Scene d’estate / Io-Salome: Romeo Castellucci al festival di Salisburgo
Vedere uno spettacolo di Romeo Castellucci è un po’ come partecipare a un rito sciamanico. Ho appena assistito alla Salome di Richard Strauss, allestita nell’imponente cornice di pietra della Felsenreitschule di Salisburgo, e pur con alcune differenze, per esempio non ho provato l’impellente necessità di vomitare, mi sento come se avessi bevuto l’ayahuasca: scosso, attraversato da ombre, ma al tempo stesso più concentrato, lucido, sapiente. Prima di vedere ho digiunato: non si può partecipare a un rito appesantiti dalla digestione, in particolare delle proteine. Al termine, come da prassi, mi affretto a fermare sulla carta visioni, sensazioni. Le lascio fluire. Si accavallano alle premesse: “Vorrei una Salome senza una goccia di sangue” dice Castellucci. E io vedo sangue ovunque.
Sul velo nero che fa da sipario c’è ricamata in oro una frase latina: Te Saxa Loquuntur. La stessa iscrizione campeggia, a qualche centinaio di metri di distanza, sopra l’emblema del Principe Arcivescovo Siegmund. L’emblema fa da cornice al tunnel che collega il centro cittadino con alcuni quartieri periferici. Il tunnel, costruito fra il 1764 e il 1767, attraversa il Mönchsberg.
Sul palco, un’ombra taglia di netto e in senso orizzontale il verbo Loquuntur: si apre una bocca, o forse è una ferita, il velo cola nel golfo mistico e sfiora la testa di un orchestrale. È attraverso quell’apertura che le pietre parleranno? Oppure quel taglio recide le corde vocali, annulla il verbo? E se è così, quel che resta sono le pietre e l’oggetto/soggetto, il te, il me, l’io.
Dietro il velo compare una bambina vestita di bianco. Porta sul capo una corona. Tiene fra le mani una grande spada dorata. La spinge in alto sollevando le braccia. La spada è orizzontale, come il taglio sulla parola. In alto a sinistra, in trasparenza, un’altra Salomè, più matura, sfida la forza di gravità e cammina sul fondale allontanandosi da una luna scura. La bambina corre via trascinandosi dietro la spada. Sembra Jeanette, la piccola Giovanna d’Arco.
Il velo/sipario si apre. Inizia la musica. Entrano alcuni attori che cominciano a pulire il palcoscenico con spazzoloni e stracci bianchi. Non ce ne sarebbe bisogno: il palco è pulito, luminoso, dorato, nessun delitto è stato ancora consumato, sono piuttosto gli stracci a essere già sporchi, macchiati di sangue. Si mette in scena un gesto compiuto a priori: quel sangue, non ancora versato, è già stato tolto. E in questo modo viene evocato, è presente.
Narraboth si sorprende della bellezza di Salomè. Accanto a lui il paggio guarda la luna e gli pare una donna morta che scivola via dalla tomba. Salomè scappa via dal banchetto, lontano dagli occhi dello zio Erode. La ragazza irrompe sulla scena nel suo abito candido. Si volta e, orrore, il vestito è macchiato. Si tratta di sangue mestruale, inutile girarci attorno. Quel sangue in partenza negato, prosciugato dal capo reciso di Jochanaan, riaffiora e impone la sua presenza. Come la macchia sul tappeto del Fantasma di Canterville.
La bellezza di Salomè è una bellezza puberale, segnata da un cambiamento che la coglie alle spalle e che quindi è palese a tutti tranne che a lei. La ragazza che si muove con delicatezza sul palco, e che ha le forme e la voce del soprano lituano Asmik Grigorian, è lontana, lontanissima, dalla Salomè di Wilde e di Strauss: quella era depositaria di una bellezza che toglieva il fiato, che imponeva sottomissione; questa possiede la bellezza impacciata e irrequieta dell’adolescente. Impara a desiderare specchiandosi negli occhi desideranti di Erode. “Salomè c’est moi” dice Castellucci. Io non ci credo. Ne ho la certezza quando dall’oscurità della cisterna emerge la figura titanica di Jochanaan: servono tre corpi per rendere l’idea della sua potenza, della sua forza. Viene chiamato profeta, ma Jochanaan è in tutto e per tutto uno sciamano, uno che va e viene dalla notte e dalla morte. Ha le sembianze e il timbro del basso ungherese Gábor Bretz ed è circondato da un aura/aureola scura che a poco a poco prende il sopravvento e divora il palcoscenico. Indossa un soprabito di pelo lucido e nero che pare il mantello di uno stallone. Porta delle piume di corvo fra i capelli. Tiene in mano un tamburo del tutto simile a quello usato dagli sciamani dei nativi americani. È l’immagine di un sacro che affonda le radici nella natura e che per copione è costretto a negare tutto ciò che incarna.
