; un 25 aprile 1945 prematuro per una lettura distorta del codice che ordina l'insurrezione, con conseguenze esilaranti; un comizio fascista dove Zargani viene salvato dall'intervento provvidenziale della polizia. Ma lascio al lettore il piacere della scoperta di un libro tutto autobiografico, ma tutto trasbordante la biografia.
Ed è sovente l’occhio di un bambino dalla memoria prodigiosa e infallibile a guardare il mondo, nonostante tutto favoloso, in cui lui vive da paria, con la presenza di un padre importante, sognatore, impetuoso, generoso, infantile, sprovveduto e di una madre saggia.
Ma uno dei temi che percorre tutto il libro è quello della memoria ebraica e del suo rapporto con la storia. Un grande storico francese, P. Vidal Naquet, scriveva che la memoria è da molto tempo uno dei tratti fondamentali del rapporto degli ebrei col mondo, mentre per F. Rosenzweig una categoria fondamentale per comprendere il giudaismo è il suo rifiuto della dimensione storica. L’ossessione della memoria è stata una costante dell’ebraismo; diceva J. H. Yerushalmi che la parola zakhor ricorre nella Bibbia non meno di 160 volte. Si leggono le pagine di destra della storia cioè quelle già chiuse. Gli ultimi difensori del ghetto di Varsavia seppellirono le loro memorie perché fossero ritrovate.
Ora con la nascita dello Stato d’Israele siamo entrati necessariamente nella storia e fior di storici sono nati in quello stato, ma qui siamo ancora in una narrazione diasporica, e mi pare che In bilico sta ancora dentro quel solco della memoria ebraica che si presenta come un pensiero che elabora il punto di vista di una minoranza dove è preminente la parte sul tutto, il soggetto rispetto al dato, il personale sull’impersonale, dove la storia è tradotta in memoria e l’evento in strutture mentali e di comportamento.
Così Zargani appartiene ad una letteratura che è una forma di pensiero con un suo compito conoscitivo, in cui si traduce lo spirito del tempo e il senso di un’epoca. Ora scrivere con questa prospettiva non è merito da poco.
Questo articolo è già uscito su Ha keillah (la comunità), organo del gruppo studi ebraici di Torino (maggio 2017), che ringraziamo.