Madrid - Jorge Semprún

27 Settembre 2011

 

Qualche giorno fa all’Istituto Francese di Madrid si è tenuta una serata dedicata alla memoria di Jorge Semprún. La sala era non molto grande, perciò parte del pubblico è rimasta fuori, mentre alcuni amici spagnoli parlavano dello scrittore. Seduti al tavolo le autorità francesi. Ricordi personali e discorsi sull’identità di questo scrittore che è stato una delle memorie di un secolo tragico, il XX: lo sguardo della memoria. “Este país no tiene solución”. Non c’è niente da fare, la Spagna non ha soluzione, aveva detto alla scrittrice Rosa Regás, l’ultima volta che si erano visti. Una frase che ha fatto ricordare ai presenti le parole pronunciate da Felipe  Gonzáles a Parigi, pochi giorni dopo la morte di Semprún, il 31 maggio di quest’anno, quando l’ex presidente e politico socialista ha messo in rilievo il modo ingiusto con cui la Spagna aveva sempre trattato lo scrittore.

 

Semprún aveva lasciato scritto di esser sepolto a Biriatu, un piccolo paese basco-francese, sulla riva del Bidasoa, la linea di frontiera dove era solito fermarsi nei suoi viaggi clandestini in Spagna nei primi anni Sessanta. La bara, per sua esplicita richiesta, doveva essere ricoperta dalla bandiera tricolore della Seconda repubblica spagnola: viola, giallo e rosso. Un segno di quello che l’amico Javier Pradera, nel suo articolo su Claves, ha voluto collegare con un segno vero e proprio d’identità che ha segnato la vita di Semprún: la sua extraterritorialità. George Steiner ha detto una volta di Nabokov una cosa che vale anche per lo scrittore spagnolo: un grande scrittore che le rivoluzioni sociali e le guerre costringono a emigrare di lingua in lingua, è il simbolo dell’era del rifugiato. La nostra. Appena esiliato, da liceale a Parigi, Semprún aveva capito di dover parlare il francese senza l’accento spagnolo se non voleva essere umiliato come gli era accaduto in una pasticceria chiedendo un dolce. Era stato trattato come “una ciurma di pezzetti di profughi spagnoli”. A Buchenwald, deportato come politico, si era salvato perché aveva rispolverato il tedesco imparato da piccolo dalle bambinaie, l’ultima delle quali aveva sposato il padre vedovo. La madrelingua spagnola gli è servita per essere Federico Sánchez, nel momento in cui era clandestino a Madrid, e proprio allora aveva cominciato a scrivere in francese il libro sul Lager: Le grand voyage. Questa forma di estraneità si è trasformata in Semprún, mi è venuto di pensare mentre sedevo nella piccola sala dell’Istituto, lì a Madrid, in una forza generatrice: ogni volta che aveva dovuto reagire alla paura, la forza si era palesata. Una potenza che si è fatta viva anche l’ultima volta che l’ho visto.

 

“È un resistente”, commentammo all’uscita dalla sua conferenza alla Residencia de Estudiantes, la storica istituzione dove Federico García Lorca era vissuto nei suoi anni madrileni. Era la primavera del 2003 e lo scrittore, invitato a tenere il ciclo di  lezioni di filosofia intitolato a Aranguren, aveva deciso di dedicare le tre serate alla Memoria del male, i grandi segni di identità della sua scrittura. Con ancora in mente la voce grave dello scrittore, ci congedammo in silenzio sotto l’eucalipto centenario. Quanti morti, da quando García Lorca aveva deciso di abbandonare Madrid pensando di salvarsi tornando nella sua Granada: “lì sarebbe stato più tranquillo, più al sicuro che in una città ormai esacerbata come Madrid”, faceva dire Semprún al poeta, divenuto personaggio del suo romanzo Vent’anni e un giorno.

 

Guardare indietro, ritornare al passato, ricomporlo, rimaneggiarlo, introdurre personaggi veri e storie vere per poi dipanarle attraverso immagini inventate, “ritornare all’infanzia come se non fossi invecchiato”, scrivere un’autobiografia con immagini dimenticate o sfumate, e riscrivere la stessa storia più e più volte, riscoprendone sempre un nuovo elemento, rivelando immagini che non erano nella memoria, prima di arrivare alla scrittura. Queste sono le ragioni che Bernard-Henri Lévy avrebbe voluto rendere note davanti allo scrittore il 28 giugno in un omaggio organizzato dalla Fundación de Amigos del Museo de Prado, e aveva scritto: “Mi piace questa bella idea di scrittore, questa idea postproustiana, e non meno feconda, trovo, della grande ipotesi dellaRecherche; l’idea per cui la memoria si nutre di se stessa, cresce con ciò che sputa o di quello che le si toglie; mi piace l’idea che i libri non disseccano la memoria, ma al contrario la ravvivano; mi piace che lui pensi, e dimostri, che bere ai ricordi non li esaurisce, ma li rende più fecondi”.