Jochanaan ha il volto dipinto di nero, mentre la pelle degli altri attori, dalla punta del naso fino alla gola, è rossa. Pellerossa. Fantasmi della Democrazia in America. Erodiade ha invece il viso pitturato di un verde/azzurro che ricorda l’assenzio.
Salomè si mette a quattro zampe, fa scivolare sulla sua schiena una sella, si offre per la monta. Jochanaan non la degna di uno sguardo. E poi, forse come conseguenza del rifiuto, è lui a trasformarsi in un cavallo, a girare in circolo, spaesato, animale muto e vulnerabile, pronto al sacrificio: un brivido gli accarezza il dorso.
Erode chiede a Salomè di danzare, lei prende tempo, poi si concede. Chiede in cambio l’oggetto negato del suo desiderio: le labbra prive di vita del suo amore.
Nell’immaginario collettivo, popolare, la Salome di Strauss ha due momenti salienti: la danza dei sette veli e il macabro bacio dell’eroina alla testa mozzata del profeta. Per pudore e per furbizia Castellucci si sottrae a entrambi, e in quell’assenza l’immaginazione ha un sussulto. La danza è coperta, velata, da un cerchio di uomini con le braccia alzate: una gabbia di corpi maschili. Quel che si vede, che si mostra, è la conseguenza di quella danza: il corpo nudo di Salomè, in ginocchio, in posizione fetale, pietrificato. Un blocco di pietra cala dall’alto e polverizza quel corpo, lo fa svanire: è il trucco di un illusionista. Salomè riappare e pretende il suo dono. Lei si è concessa, si è fatta oggetto, e adesso vuole posare le sue labbra su quelle di Jochanaan.
A tutti i costi. Ho sempre pensato che fosse il capriccio di una ragazzina viziata. Ma ho cambiato idea. Ora in quel bacio sento il sapore del veleno di Romeo e Giulietta, il respiro della morte che dà fiato a un amore impossibile: lo uccide e lo salva. Prima che questo accada, Erode prova a distrarre Salomè: le offre delle pietre preziose, ne descrive la purezza, la qualità, il colore. E quando vengono portate in scena, quelle gemme hanno la forma di cadaveri contenuti in sacchi di plastica colorata. E non c’è un ordine prestabilito, ma chi trascina quei sacchi ne mette in fila uno verde, uno bianco e uno rosso. E in quei corpi privi di vita e in quei sacchi di plastica, per un attimo si illumina di una luce mortifera il tricolore italiano.
Romeo Castellucci non è Salomè. È lo sciamano che esce dalla tomba per trascinarci nell’oscurità, per farci vivere i suoi sogni, i suoi incubi. Sul fondale di pietra, in prossimità della cisterna dove è tenuto prigioniero Jochanaan, c’è scritto in greco antico: Ιω Πρό. Si allude al mito della fanciulla Io, anche se il suo nome dovrebbe essere scritto con l’accento: Ιώ. Anche nel titolo dell’opera di Strauss manca l’accento: Salome. Zeus amava Io avvolgendola in una nuvola d’oro. Poi la trasformò in una giovenca bianca. Hera, gelosa, mise Argo, il mostro dai cento occhi, a farle la guardia. Hermes, inviato da Zeus, tagliò di netto la testa di Argo. Alzo lo sguardo e sulla parete resta solo la lettera omega. Nell’Apocalisse, Dio si definisce l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine. Fine. Sono nostri, di noi spettatori, gli occhi di Argo puntati su Io/Salomè nella vana illusione di salvarla. Non c’è scampo per lei e per noi. Siamo noi Salomè. Ed è nostra la testa mozzata che rotola nella polvere d’oro e si perde nella notte.
Salome di Richard Strauss, con la direzione musicale di Franz Welser-Möst e la regia di Romeo Castellucci si può vedere ancora al Festival di Salisburgo il 21 e il 27 agosto.