20 marzo 2022 / Come si fa
Prima mi sono vergognata. Poi ero
incredula delusa. Come bocciata.
Tutta una specie ritornata indietro.
Alle bastonate. Maschi al comando ancora,
con i vecchi randelli trasformati in armate
missili carri armati corazzate,
tutta un’esibizione muscolare così evoluta –
e le teste invece rimaste indietro, alla predazione,
alla zampata feroce su qualcuno che trema.
Solo dopo è arrivata la pena. Solo dopo
sono entrata dentro un gonfio
di lacrime tenute. E il dolore
dei miei umani casi si è fuso insieme
al dolore per loro, i morti, gli scampati
i feriti lasciati lì in un fosso, i rifugiati.
E se adesso piango a volte – non so per chi
o per che cosa, tanto sono confusa.
Un dolore non grave però, il mio,
spesso sospeso,
un dolore che non mi toglie ancora
l’appetito e posso guardare
i notiziari, continuando a mangiare,
sopportare ancora lo stridore della pubblicità
col suo falso prometterci le cose.
Come si fa a provare
un dolore vero. Come si fa
da quel dolore sentir nascere
un atto vero di pace. Come si fa
ad esser solidali fino alla radice.
Allora forse troveremmo strade
impensabili ora. Accordi fra nemici
talmente inaspettati. Soluzioni di tregua
permanente, abbracci molto attesi,
terreni condivisi, confini più sfumati.
Allora la terra intera
sarebbe nostra alleata, tutti
i pesci sotto le corazzate, gli
uccelli disturbati
dai fumi e dai boati, i tronchi
le radici che stavano aspettando
la loro primavera. I gatti per le strade
i cani, i lombrichi, le api.
Tutto sarebbe alleato con noi
dentro la pace. Ce ne verrebbe
una gioia vera, una potenza
di creazione – proprio il contrario
di questa morte dei corpi e delle cose.
Sarebbe la più grande rivoluzione di specie:
risolvere i conflitti col nostro ragionare
intelligente – in compassione.
Risolverli parlando e tacendo
donne e uomini insieme,
con ricorrenti abbracci a ricordare
ciò che più vogliamo, il nostro fine supremo.
Stare nella pace. Abitare la terra
in un respiro grato. Noi, ultimi arrivati.
Mariangela Gualtieri
in dialogo con Antonio Viganò