Selfie, voyeur e desiderio di esistenza

13 Novembre 2014

31 agosto 2014. Con un'operazione di hacking fuori dall'ordinario, numerosi account internet privati vengono violati e i dati sensibili in essi conservati vengono pubblicati online. Si tratta di spazi virtuali appartenenti a celebrità del mondo dello spettacolo e, nello specifico, quelli che vengono diffusi sono i contenuti degli archivi fotografici. In un battito di ciglia, per chiunque abbia una connessione, diventano visibili numerosissime fotografie; per la maggior parte si tratta di autoscatti. Selfies. Autoscatti in cui i soggetti – per la maggior parte femminili – si ritraevano interamente o parzialmente spogliati. Nudes.

 

Come spesso accade negli ambienti popolari le cui regole di branco permettono di ignorare quelle del politically correct (moltissimi siti internet ne sono un esempio, come lo sanno essere le grandi compagnie giovanili o i gruppi del tifo sportivo organizzato), alcuni utenti, di fronte alle foto appena scoperte, sfoderano in un lampo un’ironia sferzante che si sintetizza in un’espressione cruda quanto efficace, al punto da farsi eleggere all’istante come nome identificativo del fenomeno: The Fappening, una fusione lessicale tra the happening, “l’evento”, e to fap, verbo che in gergo sta per “masturbarsi”. Con un titolo certamente lontano dall’essere elegante, l’associazione cameratesca vuole intendere, quindi, che la pubblicazione non autorizzata di ritratti senza veli di donne celebri incontrerà l’eccitazione sessuale del pubblico realizzando un’attesa, quella di un tempo che si compie, quella dell’evento, appunto.

 

Le cronache e le opinioni, nei giorni successivi, si sono rincorse nei tentativi di individuare i colpevoli (oltre, ovviamente, agli hacker sono stati accusati i responsabili di Apple, dal momento che gli account violati appartenevano tutti al celebre servizio iCloud, fornito dalla casa della mela morsicata) e, soprattutto, di trarre un insegnamento morale dalla vicenda. Si sono opposti – ci sia concesso di indulgere in una semplificazione – due essenziali giudizi: da una parte la condanna senza se e senza ma nei confronti di un’invasione della privacy crudele e violenta; dall’altra la considerazione che, se quelle foto non fossero state caricate su uno spazio online o, anche meglio, se non fossero state scattate, non sarebbe stato possibile trafugarle e tantomeno pubblicarle.

 

Ellen Degeneres, selfie notte degli Oscar 2014

Ellen Degeneres, selfie notte degli Oscar 2014

 

L’impressione, per la verità, è che tutte le valutazioni mediatiche occorse abbiano mancato qualcosa di fondamentale, dell’accaduto. La seconda opinione citata, tuttavia, sembra offrire un aggancio a una riflessione ulteriore, a patto di ignorarne l’assunto principale che è indubbiamente di straordinaria ottusità («se ti esercito violenza la colpa è tua che me ne hai dato l’opportunità»). C’è qualcosa, nell’esistenza stessa di quelle fotografie prima ancora che nell’atto clandestino che di quell’esistenza mette a conoscenza il mondo, che racconta di come il dominio del visivo, ossia del visto e del vedente, abbia subito o stia subendo uno stravolgimento. Si tratta di una modificazione le cui derive sono logicamente imprevedibili, proprio nel senso che il linguaggio che le influenza, tratteggia e produce non è probabilmente, e certamente non soltanto, quello del logos. Sono le immagini stesse, nella roboante evidenza con cui possono venire alla luce, nel loro sempre più fulmineo incedere, a comporre questo linguaggio di cui occorre porsi in ascolto e della cui voce “altra” sembra un’espressione anche The Fappening. Tentiamo di procedere con ordine.

 

Gli oggetti e i soggetti che compongono qui la scena del delitto tratteggiano un orizzonte simbolico che sarebbe probabilmente piaciuto a Roland Barthes per le sue Mythologies, i Miti d’oggi. Abbiamo i selfie, l’evoluzione dell’autoritratto e dell’autoscatto, abbiamo gli smartphone, strumenti principe dell’accelerazione e della diffusione massiva di quella stessa evoluzione, e abbiamo i vip del cinema e dello star system, paradigmi di bellezza, stile, successo.

 

 

A proposito dei selfie è certamente vero quanto scrive Tiziano Bonini «Quando scattiamo un selfie stiamo affermando questo diritto ad avere anche noi un’immagine che ci rappresenti, senza più un mediatore (un fotografo) che decide chi è giusto fotografare e chi non ha niente da offrire alla macchina fotografica. In questo senso, il selfie è un’altra tappa del noto processo della disintermediazione operata dai nuovi media».

