Festival estate / Il teatro salvato dalle moltitudini
Si va a teatro perché a volte accade ancora qualcosa di collettivo. Siamo soli, in platea, eppure le solitudini a tratti diventano un concerto ed è possibile provare quella sensazione di comunanza con altri individui sempre più rara nella nostra società pervasa da solide paure. Si va a teatro non solo per stare di fronte alla geniale visione del grande creatore. Si va a teatro per riconoscerci in qualcosa che ci trascende, per rintracciare qualche goccia di umanità in ipotesi temporanee, parziali eppure concrete di comunità. Per questo un'occasione per noi spettatori e per il teatro ci pare oggi venga dai processi di massa, quando si mettono in moto percorsi antieconomici, forse irrazionali, quasi impossibili, processi dove la scena è abitata da miriadi di persone, in senso fisico e concreto: cittadini che partecipano alla creazione come attori, amatori che diventano danzatori, ma anche percorsi di creazione estroflessi nei quali le fonti drammaturgiche sono persone reali viventi, incontrate tramite interviste e dialoghi. Accade così che ci si riconosca in una moltitudine nella quale siamo in qualche modo compresi, o potremmo esserlo, dal momento che la soglia di accesso è molto prossima a noi. Nulla di troppo nuovo, si dirà.
Un certo modo della “partecipazione” a teatro ha origini ormai antiche, dentro a quella tradizione del nuovo che va fatta risalire agli anni settanta di decentramenti e animazioni, tradizione “canonizzata” dalla fortunata formula dell'estetica relazionale coniata dal critico d'arte Nicolas Bourriaud a cavallo dei 2000, arrivata a teatro con qualche anno di ritardo. Ma mentre la “partecipazione” degli anni duemila sembrava derivare da una necessità di indagine progettata a tavolino dagli artisti, prendendo le mosse da questione estetiche, questo “teatro delle moltitudini” sembra al contrario avere un'origine ribaltata, generandosi dall'urgenza di ricostruire relazioni fra le persone e solo in seconda battuta proiettandosi sull'arte e sul teatro. Se l'ipotesi ha un qualche fondamento, crediamo che da qui si possa ripensare alla sostanza del teatro stesso; forse è possibile anche salvarlo, il teatro, andando a incidere sugli stessi sistemi produttivi egemonici, dunque sul teatro di regia. Raccontiamo alcuni esempi incontrati nella stagione estiva appena conclusa.
Né cittadini né professionisti
Da ormai diversi anni Virgilio Sieni lavora con cittadini che possono dirsi “amatori”, dunque affacciarsi alla creazione come figure interne al processo di creazione ma allo stesso tempo vicine ai semplici spettatori. In piena moda della partecipazione, ricordiamo una edizione del Festival di Santarcangelo (2012) nella quale i cittadini presero parte a un percorso di creazione attorno alla sostanza del sogno, invitando così i propri compaesani a osservarli trasfigurati nelle aule della scuola della piazza (il lavoro si chiamava Sogni). Innumerevoli sono i processi che il maestro fiorentino ha sollecitato in questi anni, in un'idea di arte che è accessibile a quasi tutti, ed è proprio nel “quasi” che si cela una soglia riproduttiva che qui indaghiamo. Si lavora con Sieni investendo tempo, partecipando a prove, allenandosi, andando in cerca dell'archeologia dei propri gesti. Quel “quasi” invita tutti e allo stesso tempo afferma che non è per tutti, uno dei principi dell'arte.
