Austen mania

10 Febbraio 2015

Effetto dell’Austenmania, ovvero di quel fenomeno in perenne evoluzione che discende dal culto di Jane Austen e dei suoi romanzi, Longbourn House è una delle sue manifestazioni più compiute. Oltre ai sequel di Orgoglio e pregiudizio o di Ragione e sentimento che hanno avuto un buon esito di mercato, sono uscite le serie con Elizabeth Bennet, protagonista assoluta sempre in rotta con il tenebroso Mr. Darcy. E ancora, a puntate, le avventure di Jane Austen investigatrice, fino alle saghe vampiresche con tanto di sorelle Bennet in veste di combattenti ninja.

 

Austen non è più Austen ormai, ma un marchio di fabbrica, un brand buono per tutte le occasioni da puntare al risvolto del cappotto come la sua immagine dipinta in ovali di legno venduti alle bancarelle. Jo Baker non può che calcare la medesima vague ma l’operazione ha qualche cosa in più del bieco sfruttamento. Ben consapevole di certo manierismo di grande successo, come quello ottenuto dal Petalo cremisi, Baker costruisce una storia dietro le quinte con tutti i crismi del romanzo storico postmoderno. Immaginando la vita parallela della servitù di casa Bennet in Orgoglio e pregiudizio, cuce una vicenda che a tratti si spalanca su quella immaginaria di Jane Austen. E allora un ballo, un invito, l’arrivo di un ospite o la partenza per villeggiatura sono tutte occasioni per andare a guardare che cosa succede nei piani bassi di Longbourn House, dove la vita, pur tra mille sofferenze, è altrettanto palpitante.

 

Baker conosce, quasi con pedanteria filologica, tutti i segreti dell’igiene di epoca Tudor, ne racconta le procedure, le difficoltà di esecuzione; è ben attrezzata per descrivere l’economia domestica di allora: il guardaroba, la cucina, i riti cui è dedicato l’intero corpo della servitù. E ancora, dentro a questa cornice d’inesausto lavoro, ecco profilarsi una storia minima, che fa da contraltare a quella nobile tra Elizabeth e Darcy, l’amore tra l’esile cameriera Sarah e l’asciutto ex soldato James. Il loro amore clandestino è infatti una seconda pista interpretativa che va ad intrecciarsi, tra alti e bassi, con l’esito felice del celebre romanzo. C’è chi, all’uscita del lavoro di Jo Baker, ha voluto richiamare Gosford Park di Robert Altman. Là si assiste a un vero e proprio corpo a corpo tra classi, qui invece troviamo una quieta accondiscendenza, una sorta di possibile convivenza affettuosa tra due mondi non comunicanti. Perché Jo Baker gioca con la sua passione per Austen, punzecchiando appena un po’ le sue eroine. Sarah, in fondo, è grata a Elizabeth per il bel vestito di mussola che le ha regalato e raschiare dal fango per la centesima volta gli stivaletti di cuoio di buona foggia non è poi un’incombenza tanto gravosa.

 

Jo Baker, Longbourn House, trad. dall’inglese di Giulia Boringhieri, pp. 373, euro18,00, Einaudi, Torino 2014

 

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