Speciale

Quante vite ha un freelance

23 Marzo 2015

“Fare il giro delle sette chiese” è un modo di dire che ormai non indica più il pellegrinaggio nei principali luoghi di culto di Roma, una tradizione legata a San Filippo Neri. Come spiegato in modo succinto e chiarissimo anche da Wikipedia: “l’espressione ha assunto nel linguaggio comune una valenza negativa: essa può significare perdere tempo girando senza scopo oppure cercare affannosamente qualcuno che dia ascolto”. Verrebbe da pensare che questa parafrasi di un detto popolare tutto sommato racchiuda in sé il succo dell’esistenza meglio di qualsiasi insegnamento di Pangloss; in realtà descrive quasi perfettamente la dimensione del lavoratore freelance, per lo meno in Italia. L’attività di lavoro indipendente è per certi versi una fatica doppia rispetto a chi ha il posto fisso (una specie che ormai rischia l’estinzione più del quokka, il simpatico mini marsupiale australiano).

 

Il freelancer – spesso associato confusamente con la figura del “consulente”, quasi fosse il titolo di un romanzo di Grisham – deve costantemente “stare sul pezzo”, come si suol dire; la sua agenda deve essere sempre punteggiata da appuntamenti sia con nuovi potenziali clienti sia con quelli di lungo corso con cui collabora già da anni, per non perdere il flusso di lavoro. L’obiettivo è ampliare il numero di contatti oltre ad averne un bel po’ come base di partenza, e di conseguenza la possibilità di accaparrarsi una committenza; così le sette chiese diventano settanta tra aziende, agenzie, privati e via dicendo da cui è possibile ricevere un lavoro. Inutile a dirsi, bisogna prestare attenzione a come ci si presenta per trasmettere serietà e competenza, piegandosi talvolta e con riluttanza al metodo Stanislavskij per assecondare il cliente senza essere costretti a inventare esperienze nel contesto dell’offerta ricevuta (magari solo gonfiandole un po’). In pratica proporsi come freelancer è come ripetere all’infinito un colloquio di lavoro. Ma questo discorso riguarda soltanto l’aspetto più frivolo e di facciata del freelancing, non la scelta di svolgere un’attività in proprio.

 

 

Una delle ragioni per cui sempre più lavoratori si gettano in questo mare magnum professionale può essere la decisione di seguire i propri interessi, per non dire la propria vocazione, quando manca la possibilità di trasformarli in un posto fisso. Per certi versi, il lavoro freelance oggi definisce l’annullamento della barriera tra “passione” e “lavoro” com’era considerato solo prima dell’avvento del web. La proliferazione di blog, e-zine e podcast e siti specializzati come LinkedIn ha reso possibile per milioni di persone creare vaste reti di contatti di lavoro e trasformare ciò che volgarmente definiamo un “hobby” in una professione libera. Ma libera da cosa di preciso? Dagli orari d’ufficio? Da riunioni fiume dove spesso invece di prendere decisioni o discutere costruttivamente ci si limita a sorbire il soliloquio di dirigenti egomaniaci e megalomani? Oppure libera dal senso di competizione tra colleghi, situazioni in cui il mondo post apocalittico de La strada di McCarthy, infestato da cannibali, alla lunga può sembrare una felice utopia?

 

Sarebbe troppo semplice liquidare la decisione di intraprendere un’attività freelance solo per l’insofferenza vagamente snobistica di sentirsi un ingranaggio tra molti altri in un macchinario – il posto di lavoro – che ha bisogno della sinergia tra le sue parti per funzionare senza intoppi. Ambire a una posizione di indipendenza professionale significa anche, forse, ambire a sentirsi più valorizzati, più “speciali” di un dipendente fisso; o comunque sentirsi abbastanza sicuri di sé per usare la propria voce invece di unirsi a un coro. La scelta di ricorrere alla libera professione oggi può essere forzata, considerata la spirale della crisi che sembra non avere fine, nonostante la sicumera quasi littoria con cui i nostri politici sfoggiano ottimismo su ripresa e occupazione; anche se chi sceglie di diventare freelance lo fa più che altro per ragioni di indole. È semplicemente un altro modo di lavorare: non essere costretti a rispettare orari d’ufficio e disporre del proprio tempo più liberamente non significa avere meno voglia di mettersi in gioco con gli altri o di sgobbare, anzi. È un’altra dimensione, ed è difficile da spiegare a chi invece si sente accudito e protetto all’interno di una struttura professionale più gerarchizzata.

