L'incessante ricerca dell'esprit latin / Nietzsche / Carmen

26 Dicembre 2017

“Oggi è gioco forza mettersi a scuola dei vecchi Francesi”. Un messaggio chiaro che ci indica una delle principali fonti alla quale Nietzsche attinge nel suo procedere verso la latinità. Abbandonata Bayreuth, va incontro alla cultura francese per tentare di recuperare quella “finezza d'orecchio” che aveva smarrito nella romantica amplificazione wagneriana. Sono gli anni in cui ogni suo gesto sembra orientato a utilizzare la riflessione francese per riequilibrare le proprie passioni lontano dagli influssi della filosofia tedesca come testimonia la dedica a Voltaire in Umano troppo umano, il primo libro di rottura dal wagnerismo. 

 

“Cominciai con il proibirmi scrupolosamente e per principio ogni musica romantica, quest'arte ambigua, tronfia e soffocante, che toglie allo spirito rigore e vivacità e fa proliferare ogni sorta di torbida nostalgia, di tumida brama. […] Contro la musica romantica si rivolse allora la mia prima diffidenza, la mia prima cautela; e, se mai dalla musica speravo ancora qualcosa, era nell'attesa che potesse venire un musicista audace, sottile, cattivo, meridionale, e così oltre misura sano da prender su quella musica una vendetta immortale”.

Parole scritte per la seconda prefazione al secondo volume di Umano troppo umano che ci mostrano come Nietzsche, in quei primi anni lontano da Wagner, si imponga per prima cosa una “dieta” musicale che purifichi il corpo e lo spirito dalle scorie soffocanti della musica romantica. Un processo che proseguirà sul piano anche letterario e filosofico e che costituirà nel tempo una fitta trama di referenze anzitutto francesi.

 

Certamente Cartesio, Voltaire, Montaigne, Pascal, La Rochefoucauld, Chamfort e molti altri, anche se, nella sua incessante ricerca dell'esprit latin, gli strumenti più efficaci ed ultimi in ordine di tempo, Nietzsche li trova tra le pagine degli psicologi francesi. 

Il primo riferimento fra tutti è certamente Stendhal verso cui manifesterà solo incondizionata adesione. Lo Stendhal salutare dalla vitalità affermatrice, l'ateo che rifugge dalle ombre di Dio, che Nietzsche arriverà a definire “uno dei casi più belli della mia vita”. Una vicinanza alimentata anche da una medesima sensibilità musicale, quella di un uomo che “forse ha avuto – fra tutti i Francesi di questo secolo – gli occhi e gli orecchi più ricchi d’intelligenza” e che sapeva “scrivere come gli uccelli cantano”. Questa ideale comunanza rinfrancherà l'animo e la sensibilità musicale di Nietzsche riconducendolo, con nuovo slancio, allo “spirito sereno e solare” di Mozart, alla musica “nostalgica dell'opera italiana” in Haydn e alla “felicità fugace” di un folle Rossini. L'appassionata lettura di Stendhal come psicologo è fortemente legata anche alla successiva scoperta di Hyppolite Taine e alla valorizzazione del Beylisme da parte di Paul Bourget. 

 

Anche musicalmente Nietzsche si rivolge solo a una Francia che guarda al mediterraneo: “giovedì scorso ho fatto la mia prima visita a Montecarlo, per recarmi a un concert classique [...], solo musica francese ultramoderna: o per dirla più chiaramente, solo cattivo Wagner. Non sopporto più questa musica pittoresca senza idee, senza forma, priva di qualsiasi ingenuità e verità. Nervosa, brutale, insopportabilmente invadente e megalomane – e così imbellettata”.

Non certo la musica di questi francesi decadenti e “germanizzati”. La musica di autori come Lalo, Guiraud o Massenet è per Nietzsche troppo romantica e invadente e per molti versi troppo simile all'ispirazione e allo stile di letterati francesi che non apprezzava come Hugo, Flaubert o Renan. Una musica dai profili sfumati, non sufficientemente chiara, vitale, allegra. Una musica senza la force penetrante e dinamica, senza l'insolenza e l'audacia, il coraggio e l'innocenza, dei suoi autori prediletti. “Nella musica occorre contrapporre all'ottusa serietà tedesca il genio dell'allegria”. Sono altri i compositori “francesi”, non solo per nascita, ma per attitudine, a cui si rivolge. Certamente Berlioz, ma in particolare Offenbach e più tardi Audran, Delibes, Von Suppé, e ovviamente Bizet.

