Benvenuti a Celestia / Intervista a Manuele Fior
Un ragazzo si aggira per i vicoli di una città scura, dove solo ogni tanto si intravede uno spicchio di cielo stellato. Ha una lacrima disegnata sul viso, porta una sorta di scialle e un cappello a cono, i suoi mocassini calpestano un pavimento ricoperto da uno strato di acqua. “E adesso?”, chiede a una presenza invisibile, che lo sta in qualche modo guidando. “Adesso chiudi gli occhi”, è la risposta che echeggia su una vignetta interamente nera. Noi voltiamo pagina, c’è un’altra vignetta nera e la voce dice: “E adesso riaprili”. Entriamo così, con un meccanismo tipico del fumetto, dentro Celestia, il nuovo libro di Manuele Fior. “È il fumetto più fumetto che ho fatto”, mi dice subito appena iniziamo questa intervista. “Ho cercato proprio di fare tutto quello che si può fare con i fumetti e che non si può fare con altri mezzi di espressione, o che comunque è più difficile fare con altri mezzi, più dispendioso, più laborioso. Invece con il fumetto… Little Nemo [Il personaggio creato da Winsor McCay nel 1911, NdR] per esempio inizia subito, la prima vignetta è già in Slumberland, nella terra dei sogni. Volevo sfruttare queste potenzialità”.
Manuele Fior è tra gli autori che negli ultimi anni hanno portato nuova linfa al fumetto italiano ed europeo. Nel 2011, con Cinquemila chilometri al secondo, ha vinto il Fauve d’Or – il premio come miglior libro – al Festival di Angoulême, la più importante manifestazione europea dedicata al fumetto. Dall’acquerello è passato al bianco e nero diL’intervista (2013) e da alcuni anni la tempera è diventata la sua tecnica d’elezione, sperimentata in molte illustrazioni e inLe variazioni d’Orsay (2015), racconto ambientato nelle stanze del Musée d’Orsay di Parigi. Nelle sue storie, da sempre intime ed estremamente delicate, man mano si è fatto largo il fantastico. Come in Celestia, ambientato in una città che sembra Venezia ma non lo è (si chiama Celestia, appunto) e in un tempo che potrebbe essere un futuro prossimo o una dimensione parallela. Pubblicato in due parti da Oblomov Edizioni (la prima è appena uscita, la seconda la vedremo nei primi mesi del 2020), Celestia è soprattutto il libro in cui entrambi i percorsi di Fior – quello stilistico e quello narrativo – vivono un nuovo stadio della loro evoluzione.
Disegnare un personaggio
Prima ancora che un autore apprezzato e un illustratore amatissimo, Manuele Fior è un lettore e un appassionato di fumetti, così ogni suo lavoro è anche frutto di un ragionamento sulle possibilità del fumetto come mezzo di espressione e sulle direzioni che può prendere. In Celestia infatti succede qualcosa che non si vedeva da un po’ nel panorama del fumetto italiano, o almeno in un certo tipo di fumetto. Ritroviamo infatti il personaggio di Dora, la stessa protagonista de L’intervista. “Il tipo di fumetti che ho iniziato a fare io, quello che viene chiamato graphic novel, si distingueva all’inizio dal fumetto seriale e quindi anche dal fumetto di personaggi. Si cercava di fare fumetti che potessero essere letti senza bisogno di conoscere i personaggi, anche da completi neofiti. Questa strada è stata molto sperimentata, anche in Italia il formato graphic novel si è imposto, e i personaggi sono stati non dico snobbati, ma magari messi da parte. Si sono fatte altre cose, per esempio tantissima autobiografia, tanto giornalismo a fumetti… Questo ha come dire pulito il campo, ha portato aria nuova, e adesso si può riguardare alle cose precedenti, che sono poi i fumetti che personalmente mi hanno fatto pensare di voler fare questo lavoro. Io sono sempre stato un lettore di fumetti seriali, americani, italiani, tipo Valentina, Corto Maltese… adesso ci sono le condizioni per pensare di reinterpretarli. È il momento in cui si ricomincia a capire cosa vuol dire, per esempio, portare avanti un personaggio nel tempo".