 

Deriva da un’ostilità endemica per il concetto di “grande famiglia”, quel senso di appartenenza che imprime ai lavoratori dipendenti un plurale maiestatis quasi obbligatorio quando si riferiscono al proprio posto di lavoro; forse è proprio quel “noi facciamo”, riferito a un sistema produttivo che coinvolge migliaia di individui, a solleticare il prurito della fuga a chi non vuole sentirsi parte di una “grande famiglia”, ma semplicemente intende svolgere una professione in modo autonomo. Non che i freelancers siano spiriti liberi che decidono come meglio occupare la propria giornata; in realtà è un esercizio di disciplina. Il pianista jazz Duke Ellington diceva, riferendosi al proprio mestiere di compositore, che non gli serviva tempo ma una scadenza precisa di consegna. È questa la sintesi del lavoro freelance: avere una data che è un obiettivo da rispettare e raggiungere.

 

Spesso chi decide di dedicarsi all’attività freelance ha un passato in azienda, ed è sicuramente una palestra fondamentale per comprendere le relazioni di lavoro, prendere dimestichezza con una professione e imparare a lavorare in squadra. Altrimenti è come pensare di fare il soldato di carriera senza sottoporsi all’addestramento. In fondo il freelancer svolge un lavoro per conto di un committente, e sebbene sia un’attività solitaria è sempre parte integrante di un organismo più articolato e vasto. In genere, un freelancer è un professionista abituato ai propri ritmi di lavoro, consapevole delle proprie tempistiche e poco incline a lasciarsi assoggettare a quelle imposte dall’azienda seduto a una scrivania. Gli svantaggi certo sono tanti. Banalmente, a volte si lavora molto e ci sono mesi in cui dal portafoglio esce solo uno sciame di tarme. La pensione? Lasciamo stare. Quando un lavoratore autonomo legge sul giornale che i giovani dipendenti fissi di oggi riceveranno una pensione di 400-500 euro a fine attività, non può che convincersi della bontà della propria decisione di rischiare. Perché è di questo che si tratta: il lavoro indipendente è sempre un rischio, si fonda sulla propria capacità di imporsi in proprio, come un soggetto indipendente, in controtendenza con la smania di essere sempre più parte di una comunità, di essere sempre più social anche da un punto di vista professionale. Non ci riferiamo qui alle società di persone, ai liberi professionisti che si aggregano per far fronte a una difficile situazione occupazionale, ma al singolo lavoratore che decide di giocare le proprie carte, barattando uno stipendio mensile assicurato e continuativo con collaborazioni a tempo determinato (spesso determinato dai capricci dei datori di lavoro del momento), e in particolare nel campo della creatività.

 

Si sente sempre più spesso parlare di professionisti delusi – non necessariamente sconfitti – che “cambiano vita” e riciclano la propria competenza in altri settori, e spesso chi abbandona o è costretto a lasciare una carriera in azienda, dopo avere mosso i primi passi nel mondo del freelancing non tornerebbe più indietro. È comunque un mondo dalle certezze friabili, in cui gran parte dei contatti di lavoro si concludono in promesse e aperture che infine non si realizzano o lo fanno in minima parte, e in cui è impensabile smettere di guardarsi intorno e cercare nuove strade e possibilità. È facile lasciarsi demoralizzare da un sistema lavoro che si basa su pagamenti retribuiti con ritardi inaccettabili – se vengono retribuiti, ma questo è un altro discorso. Quando penso alla mia attività di libero professionista mi viene in mente un videogame di Chris Roberts del 2003, Freelancer (guarda caso): un simulatore spaziale in cui si vestono i panni di un avventuriero che deve arrabattarsi da vivere accettando missioni di ogni genere da corporazioni commerciali in una vasta galassia (quella del lavoro?), con lo scopo di debellare una non meglio imprecisata minaccia aliena (Equitalia?) e nel frattempo potenziare la propria nave per affrontare i nuovi pericoli della sua attività di lavoratore autonomo. A differenza della realtà, però, gli incarichi svolti con successo e professionalità vengono pagati subito. E poi dicono che i videogiochi sono baggianate.

 

Massimo Gardella è scrittore e traduttore di saggi e romanzi per diversi editori italiani. Chi muore prima il suo ultimo libro, pubblicato da Guanda.

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