 

 

Quando ne Il caso Wagner Nietzsche scrive la celebre frase “il faut méditerraniser la musique”, la scrive in francese e aggiunge una curiosa precisazione: “ho delle ragioni ad enunciare questa formula”, quasi volesse convincerci a non sottovalutare questa breve citazione. Vi collega poi una nota che ci rimanda all'aforisma n. 255 di Al di là del bene e del male. Un’intricata mappa che traccia un percorso di accesso alle più intime motivazioni di questo invito. Questo l’intero aforisma citato: “Contro la musica tedesca ritengo s'impongano necessarie alcune precauzioni. Supposto che uno ami il sud come io l'amo, quale una grande scuola di risanamento, tanto spirituale quanto sensuale, quale un'immensa orgia di luce nella quale può espandersi un essere pieno della sua indipendenza e della fede in sé stesso; ebbene, costui dovrà guardarsi dalla musica tedesca, perché riguastandogli il gusto, essa gli riguasterà in pari tempo la salute. Il meridionale, non per la nascita, ma per la fede, quando sogna un avvenire della musica, deve in pari tempo sognare la sua redenzione dalla musica del nord e sentir nell'orecchio i preludi d'una musica più profonda, più potente forse, più maligna e misteriosa, d'una musica supertedesca la quale all'aspetto del mare voluttuosamente azzurro e del sole meridionale non dilinquisce, non ingiallisce, non impallidisce, come ciò avviene per tutta la musica tedesca; di una musica supereuropea, capace di resistere anche agli infuocati tramonti dei deserti africani, la cui anima sia affine alla palma, e che si senta in casa propria in mezzo alle possenti e belle belve feroci solitarie. – II mio ideale sarebbe una musica, il cui maggior fascino consistesse nell'ignoranza del bene e del male, una musica, resa tremola tutt'al più da qualche nostalgia di marinaio, da qualche ombra dorata, da qualche tenera rimembranza; un’arte che assorbisse in se stessa, da una grande distanza, tutti i colori d'un mondo morale che tramonta, di un mondo divenuto quasi incomprensibile e la quale fosse ospitale e profonda abbastanza per accogliere in sé i tardi fuggiaschi.”

 

Parole da leggere e rileggere, parole che sanno intimamente di musica e che ci permettono di comprendere d’istinto come l'invito di Nietzsche a “méditerraniser la musique” non si limiti ad indicare una predilezione, un gusto, una sterile contrapposizione geografica o di stile, bensì una precisa direzione di vita, una via filosofica.

Nietzsche tenta in tutti i modi di spiegarci che la musica, quella del sud, è la via privilegiata per dire di sì alla vita, non altro. La via tangibile, percepibile da un corpo ormai capace di poter resistere alla sensibilità meridionale, la via di uno spirito libero nel pieno della sua indipendenza, come certamente Nietzsche si sentiva in quella fase cruciale della sua vita. Una via dimentica del “bene e del male” accogliente al punto da “assorbire in sé stessa tutti i colori di un mondo morale”. Quella musica, seppur definita “un ideale”, forse Nietzsche l'aveva vissuta come una necessità interiore prima ancora di poterla vivere nell'ascolto compiuto di un suono reale. Forse aveva già colto la sonorità del sud nei sui primi viaggi italiani, vicino al mare, “nello spettacolo vivacissimo della vita meridionale”. Risonanze native di quelle latitudini che, oltre ogni metafisica, vibravano nella chiarezza e nel ritmo.

 

“Se torno indietro di un paio di mesi da quel giorno [agosto 1881], trovo come segno premonitore un cambiamento improvviso profondo, decisivo del mio gusto, soprattutto in fatto di musica. Forse si può considerare come musica tutto lo Zarathustra, e certamente un suo presupposto fu la rinascita nell'arte dell'ascoltare […] scoprii, assieme al mio maestro e amico Peter Gast, anche lui “rinato”, che la fenice musica volava sopra di noi con un piumaggio più leggero e più luminoso di quanto mai si era visto”. L'arte dell'ascoltare, nella misura più ampia: la misura di una musica luminosa dal piumaggio leggero che libera lo spirito e che rende tanto più filosofi quanto più si diventa musicisti.