Mentre in L’intervista Dora è una ragazza in contatto con gli extraterrestri, in Celestia è parte di un gruppo di telepati, dal quale fugge perché non riesce più a tenere sotto controllo i suoi poteri. L’intervista inoltre è ambientato in un futuro prossimo (il 2048), mentre non sappiamo se il mondo di Celestia sia un futuro indefinito o una realtà parallela… in altre parole ci troviamo di fronte allo stesso personaggio ma (forse) in due mondi completamente diversi. “Non mi interessava dare un’idea di consequenzialità, chiaramente questo libro non è il seguito di L’intervista. A me piacerebbe portare avanti un discorso su un personaggio, più che un susseguirsi di avventure una dopo l’altra, mi piacerebbe esplorare diversi aspetti della sua personalità, magari anche incoerenti. Ad esempio sarebbe bellissimo fare un fumetto sul sogno di un personaggio o su una fase della sua vita che non ha nulla a che vedere con quella precedente, come del resto succede alla vita di noi tutti, non viviamo in una continuity”. La continuity è il termine con cui si descrive l’organizzazione temporale dell’universo dei supereroi Marvel (Spider Man, gli X-Men): le loro avventure si svolgono in un unico mondo e seguono anche un rigoroso ordine cronologico. Ma Dora non è una super eroina: “Non ho voluto collocare la sua storia in un contesto temporale ben definito, però c’è la comodità di avere lo stesso personaggio nelle mani, e questo soprattutto nel disegno non è poco, perché disegnare un personaggio vuol dire conoscerlo”.
Il ragazzo che si aggira nei vicoli all’inizio di Celestia si chiama invece Pierrot. Con lui Fior sembra portare ancora un po’ più in là il lavoro sui personaggi. Di Pierrot, anche alla fine di questa prima parte, sappiamo poco, quel poco che l’autore ci ha suggerito quasi di sfuggita nel corso della vicenda: Pierrot si disegna sul viso ogni mattina una lacrima, baratta cibo in cambio di libri e soprattutto ha un rapporto difficile con il padre, il dottor Vivaldi, che ha radunato attorno a sé un gruppo di ragazzi con poteri telepatici. Pierrot però non vuole saperne dei progetti del genitore. “Chiaramente questo gruppo di telepati, questo professore, ricordano qualcosa… Igort [fondatore ed editor di Oblomov Edizioni, oltre che uno dei nomi più importanti del fumetto italiano, NdR] me lo ha detto subito: ‘Ma chi è questo professore? Xavier?’. Io ho cominciato a leggere massicciamente i fumetti con i fumetti americani, con i supereroi, e Celestia ha un grande debito con gli X-Men. Il fatto è che l’idea alla base degli X-Men è talmente bella che ho deciso di prenderla anche io, coscientemente, e poi farne qualcosa di diverso”.
Il confronto-scontro tra adulti e ragazzi è un tema ricorrente nei lavori di Manuele Fior: “Mi interessa molto il dialogo tra generazioni, in L’intervista c’era l’idea di mettere a confronto due persone di età diversa, che hanno delle proiezioni sul futuro molto diverse e utilizzando questo escamotage del futuro prossimo immaginare cosa poteva essere una generazione dopo la nostra, anche su qualcosa di molto intimo come i sentimenti, che cambiano molto a secondo dell’epoca in cui vivi”. In Celestia si va ancora più nel dettaglio, nel rapporto tra genitori e figli. “Cercare dei genitori per i personaggi è una cosa secondo me basilare, perché dà loro spessore. Ma quando ho cominciato il fumetto non sapevo che il dottor Vivaldi fosse il padre di Pierrot, poi l’ho capito, per cui sono dovuto tornare indietro, cambiare alcuni dialoghi, cambiare alcune sequenze e soprattutto l’ho messo in chiaro dal loro primo incontro. Io capisco le cose ogni tanto a metà strada, ogni tanto alla fine… non era stato preventivato che fosse un fumetto sulla relazione tra un padre e un figlio”.
