Speciale
La forza anonima del rifiuto
Nelle strade in fiamme di Atene, nell’inverno del 2008, qualcuno dipinse con rabbia: “Fuck May ’68. Fight now!”. Nelle mobilitazioni a Barcellona contro la riforma universitaria europea (“Piano Bologna”), un professore disse in diretta alla televisione, mentre la polizia caricava brutalmente i manifestanti: “Siamo una minoranza e non cambieremo il mondo. E allora?”.
Quelle del nostro tempo sono rivolte effimere che riescono appena a modulare la propria voce e il cui rifiuto lascia soltanto segni invisibili sulla pelle del mondo. Il mondo globale, insediato in una nuova “morte politica”, ci dichiara incapaci di fare qualsiasi cosa che sorpassi l’ambito della gestione della nostra vita personale e di apportare qualsiasi soluzione al mondo. Con le sue minacce permanenti (di guerra, di crisi, di malattie, d’inquinamento…) ci invita a proteggerci, a rassicurarci, a isolarci nell’indifferenza verso tutto e nella distanza di comunicazioni immateriali e personalizzabili. Da questa prospettiva, che senso può avere per noi oggi esporci?
Per rispondere a questa domanda, ci può forse servire seguire la traccia di coloro che sono morti prima del tempo, di coloro che non sono nemmeno arrivati alla festa del Maggio. Di coloro che non dovettero assumere le cautele che seguirono alla sconfitta. Albert Camus parlava ne L’uomo in rivolta della ribellione come esperienza del limite che strappa l’uomo dalla sua solitudine perché l’espone, non all’alterità, ma alla misura comune della dignità. L’uomo che si ribella scopre che non è da solo, non perché si trovi davanti alla presenza di un altro o aperto alla potenza della comunicabilità, ma perché fa esperienza di un limite che non concerne soltanto lui stesso ma che ha a che vedere con la vita degli altri.
Merleau-Ponty, da parte sua, ci mette dinanzi all’evidenza messa a tacere che i nostri corpi non sono dati biologici isolabili ma nodi di attività significativa intrecciati tra di loro e con il mondo naturale e storico. Sia Camus che Merleau-Ponty ribaltano inoltre l’individuo fuori da sé, lo portano fino agli orli della sua autoreferenzialità insostenibile. Lo espongono. Ma che cosa trova l’io strappato in questa maniera dalla sua solitudine? Certamente, non trova la comunità, né come opera da costruire né come potenza incompiuta di una parola infinita. Ciò che incontra è il mondo, che smette di essere un oggetto di contemplazione e di manipolazione del soggetto, per essere vissuto come un’attività condivisa: come possibilità di stabilire una dimensione comune nella lotta per la dignità e come possibilità di co-implicarsi nella vita, nella creazione di senso anonimo e incarnato. Ciò che trova, dunque, non è una comunità ma un mondo comune.
Esporsi al mondo non è esporsi al vuoto della comunità, al tra abissale che garantisce un’esperienza radicale di alterità irriducibile. Questa è l’astrazione che ha dominato il pensiero politico occidentale dall’immagine mitica dell’agorà greca, come vuoto in cui fa la sua apparizione la comunità attraverso la parola. Esporsi al mondo è venire incontro alla materialità del mondo, incollata ormai per sempre alla nostra pelle. L’esperienza del fuori diviene allora esperienza della reversibilità. Possiamo essere fuori da noi soltanto se siamo disposti a essere toccati dal mondo. Esporsi al mondo è imparare che la prossimità non è l’antitesi dell’irriducibilità. Non incontreremo mai l’altro ritagliato nella distanza di fronte a noi. Non possiamo fare un’esperienza nuda dell’alterità. L’altro è già nell’aria che respiriamo, nell’accento delle nostre parole, negli organi del nostro corpo, negli oggetti che manipoliamo, in qualunque nostra azione. Esporsi al mondo è perdere la paura della prossimità, la paura della vita materiale di un noi che eccede l’ambito della presenza umana.