Solo qualche mese dopo aver sentito questo “cambiamento improvviso” avviene l'incontro fatale con la Carmen di Bizet, l'opera che Nietzsche deciderà di porre simbolicamente come assolato argine all'impetuoso avanzare di quell'umido nord che sentiva già pervadere l'animo dell'uomo moderno. Opera che ascolta per la prima volta al Teatro Paganini di Genova il 27 novembre 1881. 

 

“Evviva! Amico! Di nuovo ho conosciuto qualcosa di bello, un'opera di François Bizet (chi è costui?)... Carmen. Sembrava di ascoltare una novella di Merimée, piena di spirito, intensa, talora anche toccante. Un autentico talento francese dell'opera comica, niente affatto disorientato da Wagner, al contrario, il vero allievo di H. Berlioz. Non pensavo che qualcosa del genere fosse possibile! [...]”

L'incontro casuale con un compositore sconosciuto che, citato a memoria nella lettera a Köselitz, diventa François e non Georges Bizet. Una Carmen che in questa prima occasione genovese, così come in quelle successive, ancora a Genova, a Nizza e poi a Torino, ascolterà in italiano nella versione Guiraud (con i recitativi musicati). In italiano, con traduzione tedesca aggiunta, è anche lo spartito che acquista nei giorni immediatamente successivi al primo ascolto. Spartito che poi invierà, solo in prestito, a Köselitz con tutta una serie di preziose annotazioni a margine di molte scene. Desidera ardentemente condividere con l'amico musicista questa scoperta, sente di aver intercettato qualcosa grande che possiede “force” e “coerenza tragica”. 

Nietzsche negli anni successivi cercherà in tutti i modi di ascoltare e di conoscere più a fondo la musica di quell'autore incontrato quasi per caso. Assiste a venti e più recite di Carmen (moltissime se si pensa che furono solo due le recite del Tristano e Isotta alle quali assistette) e non perde occasione per sentire nuovi brani di Bizet con la segreta speranza di ritrovare in altre sue musiche un nuovo “brivido luminoso del sud”.

 

Nell'ottobre del 1884 ascolta l'Arlesianne, nel gennaio 1886 la Sinfonia n.1 in do magg, nel 1887 Les Pêcheurs de perles,, nel dicembre 1888 l’ouverture drammatica Patrie, mentre si rammarica di non riuscire ad ascoltare Jeux d’enfants a Nizza dovendo lasciare la città qualche giorno prima. Cerca poi di entrare in contatto con la moglie Geneviève, quasi potesse ritrovare nella vedova Bizet un contraltare francese di Cosima Wagner. Un vero e profondo interesse che cinque anni dopo quel primo ascolto genovese lo portano a scrivere un aforisma dove Bizet viene descritto come “l'ultimo genio che ha visto una nuova bellezza e una nuova seduzione, – che ha scoperto un brandello di sud della musica”.

Innumerevoli sono poi gli apprezzamenti nelle lettere, dalle prime del 1881 fino agli ultimi giorni di Torino: “Poi ebbe inizio la musica della Carmen, e per mezz'ora mi sciolsi in lacrime e palpitazione di cuore”; “Carmen. Finalmente anche in Germania si arriva a comprendere che quest'opera (la migliore che vi sia) contiene in sé una tragedia!”; “del resto [Levi] riguardo a Bizet era quasi più entusiasta di me”; “Carmen […] un autentico evento per me: in queste 4 ore ho vissuto e compreso più cose di quanto non faccia di solito in 4 settimane”.

 

Solo alcuni estratti tra i tanti che, inaspettatamente, si scontrano con l'ultima lettera, quella che Nietzsche indirizza a Carl Fuchs il 27 dicembre 1888: “Quello che dico di Bizet [ne Il caso Wagner] non deve prenderlo sul serio; per come sono io, Bizet non può avere neppure un millesimo della mia considerazione. Ma risulta molto più efficace come antitesi ironica di Wagner. […] Oltretutto Wagner era estremamente invidioso di Bizet. Carmen è in assoluto il più grande successo nella storia dell'opera, e da sola ha superato di gran lunga il numero delle rappresentazioni europee di tutte le opere di Wagner messe insieme.”