“Pierrot era nato come un personaggio che doveva soltanto introdurre, proprio solo aprire la porta ed entrare dentro la casa di questo signore veneziano (che poi è diventato il dottor Vivaldi). Mi piaceva però che avesse questa tigna insopportabile, che fosse un po’ punk ma anche intelligentissimo (io sono un grande fan di Johnny Rotten). Già dalle primissime battute, disegnandole, ho capito che aveva una potenzialità e mi comunicava cose intense. E Pierrot è diventato quasi il protagonista della storia. In L’intervista è la stessa cosa, all’inizio Dora non esisteva neanche, la storia era basata su una coppia di mezza età in crisi (Raniero e Nadia), e poi al primo incontro con Dora – che aveva questo nasone, questa maniera particolare di comportarsi – ho capito che aveva delle potenzialità. La stessa cosa è stata per Pierrot. Questo è il grandissimo privilegio del fumetto, fare un casting in cui a un certo punto decidi che una comparsa diventa il tuo attore principale. Sono cose che si possono e che si devono fare nei fumetti”.
“Ho bisogno delle immagini per capire"
Un ideale manuale di teoria e tecnica del fumetto prevedrebbe questo: scrivere un soggetto, preparare lo storyboard, disegnare le matite, poi aggiungere le chine e/o il colore. Ma quando Fior spiega come sono nati e cresciuti i suoi personaggi si capisce che il suo modo di lavorare non è questo. “Io improvviso, improvviso molto, nel senso che non c’è lo storyboard, per cui i personaggi, la loro personalità, il loro carattere, sono cose che scopro insieme a loro e che sorprendono me per primo, le ho scoperte durante il libro”. Come lavora allora Manuele Fior? “È un processo in cui dapprima incamero molti stimoli – da quello che sto leggendo, da quello che sto disegnando – e poi sento come un click e mi dico ‘Va bene, adesso inizio’. Il fatto è che non sopporto di pensare senza immagini. Mi è capitato di lavorare col cinema, di avere a che fare con degli sceneggiatori: per me è un lavoro sfibrante parlare in continuazione, leggere cose scritte… io ho bisogno delle immagini per capire, può bastare anche una sola immagine per capire tante cose della storia. L’immagine in questo senso è un supporto: innanzitutto ti dà la differenza tra quello che pensi e quello che riesci a fare. Magari hai un’idea molto bella e poi vedi che i tuoi mezzi ti portano fino a un certo punto, e devi scendere a patti con questo. E poi l’immagine mi dà tante idee, non riuscirei mai a lavorare a una storia in astratto. Quando avrò finito la seconda parte di Celestia saranno passati cinque anni dalla prima pagina di questo libro. L’idea di mettermi a disegnare per cinque anni una cosa che ho pensato già prima è insostenibile, sarebbe di una noia mortale. E so che se ho un effetto sorpresa su di me questo sorprenderà anche chi legge, e questa è la cosa più importante”.
Nel caso di Celestia una sicura fonte di immagini è stata Venezia, che però nel fumetto ritroviamo sotto una veste diversa dalla città che conosciamo, si chiama infatti Celestia e ha una storia particolare. “L’interesse per Venezia a un certo punto è diventato imprescindibile, perché ci ho vissuto, perché ci sono ritornato, perché stavo leggendo tante cose su Venezia… succede così, quando sento di essere pieno fino al colmo incomincio con la prima pagina, che è definitiva, è quella che si vede nel libro. E vado avanti senza storyboard. Questo vuol dire che all’inizio la storia può andare in tante direzioni e poi quando arrivi a pagina 50, 100, devi cominciare a capire dove atterrerai. Però nemmeno lì procedo con lo storyboard. Se ho dato il via a tre o quattro tracce narrative cerco di chiudere quelle e di non farne nascere altre, di sfrondare. Però tutto è assolutamente improvvisato”.