Da qui che l’esperienza della finitudine, intrinsecamente legata all’esperienza del comune, non è più un’esperienza che passa per la rivelazione della morte, ma per la scoperta affermativa della vulnerabilità dei corpi che siamo. La finitudine, vista dalla vita e non dalla morte, è vulnerabilità e incompiutezza. Siamo finiti perché siamo incompiuti, perché siamo in continuità e dobbiamo essere continuati, perché non vediamo ciò che è alle nostre spalle né tra le pieghe della nostra pelle. Siamo finiti perché i nostri limiti non sono ben definiti e possiamo essere danneggiati, scossi, amati, accarezzati, feriti, curati… La società terapeutica, in quanto regime immunitario, ci insegna a gestire la nostra vulnerabilità a partire dalla nostra paura del contagio e dello squilibrio.
La sua intera gestione si basa su una proposta controllata e soggiogante di autosufficienza. Perderla è essere persi. Una filosofia della vulnerabilità, e non solo della minaccia di morte, ci apre la possibilità di pensarci politicamente a partire dalla dipendenza che ci lega gli uni agli altri, da una libertà intesa non più come autosufficienza ma come conquista della nostra propria interdipendenza. Questo è stato segnalato da Judith Butler nei suoi lavori sul lutto e sulla perdita ma sarebbe importante svilupparlo più in là dell’ombra del dolore e iscriverlo come impostazione fondamentale in una politica dei corpi vivi.
Da questa prospettiva, esporsi al mondo non può essere una mera esperienza linguistica. Ogni parola trascina con sé la materialità del mondo e s’incarna in un corpo vulnerabile. Per questo è necessario rivedere la fiducia che la filosofia contemporanea ha mantenuto nel linguistico come luogo privilegiato della politica. È la concezione classica che Hannah Arendt riprende nella sua ridefinizione dell’agorà moderna, ma è anche quella che guida ancora molte delle posizioni post-strutturaliste sulla creazione di nuovi sensi e forme di vita, così come le proposte del marxismo italiano più recente sulla possibilità di una resistenza del comune nella cornice del nuovo capitalismo cognitivo.
In questa fiducia coincidono pure le posizioni espresse, come abbiamo visto, dai pensatori di questa comunità inoperosa come preservazione di una comunicazione infinita. Il problema è che oggi siamo immersi in una crisi di parole, occultata sotto l’apoteosi della comunicazione, che non si risolve né preservando la linguisticità dell’essere umano né restituendo al linguaggio tutta la sua potenza costituente/costitutiva. Il problema delle parole è oggi quello della loro credibilità. Una parola credibile è quella capace di scuotere la nostra vita e squilibrare la realtà. Questa è la forza di una parola d’amore.
Quando e come può avere questa stessa forza la parola politica? Gli studi sia teorici che pratici sulla performatività si avvicinano oggi a questo tipo di domande. Ma bisogna andare più in là della teoria dell’atto linguistico per poter rispondere ad esse. Una parola credibile, sia d’amore che politica, è la parola che crede nel mondo. Come scrisse Deleuze ormai anni fa, questa fiducia è forse ciò che ci manca di più. Ma quando oggi una nuova esplosione irrompe con il suo “no” scritto in fiamme nel rumore della grande città globale, qualcosa di questa fiducia in un mondo comune si sta esprimendo. Ogni volta che diciamo “no”, ci manca il discorso per finire la frase, per costruire qualcosa con la forza anonima del nostro rifiuto. Ma questo “no” è una parola credibile. È un “no risoluto”, come scrisse Blanchot. Il no in cui si esprime l’amicizia fragile e al tempo stesso incrollabile di coloro che non stanno insieme ma si espongono insieme al mondo.
Traduzione dallo spagnolo di Valentina Ariza Moreno