Poche parole che ad una prima lettura, sembrano cancellare d’un colpo sette anni di scritti, lettere e testimonianze di segno radicalmente opposto. Parole che sembrano allontanarsi incomprensibilmente da quella musica che fino a quel momento sembrava rappresentare la più autorevole testimonianza di un volere e di un sentire che rifugge dall'oscurantismo germanico verso la chiarezza e la luce vitale del mezzogiorno. Parole inspiegabilmente opposte anche a quelle che Nietzsche indirizza allo stesso Fuchs solo due anni prima, nell'aprile 1886:

 

“La Carmen di Bizet […] la musica di un genio che non è ancora stato scoperto, che come me ama il Sud e possiede, insieme all'ingenuità del Sud, il bisogno e il dono della melodia.”

Forse, per tentare di comprendere meglio quest'ultima lettera di apparente scomunica, dobbiamo ricordare che Il Caso Wagner è un testo definito più volte dallo stesso Nietzsche come un semplice pamphlet, termine che non utilizza per nessun altro dei sui libri. Un libello, poche pagine dal forte intento satirico. Così scrive appunto in una lettera a Köselitz: “Si ricorda che a Torino avevo scritto un piccolo pamphlet? [...] È qualcosa di allegro, con un fondo sin troppo serio?”. In un'altra lettera parla di questo testo come di “musica da operetta...” e qualche giorno prima della citata lettera a Fuchs, tenta di spiegare ad Avenarius le ragioni più profonde che lo portarono ad affrontare questo tema con irriverente ironia: “Devo letteralmente portare sulle spalle il destino degli uomini, e una delle mie dimostrazioni di forza è essere buffone, satiro o, se Lei preferisce, “elzevirista” – riuscire a esserlo, così come lo sono stato nel Caso Wagner”.

 

Da questa prospettiva forse si riesce a cogliere sotto una luce diversa il significato di quel “non prendere sul serio” riferito a Bizet in quella lettera. L'ironia, lo scherno, la derisione in questo momento sono assunti come atti di forza da parte di un uomo che, alle soglie del silenzio che gli verrà imposto dalla follia, percepisce certamente questa lenta metamorfosi. La lettera di Fuchs precede infatti di pochi giorni gli ultimi biglietti “della follia” che un Nietzsche già demente scrive i primissimi giorni di gennaio e trova in questa strana euforia i primi accenni di alienazione e squilibrio, ma anche l'unica possibile fonte di salvezza, l'unica strada per non soccombere. Sente sulle sue spalle il destino degli uomini, un peso da poter sopportare solo nella canzonatura. Considerazioni che ci fanno apparire in una luce diversa anche quel “per come sono io”, quasi volesse raccontarci di una particolarissima configurazione di ciò che in quel momento era chiamato a vivere, della distanza che doveva assumere anche dalla scrittura, per non esserne sopraffatto.

 

Il giovanile wagnerismo di Nietzsche non si è mai trasformato in bizetismo e mai sarebbe potuto accadere anche in seguito. La “non considerazione” di cui parla Nietzsche, non è riferita alla musica di Bizet, ma ad una sua eventuale trasformazione in una nuova forma di “catechismo” musicale alla francese da costruire intorno alla figura del compositore.

La verità che Nietzsche riesce a carpire dal pentagramma di Bizet e da quello di Carmen in particolare, è un'altra: quella che non può e non vuol essere fondativa di alcunché. È semplicemente quella della vita immediata, quella che ci impedisce di porci diversamente di fronte alle cose, se non per ciò che sono nella pulsazione vitale dell'attimo. L'unica capace di abbracciare il nostro intero destino con un solo gesto, fosse anche un gesto “da operetta”. L'unica che ha la forza e l'ardire di porsi come “ironica antitesti” all'intera produzione wagneriana. Forse solo partendo dall'ebrezza e dall'esaltazione di quel corpo che sta smarrendo ogni logica ed ogni appiglio morale, possiamo provare ad rileggere le ultime parole che Nietzsche dedica alla sua amata “sigaraia”.

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