Una Venezia non bianca
“Quando Hitchcock ha trovato la casa di Psycho aveva già trovato il 50% del film. Vale anche per l’hotel di Shining, in alcuni casi i luoghi diventano personaggi alla pari degli altri. A un certo punto ho capito che Venezia era il setting giusto per questo libro. Anche se ignoro completamente la trama, il luogo dove succedono le cose dev’essere sempre molto preciso nella mia testa, anche se non è citato. È stato così per L’intervista, per Cinquemila chilometri al secondo, anche per La signorina Else che è un adattamento [dall’omonima novella di Arthur Schintzler, NdR] ma mi interessava tantissimo il grand hotel, la villeggiatura in montagna dei ricchi”. A Venezia Manuele Fior ci è vissuto, ha studiato lì Architettura, poi ha passato alcuni anni in giro per l’Europa e non solo, prima di stabilirsi a Parigi. “Siccome mi sono trasferito tantissime volte in vita mia, fa parte del mio carattere avere sempre una grande nostalgia dei luoghi, che idealizza molto il passato, i posti, le amicizie… volevo rioccuparmi di Venezia, ci sono certi ricordi personali che rientrano nella storia, chiaramente deformati”.
Come si affronta però una città che è stata così tanto raccontata? “È una città che è stata guardata da tantissimi punti di vista, da tutte le arti, anche da tantissimi fumettisti, Moebius ha fatto Venezia celeste, c’è un carnet bellissimo di Lorenzo Mattotti, Scavando nell’acqua. Se avessi pensato di fare qualcosa di diverso dagli altri non ci sarei mai riuscito, anche perché ho un pochino di tutte queste cose che ho visto, ma per me la scelta di concentrarmi su Venezia non era una questione estetica, era strutturale al racconto: mi interessava il suo isolamento, nel fumetto diventa come una specie di piccola Cuba, un posto isolato dove vige per esempio il baratto”. Celestia sembra essere un luogo dove convivono diversi aspetti e diverse epoche della Venezia reale. Fior cita Le pietre di Venezia di John Ruskin come uno degli stimoli più interessanti per lui: “È una bellissima descrizione di quella che poteva essere la Venezia pre-rinascimentale, cioè la Venezia bizantina, molto scura, molto non bianca come invece è diventata dopo il Rinascimento, col Ponte di Rialto e Piazza San Marco. Questa Venezia che brilla nella notte, i mosaici, l’oro, sono tutte cose che volevo riportare per dare il via a questa storia”. Ma non è l’unica Venezia a cui si è ispirato. "Pensa che nel Settecento il Carnevale non si fermava al momento del Carnevale, anzi c’erano stati un sacco di editti per poterlo limitare, il fatto che questo posto fosse così isolato permetteva alle persone di comportarsi in una maniera anarchica, la festa non aveva quasi mai fine. Ed era una festa pericolosa, ci sono innumerevoli decreti che tentano di contenere la violenza durante il Carnevale, proibiscono di portare le armi, proibiscono la prostituzione”.
