L'arte senza arte / L’estetica dei meme

7 Febbraio 2021

Nella scena di apertura dell’episodio IX della terza stagione di X Files (andata in onda per la prima volta in America nel 1995), l’agente Fox Mulder – alias David Duchovny – sempre all’inseguimento di una verità fuggevole e indecidibile, è alle prese con un nastro rubato contenete la “vera” autopsia di un alieno: plausibilità che viene dedotta dal carattere amatoriale del video e dalla conseguente assenza di dettagli perché, si sa, l’esattezza e il dettaglio appartengono alla finzione e, laddove l’eccesso di definizione reca con sé sempre lo spettro di un’adulterazione, l’imperfezione indica l’appartenenza delle cose alla genuinità del mondo sulblunare. 

 

È questo uno dei temi che ricorrono e corrono nel testo di Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte – pubblicato da «Nero» (2020) –, volto a indagare il rapporto tra arte e l’uso delle nuove tecnologie, dove i cosiddetti meme ai quali allude il titolo, sembrano costituire uno degli esiti più fecondi e sintomatici di questo processo grazie alla «relazione profonda che […] intrattengono con le esperienze artistiche». Sul tema sono da citare il saggio di Alessandro Lolli, La guerra dei meme, del 2017 e L’arte senza l’arte di Raffaele Gavarro del 2020 (Maretti editore). In quest’ultimo, lo studioso, pur attribuendo una “modalità meme” all’arte dei nostri giorni per via del «carattere di replica che ha nei confronti del modello visivo digitale», arriva ad esiti talora diametralmente opposti a quelli di Tanni: pluralità di letture che indica tanto l’urgenza di comprendere una realtà digitale in continuo mutamento, quanto la difficoltà di sistematizzarla e afferrarla proprio a causa della sua intrinseca natura effimero/trasformativa e plurale.

 

Nell’epoca moderna, la parola meme (derivante dal sostantivo greco mìmema, che significava sia imitazione che immagine), è stata coniata in ambito scientifico da Richard Dawkins che nel suo Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere umano (1976), ipotizzava l’esistenza di un’entità – il memema, poi abbreviato in “meme” per assonanza al bisillabo “gene” – con la capacità di autoreplicarsi e autodiffondersi per imitazione come il gene ma che, a differenza di quest’ultimo, agisce nella sfera culturale saltando da mente a mente come un virus. Secondo la studiosa, la differenza fondamentale tra la contagiosità biologica e quella memico/culturale risiede nella «volontà creativa e comunicativa degli utenti». Volontà che ricorre nel testo come “parola tic”, insieme al carattere spontaneo di tali pratiche, alla loro essenza amatoriale e alla generale insorgenza di una creatività condivisa, diffusa e libera che, come sostiene Tanni, porta a compimento il sogno delle avanguardie di «vedere i comportamenti artistici finalmente calati nella vita quotidiana».

 

Grazie all’accessibilità garantita dai nuovi mezzi di comunicazione, l’utente ha la possibilità di attingere a un serbatoio pressoché illimitato di immagini e di manipolarle all’infinito mettendo in atto pratiche che, fino a questo momento, erano appannaggio esclusivo della cosiddetta “arte alta”  (détournement, appropriazione, riuso, montaggio, collage, accostamento di materiali eterogenei volti alla produzione di effetti surreali), mandando così definitivamente in crisi i concetti di unicità e originalità artistica e operando una dissacrazione che sembra condurre a una novella proclamazione della sua morte. 

 

 

Interessante confrontare queste posizioni con quelle di Gavarro che, di contro, afferma che l’arte «non è morta né in senso hegeliano né attraverso la sua scomparsa nel nulla baudrillardiano» (poche righe prima aveva infatti citato il saggio del 1996, Il complotto dell’arte, dove il sociologo francese parlava di «una affermazione di originalità, di banalità e di nullità eretta a valore e addirittura a godimento estetico perverso») e, se Tanni tende a sottolineare le analogie tra le pratiche inventate dagli artisti del ‘900 e quelle usate dagli utenti della rete, Gavarro ne dà quasi per scontate le differenze: in un passaggio relativo alla diminuita importanza della tecnica – ma, credo, estendibile oltre questo specifico referente – sostiene infatti che «è facile intuire quante e quali siano le differenze tra l’utilizzo consapevole, da parte di un artista del passato […] e l’utilizzo insciente che ne facciamo tutti noi». Per lo studioso, la “modalità meme” dell’arte d’oggi ha come incunabolo il modello espositivo adottato dai musei che sembra imitare e replicare quello digitale fino a trasformarsi in un «vero e proprio brand». Caratteristica dei meme, aggiunge, è quella di essere «anche una moda, uno stereotipo», ed è in quanto tale che attecchisce nel mondo dell’arte.

