Per una politica senza generi / Le “con-fuse”. Conversazioni tra Deleuze e Parnet
«Le domande, come qualsiasi altra cosa, si costruiscono: e se non vi lasciano costruire le vostre domande, con elementi raccolti dovunque, con pezzi presi da qualsiasi parte, se ve le “pongono”, succede che non avete gran che da raccontare. L’arte di costruire un problema, questa si è importante: un problema, la sua impostazione, lì si inventa ancor prima di trovare una soluzione. Niente di tutto questo avviene in un’intervista».
Potrei fermarmi a queste righe dell’incipit di Conversazioni – scritto nel 1977 da Gilles Deleuze e Claire Parnet, ripubblicata nel 2019 da Ombre Corte – e costruire un piccolo viaggio filosofico sulla conversazione come “tracciato di un divenire”, propedeutico al pensiero del molteplice che si oppone al binarismo. Ma Conversazioni merita di essere ulteriormente citato, perché rappresenta un esperimento unico, dove le voci di chi domanda e di chi risponde si con-fondono, dando vita a «un divenire vespa dell’orchidea e un divenire orchidea della vespa, una doppia cattura dunque, poiché ciò che ciascuno diviene cambia tanto quanto colui che diviene». Ogni capitolo apre una conversazione, mai scandita da domande, dove Deleuze e Parnet aboliscono le loro identità, i loro generi, stabilendo un’autorialità diffusa, prendendo in esame temi tra loro concatenati: dalla morte della psicanalisi alle politiche; dalla letteratura anglo americana al rapporto virtuale/reale.
Dimostrano che non si lavora mai insieme, ma sempre nel mezzo. Realizzando questa particolare forma di molteplicità fanno politica, negoziando con le proprie posizioni di partenza. In tal modo i concetti danno vita a nuove correlazioni che oltrepassano i soggetti.
Non si tratta di emulare il cut-up di Burroughs, ma di produrre un pick-up: «niente tagli, piegature e ribaltamenti, ma moltiplicazioni, secondo dimensioni crescenti». Se il procedimento per domande e risposte alimenta il binarismo, il pick-up rovescia il sentiero pieno di potere maggioritario.
«Un giorno il secolo sarà deleuziano» disse Michel Foucault negli anni ’70. Forse quel giorno è arrivato. Gilles Deleuze, definito a torto un nietzschiano di sinistra, non riuscì in vita a far comprendere il suo pensiero politico. Oggi il suo modo di intendere risulta dalle evidenze, in sua assenza e suo malgrado. Da vivo fu un punto di riferimento amato e odiato. Celebre la sua collaborazione con lo psicoanalista e psichiatra Félix Guattari, con il quale scrisse opere che segnarono una svolta come L'Anti-Edipo, nel 1972 e Mille piani, nel 1980, sottotitolate entrambe Capitalismo e schizofrenia.
Meno nota la collaborazione con l’allieva Claire Parnet, non soltanto in Conversazioni ma anche in L'abecedario, film-intervista per la regia di Pierre André Boutang, articolato per concetti, dalla "a" di animale alla "z" di zigzag: se vogliamo la prima forma di filosofia pop-mediatica della storia contemporanea. Grazie a queste prove a quattro mani, si sono diffusi termini che hanno rigenerato i movimenti anti-establishment come: rizoma, pensiero nomade e periferico del “sì” contrapposto al pensiero dialettico hegeliano-marxista del “no”; macchina desiderante, concetto che critica la psicanalisi dando un volto nuovo alla dimensione non colpevole del desiderio; pop-filosofia, un modo di far proprio un concetto come accade per suoni e immagini, in funzione delle intensità che bucano o falliscono (oggi si direbbe: parole chiave che producono sentiment) perché «il modo giusto di leggere un libro oggi, è quello di porsi di fronte a esso così come si ascolta un disco, come si guarda un film o una trasmissione televisiva, come si sente una canzone: ogni atteggiamento di fronte a un libro che richieda per lui un rispetto speciale, un’attenzione di altra sorta, è qualcosa che giunge da un’altra epoca e che condanna definitivamente il libro (…) i concetti sono proprio come suoni, colori o immagini, sono delle intensità che vi possono andar bene oppure no, che passano o non passano. Pop’filosofia».
All’università di Vincennes, Deleuze teneva lezioni a un pubblico eterogeneo, proveniente da tutte le parti del mondo, in alcuni casi ai margini della società. Vi erano anche malati mentali, tossico dipendenti, clochard. Un pubblico felicemente globalizzato o vittima della globalizzazione prima che questo fenomeno divenisse luogo comune collettivamente percepito.
Deleuze oltrepassava il settarismo, la cultura saccente del “so io cosa va bene per il popolo”.
Come dice Rocco Ronchi – in un articolo per vent’anni dalla morte del filosofo – Deleuze era: «filosofo classico senza essere ingenuo o dogmatico, come invece avveniva al vecchiume accademico (…) contestava il relativismo dilagante (…) non credeva al negativo, al suo primato, alla sua originarietà». Il basso continuo Deleuze-Parnet prosegue sul sentiero tracciato a Vincennes, ribadendo che per comprendere il proprio linguaggio bisognerebbe parlarlo da stranieri: «la gente pensa sempre a un avvenire maggioritario (quando sarò grande, quando avrò il potere). Mentre il problema è quello di un divenire minoritario: non mimare, non fare o imitare il bambino, il folle, la donna, il balbuziente, lo straniero, ma diventare tutto questo, per inventare nuove forze, nuove armi».