Tuttavia, interrogando i maggiori frequentatori del selfie come fenomeno estetico, vale a dire ragazzi e soprattutto ragazze tendenzialmente inferiori ai venticinque anni, si ottiene spesso la sensazione che una delle loro ragioni principali per cui si approfitta dell’opportunità di ritrarsi, spesso poco vestiti e molto graziosi, è suggerita da un’essenziale caratteristica del secondo dei nostri oggetti: gli smartphone differiscono dalla macchina fotografica generica per la possibilità che offrono di pubblicare immediatamente il selfie appena catturato. In altre parole, i (non più) nuovi media dispongono lo scatto fotografico e la sua pubblicazione nello stesso posto, nello stesso luogo temporale; la venuta alla luce della foto riuscita, vien da dire “ideale”, è già presentarsi agli spettatori, è già sempre entrata in scena. Così, il bel selfie, la bella immagine di sé costruita da sé, si accompagna istantaneamente al desiderio di raccogliere l’apprezzamento, il like, il commento ammirato. Se descrivere il selfie secondo il criterio narcisistico è insufficiente, è forse perché non si può ignorare l’intimo sentimento di insicurezza che porta alla ricerca di conforto, di conferma, di un’unanime dichiarazione di bellezza.

 

Costruire l’immagine di sé, ambizione di cui il selfie si prende carico, passa allora attraverso il riconoscimento da parte degli altri, e più sono meglio è, che si tratta di un’immagine bella, di una costruzione ben riuscita. Per la giovane e affascinante star, però, il rapporto con l’immagine, il modo di vedersi e quindi di vedere, comporta un altro elemento che probabilmente si può sintetizzare con la carica simbolica del concetto di modello. Tutte le ragazze vittime del furto di foto sono molto famose, molto amate dal pubblico, attraenti e invidiate, desiderate e imitate. Il mondo dello spettacolo diffonde le loro immagini perfette e ne fa modelli di bellezza, alimentandosi di quella stessa diffusione: il pubblico adora quelle immagini, prodotte dai migliori fotografi, con le migliori tecniche, sui migliori set. E, quello stesso pubblico, ambisce alla visione di altre immagini, delle foto private, vuole l’accesso voyeuristico. I selfie del Fappening sono così intriganti per la metafora che costituiscono del buco della serratura. Un buco della serratura solo mio, e pure di tutti.

 

Jennifer LawrenceJennifer Lawrence

 

La nudità in se stessa, del resto, non può spiegare quanto scalpore abbia generato l’evento; è persino banale sottolineare che è il fatto che le foto trafugate appartengano a delle celebrità a costituirne le fondamenta e, d’altro canto, recuperare online della nudità anche molto più esplicita è oltremodo facile, assai più che reperire quelle stesse foto, dato l’incalcolabile numero di siti pornografici esistenti, ognuno dall’archivio sconfinato. Ecco allora, in un rovesciamento che è solo di verso ma non di senso, una comunanza tra il selfie dell’adolescente che desidera quell’approvazione che, si badi, è già certo di ricevere da Instagram o Facebook (ha troppa esperienza dei media in questione per non esserlo) e quello scattato dalla celebrità ultra-rappresentata che, pure, vuole costellare il suo privato di cristalli autoprodotti. Entrambe le situazioni non raccontano tanto, o soltanto, di un narcisismo incoraggiato dall’opportunità quanto, piuttosto, di quel buco della serratura, dello sguardo voyeur modellato dai “nuovi” media. Quelle fotografie esistono, per dirla con una sintesi solo apparentemente scontata, perché qualcuno le veda. Non c’è vedere senza essere visti.

 

Quel linguaggio scoordinato e rumoroso che, pure, non possiamo che tentare di disporci ad ascoltare sembra sussurrarci, allora, di un intimo desiderio che quelle foto esistano; che quella realtà sia conservata, da qualche parte in uno spazio e in un tempo che si fermano senza fermarsi. Sembra gridarci del bisogno che l’immagine di sé, così celebrata, rompa i confini del tempo, ne spezzi l’angosciante scorrimento, tuffandosi in un altro tempo che si riavvolgerà su stesso, riportandoci sempre e ancora lì, sulla fotografia, su quel selfie. Vedersi, certo, per rivedersi, e per essere rivisti. Jennifer Lawrence, una delle attrici più celebri tra quelle colpite dal leak di foto, intervistata sull’accaduto, non si è soffermata a lungo sulle ragioni per cui avesse scattato quei selfie, insistendo invece sul fatto che non si sentiva affatto in colpa né in dovere di scusarsi, come da più parti le veniva chiesto, in virtù di chissà quale responsabilità morale di fronte al suo pubblico. Ha scattato quelle foto perché esistessero.

 

Quelle fotografie esistono e, come ogni selfie, la pulsione alla loro esistenza «malgrado tutto» prevale: sulla questione morale del narcisismo con cui frettolosamente le si giudica e, ancor più interessante, sul pudore della raffigurazione di sé. Il semplice ma non banale fatto che le fotografie premano per esistere, ecco, non smette di modificarsi nei modi e nei tempi, e non smette di modificare il nostro sguardo.

 

In occasione di Bookcity:

 

SELFIE, AUTOSCATTO E AUTORITRATTO

Con Ferdinando Scianna, Marco Belpoliti, Stefano Chiodi

16 novembre, ore 14.00 presso il Circolo Filogico, Via Clerici 10

 

Leggi anche:

Tiziano Bonini, Scianna e la fragilità esistenziale del selfie

Tiziano Bonini, Dall'autoritratto al Selfie

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