 

“Potrei raccontare la mia vita - scrive Semprún in Federico Sánchez se despide de ustedes - seguendo Las meninas di Velázquez, facendo ruotare tutto intorno a questo quadro”. Da quando lo guardava da piccolo con suo padre, a quando, rientrato in Spagna nel 1953, incaricato dal Partito Comunista Spagnolo di stabilire rapporti per organizzare la lotta antifranchista, rimaneva ore e ore a scrutarlo, o fissava appuntamenti proprio davanti alleMeninas perché allora il quadro era collocato in una piccola sala appartata e in penombra, con a destra un grande specchio, in cui ci si poteva guardare intorno senz’essere visti, per controllare che non ci fossero presenze sospette. Un percorso e un incrociarsi di sguardi intorno all’opera velazquegna che assume un significato speciale al momento dell’esperienza politica come Ministro della Cultura nel governo socialista di  Felipe González, quando ha provato a esporre insieme, per farle dialogare tra loro, tre opere dei tre autori fondamentali della pittura spagnola e della nostra storia: Velázquez, Goya e Picasso. Semprún, che ricordava una conversazione con Picasso, avrebbe infatti corrisposto alla volontà dell’anziano pittore: portare il Guernica al Museo del Prado, dove si sarebbe esplicitato “da dove proveniva, da quale tradizione”. L’allora Ministro pensava infatti che sarebbe stato meglio esporre il Guernica, finalmente tornato in Spagna, proprio al Prado, dove avrebbe trovato la giusta collocazione dopo la pittura nera di Goya.

 

Ma il Guernica non è stato accolto nel più importante museo spagnolo, e così Semprún non è riuscito a far vedere in che modo la lettura di Michel Foucault delle Meninas sia “brillante, ma falsa”, perché il filosofo si interrogava sul posto che occupa il re nella tela, mentre secondo Semprún la domanda da porsi dovrebbe essere sul luogo che occupa il pittore. Nelle Meninas,in effetti, tutto gira intorno al pittore, mentre nella sua ‘continuazione’ -continua Semprún- “La famiglia di Carlo IV, la figura di Goya è ormai soltanto una vaga ombra all’ombra del potere. Il pittore sceglie anzi l’ombra per allontanarsi dal potere e  prenderne le distanze. Nel Guernica non c’è più la figura del pittore. Neanche l’ombra del pittore. C’è ormai solo la Storia, l’orrore nudo della Storia”.

L’orrore nudo della Storia che lo ha tenuto in silenzio fino alla pubblicazione di La scrittura o la vita, e la vertigine di essere conscio della propria età e del fatto che non ci saranno più testimoni quando sarà morto l’ultimo superstite dei lager. “All’improvviso, l’annuncio della morte di Primo Levi, la notizia del suo suicidio, capovolgeva radicalmente la prospettiva. Ritornavo di nuovo mortale. Forse, non solo mi mancavano cinque anni di vita, quanti me ne occorrevano per avere la stessa età di Levi, ma la morte entrava di nuovo nel mio futuro. Mi domandavo se da allora in poi avrei avuto ancora ricordi della morte. Oppure soltanto presentimenti”.

 

Non solo la testimonianza, ma la sua resa attraverso uno sguardo mai compiacente. Un modo di guardare e di agire nella storia che ha sconvolto, ad esempio, Rosanna Rossanda, quando inviata in Spagna dal PCI per stringere rapporti con gli antifranchisti, ha percorso una strada simile a quella di Federico Sánchez, nome di battaglia di Semprún. Come ha raccontato Rossanda in Un viaggio inutile, la figura del dirigente clandestino in un primo momento le sembrò arrogante e superba, ma quando sono riusciti a capirsi, sono diventati veri amici: quello che lo rendeva altezzoso nei riguardi della compagna italiana non era altro che una sorta di diffidenza per la posizione critica che lo avrebbe portato a essere allontanato dal PCE in quanto revisionista, malgrado molti gli avessero consigliato di pazientare e aspettare che l’inevitabile evoluzione del partito gli desse ragione, come successe in effetti poco dopo.

 

Resistere è stato per Semprún un modo di vivere, di lottare contro la storia, ma anche di cercare nuovi sviluppi per la storia, di non cedere. Un ottuagenario resistente che aveva illusioni. L’ultima è stata l’Europa. Per questo Juan Goytisolo, amico dalla giovinezza, sostiene che “Semprún rappresenta come pochi una miscela feconda di esperienze al di fuori di ogni credo nazionale o ideologico, e su di essa fonda la propria esemplarità. La riflessione politica dello scorso decennio, raccolta in Pensar en Europa e L’homme europeén scritto con Dominique de Villepin, corona il suo lavoro come persona e come scrittore che si gioca tutto -come voleva Azaña-, testimone sereno degli orrori e delle grandezze dell’epoca convulsa che ha vissuto”. Forse per questo, una delle frasi più citate da Semprún proviene da The Crack-up di Scott Fitzgerald - letto non appena dopo l’espulsione dal PCE -: “si è capaci di vedere che una situazione non ha via d’uscita, e ciò nonostante, si è fermamente decisi a renderla migliore”.

 

Sotto l’eucalipto della Residencia veniva in mente il rovere di Goethe a Buchenwald, distrutto nel 1944 dai bombardamenti del lager con bombe incendiarie. E pure veniva in mente il grande faggio di cui Semprún racconta in Quel beau dimanche, e che lo avrebbe fatto esclamare davanti a un ufficiale delle SS: “Che albero splendido!”. Dunque, la Memoria del male: l’albero di Goethe non esiste più, ma il suo posto è segnato nelle piantine di Buchenwald; e all’ufficiale sospettoso che al giovane deportato che si era allontanato un po’ aveva chiesto cosa ci facesse lì, Semprún ha voluto far capire che stava andando a vedere una meraviglia. Il giovane Semprún, lo studente di filosofia, di fronte al male radicale kantiano, usava le armi apprese al Museo del Prado: resistere al non essere che è la morte, cercar di non lasciarsi attrarre dalla visione dello Stige, cercare intorno, scrutare il paesaggio ai margini del quadro di Patinir, nell’inferno o nel paradiso, ma non affondare nell’azzurro intenso delle acque, non lasciarsi mai sedurre dalla paura.

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