La prima occasione estiva in cui abbiamo incrociato le opere di Sieni è stata a Firenze, al Palazzo Strozzi, per lo spettacolo Mistica_ Ballo 1951, lavoro che poneva le moltitudini di danzatori sienini in dialogo con le opere di una mostra antologica del videoartista Bill Viola, a loro volta risultato di una relazione con antiche fonti di ispirazione (La visitazione del Pontormo e The Greeting di Viola, una Deposizione di Masolino da Panicale e Emergence di Viola). Accadeva così che si creassero risonanze stratificate: dal qui e ora dei corpi in movimento alle pitture del Cinquecento fino ai fantasmi elettronici della videoarte, interrogando in profondità la sostanza del nostro guardare, le aspettative, la memoria, il deposito della storia. In un video che procede al reverse un uomo “nasce al contrario”, come recita il titolo di un'opera dove liquidi e umori via via lo coprono, mentre di fronte a noi sta un uomo a terra, si trascina con le braccia, privato come è dell'uso delle gambe; un cerchio di donne si muove dando sostanza tangibile alla visitazione divina nella stanza di Pontormo, mentre in un altro spazio una fila di uomini e donne si sostiene, si intreccia con gli arti, giace a terra e si alza (e il video orizzontale a parete faceva comparire nella foresta corpi incravattati e in tailleur).
Spostandoci di qualche chilometro, alla prima importante edizione del Pistoia Teatro Festival (18-25 giugno), un percorso di più mesi aveva invitato cittadini e danzatori a mettersi in relazione con le sequenze del Fregio della Misericordia dello Spedale del Ceppo. Veniamo accolti in diversi spazi della città, un primo invito a scoprirci spettatori che camminano, che si relazionano a luoghi ripensati, rivisti grazie al teatro (anche da chi a teatro non va, ma ne sente parlare). Quelle dello spettacolo Fregio sono sequenze misericordiose: braccia che si tendono a invocare, fronti di donne usate come appoggi, mani che sostengono teste, bambine in fraseggi delicati dentro a luoghi che conservano la memoria (una biblioteca), intarsi di colori in cui spicca una bicromia pontormiana, sciami di corpi in pavimenti a quadri, a manifestare le tensioni geometriche astratte che tutt'ora sostengono la poetica del coreografo toscano. La permanenza di Sieni a Pistoia, voluta dall'Associazione Teatrale Pistoiese, si chiudeva la domenica mattina, ultimo giorno di festival, con una Camminata popolare sotto al fregio cinquecentesco, in una dialettica brulicante fra coralità e solitudine, fra emersione individuale e ritorno nel gruppo, come se potesse manifestarsi, in una mattina di fine giugno, l'utopia di un corpo che si fonde con altri corpi, che cade da solo ed è risollevato dal gruppo, che esiste da solo ma si sostanzia nella moltitudine. Ma anche l'utopia di uno sguardo che si confonde con ciò che osserva, che si perde negli altri e si dimentica di sé.
Una cena teatrale
Sempre in Toscana, ad Anghiari, il progetto Tovaglia a Quadri dal 1996 unisce convivio e teatro. Non molto distante dal più famoso “teatro povero” di Monticchiello, si fonda su presupposti non troppo diversi, che in Valtiberina assumono una forma mediata dal regista Andrea Merendelli e dal drammaturgo Paolo Pennacchini. Nei mesi invernali il team artistico lavora alla scrittura del copione, che raccoglie sempre storie locali capaci di riflettersi sul contesto generale italiano, infine si approntano le prove per la messa in scena, realizzata come un banchetto nel mese di agosto all'aperto nella Piazzetta del Poggiolino. Attori e attrici sono tutti non professionisti del paese che di anno in anno prestano volontariamente il loro tempo. Si mangia e si guarda uno spettacolo, forma “mediana” che raccoglie istanze dall'animazione teatrale, dal cabaret, dal musical. Fra un crostino toscano e un piatto di biringoli della Valtiberina, ascoltiamo attori che recitano marcando i toni e discutono fra loro di area vasta, del sistema «Bisolare» instaurato in altre ricche provincie (banche e partito), di rotonde che hanno rallentato lo scorrere del traffico, ma soprattutto di una identità di confine che si vorrebbe proteggere da ingerenze esterne, salvo poi essere tutti pronti a fare soldi col pellegrino di turno (che pure possiede buoni pasto promozionali e non scuce un centesimo).