Alla Venezia raccontata da altri pian piano Manuele Fior sostituisce la sua personale Venezia/Celestia, in un processo che come sempre parte dal disegno. “Mi interessa che questa Venezia sia credibile, sentita, non mi interessa però che sia realistica. Più vado avanti nel libro – adesso sono alle ultime pagine – più questa Venezia/Celestia si trasforma. La soddisfazione per me è arrivare alla fine del lavoro e disegnare Venezia inventandomela, inventando degli scorci che non esistono ma che sembrano sempre Venezia. Vuol dire che ti sei appropriato del lessico e ti puoi permettere di rimodellarlo, di parlarlo in maniera realistica”. Nella Venezia inventata di Manuele Fior ci sono anche edifici realmente progettati ma che non hanno mai visto la luce. “Nel libro ci sono – come succede spesso nelle mie storie – un po’ di capricci piranesiani, cioè edifici che esistono ma sono nel posto sbagliato, edifici che non sono mai esistiti ma sono stati progettati. C’è il progetto di Le Corbusier per l’ospedale di Venezia che non è mai stato costruito (per fortuna, tra virgolette) e poi c’è la sede dove abita uno dei personaggi, il dottor Vivaldi, che è un edificio progettato da Frank Lloyd Wright per il Masieri Memorial sul Canal Grande: anche questo non è mai stato costruito ed è una grande occasione mancata per Venezia. Sono cose che danno consistenza dello scenario in cui ti muovi, io ho studiato Architettura, mi piace ancora tanto leggere e occuparmi di architettura e per me era imprescindibile passare dalle idee che hanno avuto dei grandissimi visionari per Venezia”. Non è necessario cogliere i riferimenti, però, “anzi è meglio se il lettore non ne sa niente e che rimanga stupito, magari pensa che me li sono inventati io!”. Il tutto contribuisce a creare in chi legge un continuo alternarsi tra familiarità e straniamento. “Tutti si renderanno conto che è Venezia fin dalle prime pagine, ma ho voluto chiamarla Celestia perché darle un altro nome permette di guardarla in modo nuovo, ti fa rendere conto di quanto sia incredibile questo posto: è un’isola inventata, il coronamento dell’artificio umano. Quanto di meno naturale ci sia al mondo. Il fatto che adesso Venezia sia quello che è, morta da un certo punto di vista, con pochissimi residenti, dove non succede un granché, ci fa dimenticare che nel suo momento di massima grandezza questo è stato il centro del mondo occidentale, è stata New York, praticamente”.
Un’opera d’arte totale
Nel 2017, in L’ora dei miraggi (Oblomov Edizioni) Fior ha raccolto in una sorta di auto-catalogo diverse illustrazioni realizzate nel corso degli anni per riviste, quotidiani o eventi. Ad accompagnare lo scorrere dei disegni ci sono i suoi commenti, e a un certo punto si legge: “Mi sono servito dell’illustrazione per campare durante i lunghi periodi di gestazione dei miei libri. Per questo ho illustrato di tutto. Non mi è mai sembrato di svendermi, considero tuttora la possibilità di vivere disegnando un privilegio”. Ma come si gestisce il passaggio dall’illustrazione al fumetto: sono due mondi diversi o sono parte dello stesso continuum? “Il linguaggio rimane sempre quello del disegno, in questo sono simili, ma per me il fumetto ha un’importanza più grande. C’è un investimento dal punto di visto emotivo e personale molto maggiore nel fumetto. È tutto quello che posso fare, è un’opera d’arte totale. Non ho velleità cinematografiche o da romanziere, a me interessa fare quello, nel fumetto posso esaurire tutto quello che so dire e che ho da dire. Mentre nell’illustrazione non riesco sempre a farlo, forse perché spesso lo faccio come lavoro su commissione o forse perché non sono un illustratore purosangue come può essere Lorenzo Mattotti. Però è un lavoro che mi serve tantissimo perché molte cose sono provate per lungo tempo sull’illustrazione, puoi sperimentare diverse tecniche o affinarne una. Sono dieci anni che lavoro con la tempera (e non è mai finita) e prima di mettermi su Celestia avevo fatto un bel po’ di pratica con le illustrazioni. E poi l’illustrazione sostiene il tuo lavoro, non solo economicamente: ti dà la possibilità che il tuo fumetto sia fatto senza compromessi, che sia veramente un’opera d’arte libera, che concede il meno possibile a scadenze e logiche editoriali, ai soldi insomma. Per me questa è la cosa più importante: che il fumetto sia libero. Poi gli unici limiti sono quelli tuoi, tecnici o intellettuali, con questi mi scontro volentieri, con gli altri no”.
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