Deleuze era uomo di sinistra che non credeva nelle rivoluzioni, ma nel buon senso rispettoso delle singolarità: «Tutti coloro che parlano di rivoluzione credono che essa vada a finir bene; eppure tutte le rivoluzioni vanno a finir male sempre, lo dicevano anche i filosofi francesi nel settecento. Tutte le nazioni hanno avuto la loro rivoluzione e poi la catastrofe. La rivoluzione inglese ha partorito Cromwell. La rivoluzione francese ha partorito Napoleone. La guerra d’indipendenza americana ha partorito Reagan. Se i marxisti credevano nella proletarizzazione universale, gli indipendentisti americani credevano nell’emigrazione universale e nel sogno di una nuova terra capace di produrre uomini nuovi, liberi, non nazionalisti. Oggi l’America è qualcosa di ben diverso e anche la Russia. Eppure il fatto che le rivoluzioni falliscano non ferma la gente» questo affermava in Abecedario, contraltare audiovisivo di Conversazioni.
Deleuze dava ascolto al divenire della contestazione sessantottina con circospezione e spirito critico. Attitudine che serve oggi più di allora per evitare facili ribellismi, radicalismi insensati.
Ma cosa vuol dire essere di sinistra sotto il segno deleuziano? Seguendo il concatenamento abbecedario-conversazioni: «essere di sinistra significa percepire la circonferenza, l’orizzonte, avendo una visione di sintesi del mondo. Pensare dal generale al particolare: il mondo, il continente, l’Europa, la Francia, la via in cui abito ed, infine, io. Essere di sinistra significa avere il senso del limite e sapere di essere minoritari perché, per definizione, nessuno è maggioranza tutti sono minoranza».
Senso del limite (sostenibilità), visione dal generale al particolare (composizione ragionevole di tutti gli interessi particolari, ma in vista di un bene comune), consapevolezza di essere minoritari (tutti noi, ogni giorno, siamo in minoranza, fragili per qualcosa: questioni economiche, politiche, fisiche, religiose, valoriali, sessuali): sono i tre codici di senso che perimetrano una sinistra contemporanea, accettabile da tutti, anche da chi non è di sinistra. Questo pensiero rivive anche nell’ultimo film di Martone, Capri Revolution, motivato da un’urgenza, tipica di tutti gli intellettuali contemporanei che, a partire da Deleuze, hanno perso la bussola e continuano a navigare in cerca di risposte.
Ma se nel film di Martone la protagonista, dopo aver indagato le possibili vie (di libertà, di eguaglianza e di polemos) si imbarca da sola in cerca di nuove risposte, il finale deleuziano è più possibilista: «Quando percepisci l’orizzonte e vai oltre il tempo presente, ti accorgi che certe cose non possono durare. Quando vedi miliardi di persone che vivono nell’ingiustizia assoluta, sai che non bisogna esagerare e non è una questione di generosità, è ben altro! Sai semplicemente che non può durare e che domani potrebbe toccare a me, a mio figlio, al figlio di mio figlio. Si deve avere il senso del limite, il senso della misura. Se si comincia dal limite ecco che si è di sinistra. Si capisce che ci sono problemi da risolvere. In questo modo si cominciano a trovare i concatenamenti mondiali. Essere di sinistra è questione di percezione: percepire che i problemi mondiali sono i problemi del nostro quartiere; che la fame del mondo è più vicina a noi di quanto crediamo. Che se c’è un ingiustizia sociale in un posto, significa che ci sono le condizioni culturali ed economiche perché tale ingiustizia si verifichi anche in un altro posto. Essere di sinistra è, inoltre, un problema di divenire minoritario (…) In ogni democrazia si presuppone che la maggioranza sia costituita prima di tutto da persone che quasi in ogni società sono prevalentemente: uomini, adulti, maschi e urbanizzati. Chi costruisce l’unità di misura detiene la maggioranza. Oggi la maggioranza è maschile, adulta e urbanizzata. Le donne, ad esempio, come intervengono in questa unità di misura maschile? Come una minoranza secondaria nella maggioranza. Dicono la loro, ma sono minoranza di una maggioranza. Mentre se fossero la maggioranza sarebbero gli uomini ad essere la minoranza di una maggioranza. Ma alla fin fine la maggioranza cos’è? La maggioranza non è mai nessuno; è un’unità di misura vuota; non è costituita da singolarità; eppure la vita è singolarità, come il pensiero, la scienza, la filosofia, l’economia. La maggioranza non è niente, perché tutti sono minoranza. Tutti i divenire sono un divenire minoritario. (…) La sinistra è l’insieme dei divenire dei processi minoritari. Perchè per definizione nessuno è maggioranza tutti sono minoranza, in qualcosa in un posto, in un modo di essere. Ognuno è uno; e di fronte agli altri è minoranza. Questo è essere di sinistra: sapere che tutte le persone sono minoranza».
Le conversazioni deleuziane permettono di aprire un campo politico che accolga chiunque esprima un suo sentirsi minoritario, ossia: tutti! Questo è il vero trionfo del molteplice che supera i dualismi. Perché i dualismi implicano scelte successive: sei un bianco o un nero, un uomo o una donna, un ricco o un povero? C’è sempre una macchina binaria che presiede alla distribuzione dei ruoli e fa in modo che tutte le risposte debbano passare attraverso domande preformate, dal momento che le domande sono già formulate sulla base delle risposte probabili, secondo delle significazioni dominanti.
Rovesciando questa prospettiva, la politica e il pensiero oltrepassano la dialettica dittatoriale normale/deviante, ripristinando le libere sperimentazioni del molteplice.