Storie locali, lamenti, vagheggiamenti di migrazioni in Umbria (a pochi chilometri), donne appartenenti a fantomatiche Federsagre, apparizioni di Miss Fatalona (personificazione de La Toscana, che non sa bene dove collocare la Valtiberina), tirchierie da orafi aretini, sbarre per detoscanizzare il Comune, gestori di bar incapaci, pseudointellettuali che commentano ma non agiscono, anziani brontoloni: in Via da noi le scenette si alternano nella piazzetta, gradualmente emergono i diversi “tipi” e in quei caratteri ci riconosciamo anche un po' noi, basta spostare la focale di qualche grado verso le nostre quotidiane paure. Un teatro che porta in zone molto prossime le istanze estetiche e quelle provenienti dal sociale, creando un ponte diretto fra i due poli, preservando la vocazione alla relazione del teatro amatoriale ma mettendola in forma grazie alla mediazione registica e drammaturgica. Un equilibrio peculiare per un autoritratto che non si assolve e si burla della piccolezza dei suoi lineamenti.
Le Albe all'incontrè
Al termine di Inferno, creazione del Teatro delle Albe portata in scena a Ravenna dal 25 maggio al 3 luglio, dopo essere usciti a rivedere le stelle nel giardinetto del Rasi si forma un grande cerchio, composto da tutti gli spettatori, gli attori, le attrici, i cittadini, i tecnici, le organizzatrici. Marco Martinelli ed Ermanna Montanari ringraziano tutti, quasi uno per uno, affermando che questo Inferno rappresenta un nuovo inizio. Nella storia della compagnia di nuovi inizi ce ne sono stati molti e forse qui siamo di fronte a un vero punto di non ritorno, anticipato dai sommovimenti adolescenti che hanno fatto nascere la non-scuola (dal 1991), poi uscita dagli istituti di Ravenna e portata in Africa, a Scampia, a Chicago, “mutata” in un processo di creazione a cielo aperto attorno a Majakovskij (Eresia della Felicità, 2011, Santarcangelo Festival).
Inferno, prima tappa di una trilogia sulla Divina commedia che prosegue ogni due anni sino al 2021, porta la città dentro all'opera in modo non retorico né metaforico, coinvolgendo ogni sera centinaia di persone, aprendo alle moltitudini la scrittura di scena di un regista-drammaturgo che si è sempre posto una domanda sul proprio “perimetro”, dall'incontro con gli attori senegalesi all'ingresso nel gruppo dei Palotini-Polacchi, spettacolo-manifesto del 1998. Questo lavoro ci pare faccia un passo ulteriore, varcando un confine che può preludere all'eversione di una norma registica che in Italia troppo spesso si limita alla messa in scena o revisione di un testo, diventando qui reinvenzione collettiva di un'identità.
Cronache puntuali sono state scritte anche su queste pagine, basta qui rievocare per tratti l'arrivo dei due custodi Martinelli/Montanari di fronte alla Tomba di Dante, le parole amplificate del primo canto in una sorta di megafono umano corale (quasi un calco delle tecniche assembleari adottate nei giorni di Occupy Wall Street), la camminata per le vie del centro e la sosta di fronte alla Beatrice adolescente, la commozione provata ascoltando quella voce tremolante non impostata e non allenata, ripensando a quando eravamo noi gli adolescenti nei licei della città. Poi l'entrata al Rasi-Dite e la teoria di invenzioni che si susseguono, sempre in una dinamica che scardina il “ben recitato” a favore della coralità: Roberto Magnani come un novello Caronte a svelare il suo piano per governare con la paura soggiogando i cittadini, contornato da un esercito di senegalesi urlanti (è la Venezia Salva di Simone Weil), gli avari e scialacquatori che si scannano in una fila ordinata al centro, con Ermanna che rappa e canta descrivendo le loro azioni e Martinelli che indossa occhialetti neri tondi come il Totò de La Patente.
