Jump/Junk: mal di Cina

29 Marzo 2013

Shenzhen è crossover puro. Un caleidoscopio di suoni: i grattacieli più acuti di un assolo di Eddie Van Halen e la periferia reiterata di edifici come l’intro di A forest. Tutto è in perenne movimento, non esiste scansione fra le ore: giorno e notte perdono i contorni, la realtà si potrebbe definire acquatica, fluida, instabile. Qui il Pil non è un numero e nemmeno un grafico: spariscono ascisse e ordinate, si corre sulla derivata di una funzione in perenne ascesa e la parola stagnazione non fa parte di nessun testo economico. Non in questo posto. Non per un europeo catapultato dall’immobilità italiana nel cuore del caos cinese.

 

Grattacielo a Shenzhen

 

In Cina è bello non essere turisti, lavoro e movimento coincidono perfettamente, anzi il secondo è un fattore essenziale, è connaturato al lavoro: spostarsi per strade affollate, in giro per contatti e uffici, dà la misura di cosa significa sentirsi al centro di un mondo in perenne mobilità. Un nuovo  “Chinese Dream”? Può darsi. O forse si tratta solo di una suggestione, l’idea stratificata di un europeo che per molto tempo ha sognato l’America e ora si trova quasi per caso in Cina. E crede che non sarebbe poi così terribile viverci.

Camminare tra botteghe e stamberghe dove si può trovare di tutto, dove non c’è il candore artificiale del vecchio lusso europeo, ma bugigattoli sporchi che convivono con la modernità più globalizzata - zuppa di coccodrillo e cheesecake da Starbucks, huoguo e Kentucky Fried Chicken, gli squisiti jiaozi e il Whopper di Burger King - rende l’idea di ciò che significa “junkspace”.

 

A Guangzhou (Canton), nella “Delirious Guangzhou” come direbbe Rem Koolhaas, tutto è amplificato. L’ultramoderno centro sportivo del distretto di Tianhe, che ingloba nel suo spazio lo stadio dove il Guangzhou di Marcello Lippi ha appena vinto il campionato, convive con lo sterminato parco Yuexiu, una sorta di micro succursale della foresta amazzonica nel centro della città e il mercato del pesce, dove nei frigoriferi ci sono coccodrilli congelati e sulle bancarelle scarafaggi vivi in attesa di essere serviti nei ristoranti del mercato.

 

Parco Yuexiu a  Canton                                                    Mercato del pesce a Canton

 

Due sono i passages della città: in superficie il fiume Zhu Jiang le cui acque risultano ferme rispetto alle onde umane che camminano lungo le sue sponde, e la metropolitana, immenso labirinto sotterraneo. Lì non è consentito sbagliare stazione o entrata, non si riuscirebbe a cambiare direzione, il flusso di gente che si muove rende ognuno parte del suo spostamento: si perde la propria corporeità e si diviene una mera direzione, parte di un’unica corrente.  

 

Tuttavia se ci si pensa un poco, a Guangzhou c’è un altro passage, non di vetro e ferro come lo descriveva Benjamin, ma trasversale e immateriale: il pixel, che occupa le pareti dei muri, dei grattacieli, delle sponde del fiume dove enormi maxischermi riproducono qualsiasi cosa: programmi televisivi, slogan pubblicitari e i cinque arieti (Wuyang) simbolo della città, difficile da dimenticare se si pensa che il soggiorno è quasi terminato e la vecchia Europa è ferma e immobile ad aspettare un malinconico rientro a casa.

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