 

In effetti, più che un legame con il mondo dell’arte, i meme – e le altre “pratiche creative” che costellano il web – sembrano avere innanzitutto una forte consonanza con i meccanismi della moda tracciati da Georg Simmel in sintonia con il pensiero dialettico adorniano: descritta dal sociologo come «imitazione di un modello dato» che «appaga il bisogno di appoggio sociale» e, contemporaneamente, quello della diversità (e proprio come «un processo che procede per imitazione e differenziazione» vengono descritte da Tanni le pratiche messe in atto dagli utenti), la moda rende possibile «un’obbedienza sociale che è nello stesso tempo differenziazione individuale». Meccanismo dialettico che fa traballare quella pretesa di libertà (e certo sarebbe fin troppo semplice citare Marshall McLuhan per questionare la presunta libertà di un mezzo che è sempre vincolo, elemento condizionante, messaggio ultimo, artefice e figlio della mercificazione e massificazione del capitalismo avanzato) e quel «carattere spontaneo e non codificato» attribuito da Tanni. Particolarmente pertinente un confronto con le analisi adorniane inerenti la “moda” della popular music – la quale «ha presa sulle masse perché consente ad esse quella distrazione […] che solo una forma di intrattenimento che non richiede attenzione può offrire» – dove il processo di imitazione, che ha sempre come presupposto quello di un riconoscimento che la rende appropriabile, ha portato a sua volta – in un moto dialettico/circolare – alla cristallizzazione delle formule e alla loro standardizzazione.

 

Interessante, ad esempio, confrontarlo con quella «modalità particolare di meme artistico» di cui parla Tanni, dove gli utenti modificano le immagini artistiche famose a scopo parodico: è il caso di La creazione di Adamo di Michelangelo, dove è sufficiente il dettaglio dell’incontro degli indici per «rendere l’immagine riconoscibile» e dove, mi sembra, più che operare una dissacrazione dell’immagine artistica – come da lei sostenuto – questo riconoscimento/appropriazione ne implichi la suprema sacralizzazione e codificazione (d’altronde, scriveva Umberto Eco, «il falso si costruisce con ciò che tutti sanno»). Allo stesso modo, anche quel meccanismo di “ripetizione differente” tipico dei meme (che implica «un processo di infinita mutazione» del medesimo in cui l’utente apporta di volta in volta piccole modifiche al “già conosciuto”), costituisce sia la negazione di quell’opera «altamente organizzata» di cui parla Adorno (tanto più riuscita quanto «meno possibilità vi sono di una sostituzione dei singoli dettagli») che la sua obbedienza alle leggi di mercato dove l’oggetto/merce deve simulare il nuovo pur restando sempre lo stesso. 

 

Questa tensione dialettica tra ripetizione e differenza, è la stessa che si trova nel paradosso della pretesa rottura del “senso comune” – «Internet», scrive Tanni, ha moltiplicato le nostre possibilità di venire a contatto col nonsense e di produrlo, favorendo una «forma di resistenza verso una cultura normalizzante» – mediante la produzione e consumo di contenuti “virali” che, proprio perché “virali” (e dunque comuni), ne negano e dissolvono l’eccezionalità. Lo stesso paradosso si può pur riscontrare tra l’uso di internet («luogo della diversità» per eccellenza, scrive Tanni) «come dispositivo di esplorazione identitaria» e costruzione della propria specificità individuale, e la natura intrinsecamente reificante e massificante del mezzo. Ma proprio perché si tratta di un’adesione di massa, l’individuo vi si può mimetizzare e, come dice Simmel, cancellare l’accentuazione del proprio Io individuale, trasformando così questa adesione nel «mezzo consapevole e voluto di riservare la propria sensibilità personale». Ed è forse qui che quell’adorniana volontà di autoillusione, dove «la spontaneità viene consumata nel tremendo sforzo che ogni individuo deve fare per accettare ciò che gli viene imposto», si trasforma in una libertà, tanto illudente quanto necessaria.

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