Molte altre sono le scene corali nelle quali il confine tra il nostro essere spettatori e il loro essere coro si sfalda via via: quando saliamo le scale con le Erinni urlanti, quando attraversiamo un manicomio di uomini-serpenti, quando veniamo fermati sulle scale dalle Malebranche e Malacoda. E così via. Certo il disegno registico è mirabile, dicevamo, ed è costellato da notevolissime visioni. Nelle scene finali i due custodi un po' Virgili ma anche critici-commentatori, trasformandosi in narratori epici, possono solo raccontarci del Cocito e di Ugolino, perché il male profondo non si può incarnare e lo spettacolo arretra. Prima di uscire dal teatro i due ci mostrano la visione di una coppia simile a loro che ruota su un carillon (le cui note acute ci scavano i timpani), impegnata ad abbracciarsi e a pugnalarsi nello stesso gesto. Ma queste invenzioni, senza la potenza teatrale dei cori, resterebbero probabilmente “solo” ottime idee registiche: interpretazioni di una tradizione riscoperta e incarnata alla quale spesso si ferma il nostro teatro maggiore, accontentandosi della patina intellettuale riconosciuta e applaudita dai pubblici borghesi. In più qui ci sono i cittadini, queste figure che non recitano, che non diventano ancora attori, ma che pure non sono semplici figuranti e stanno in scena “al posto nostro”.
Tale differenza dà corpo alla sostanza di un teatro ribaltato, un teatro “registico al contrario” dove sono le relazioni, i corpi, le voci, le fisicità, le cantilene, le grida delle persone a diventare frammenti di un discorso registico collaborativo e polifonico capace di dare una direzione ma anche di “mettersi da parte”, di accogliere e farsi nutrire, di mutare e spaesarsi assecondando la diversità. Una regia che mentre orchestra in qualche modo si fa anche orchestrare dagli elementi che intervengono nel processo e che indica la via di un ribaltamento, una regia all'incontrè per dirla con Vinicio Capossela, che al sovvertimento dell'ordine ha dedicato l'ultima edizione di un'altra impresa collaborativa, lo Sponz Fest, ospitando anche il Teatro delle Albe.
Teatro della Moltitudine: verso un teatro collaborativo?
A questi tre esempi se ne potrebbero aggiungere molti altri che manifestano segnali di rovesciamento, stando però dentro un sistema produttivo a vocazione registica. Diverso, e per certi versi anticipatore, sarebbe il discorso da fare pensando ad alcuni gruppi per esempio nati negli anni '90, che già nei primi spettacoli parevano adottare simili dinamiche di creazione. Per fare qualche nome basterebbe citare il Teatro dell'Argine con Futuri Maestri, i laboratori-spettacoli di Nicola Borghesi, le regie di Claudio Longhi, certi percorsi del Teatro delle Ariette, i processi di indagine de Gli Omini, il lavoro napoletano di Arrevuoto. Si tratta di una modalità di lavoro, non tanto di una poetica, è bene ribadirlo, e come tale passibile di essere adottata e dismessa di spettacolo in spettacolo. Come si diceva sopra, viene il sospetto che dopo l'estetica relazionale il teatro possa essere salvato dalle moltitudini, trovando una forma finalmente in linea coi dibattiti sulle culture convergenti e collaborative, intercettando qualcosa delle preconizzazioni teoriche di Hardt e Negri senza cadere nel rischio di solipsismo e solitudine degli sciami digitali (descritte dal filosofo Byung-Chul Han), indicando all'arte tutta una via per recuperare pregnanza. Ma si tratta di processi che devono fare i conti con la complessità. Sono spettacoli in cui non è più possibile provare un mese sul palco dopo una lettura a tavolino ma è necessario convocare moltitudini per mesi o anni, percorsi costosissimi e che naturalmente faranno i conti con zone di crisi, come succede ogni volta che si dismette un unico principio di autorità o sovranità. Eppure, sospettiamo, sono fra i pochissimi in grado di generare quel rispecchiamento collettivo senza il quale il teatro rimane diletto per pochi.