Testimonianze / La guerra nelle parole dei rifugiati
La guerra nelle parole dei rifugiati (Enrico Osvaldi)
Appena l’estate scorsa, nell’afa di un balcone di una piccola “Khruščevka” [Casa sovietica del periodo Khruščev] in ulitsa Družba Narodov a Kyiv, tra i racconti di una vita trascorsa nell’URSS, infinite tazze di čaj, fotografie di Levitan, e quell’onnipresente odore di aneto che inonda le case dell’est europeo, mai avrei immaginato di trovarmi, appena pochi mesi dopo, in un tendone nel centro di Bologna a raccontare con malinconia quel periodo alla fiumana di profughi che ogni giorno si affretta alle porte chiedendo aiuto e comprensione. Lo racconto, nei momenti vuoti tra una domanda e l’altra degli assistenti sociali, a chi richiede asilo, basiche necessità, o un luogo in cui dormire. Mi avvicino a loro e cerco per un momento di tranquillizzare i loro sguardi impauriti. Nel caos del tendone, tra bambini che corrono e operatori che monotonamente riempiono i loro moduli o eseguono i loro compiti, lo sguardo di uno studente di storia russa e dell’ex-URSS è doppiamente malinconico e, per quanto possibile, conscio. Sembra di colpo di trovarsi in uno dei racconti di Isaak Babel, dove storie di uomini e donne in tempi d’orrore si incrociano, la “Donna del Sale”, il ragazzo-pastore “Saška Kristos”, la cosacca Pavla, negli occhi di chi fugge si possono quasi scorgere i personaggi, reali, che li hanno ispirati.
Un volontario mi chiede di parlare un po' con un bambino per consolarlo e la mia storia sembra meravigliarlo. Il piccolo Sasha (il cui nome è fittizio) è arrivato con la nonna dopo un viaggio in autobus di tre giorni, parla poco, dice che ha paura, ma la mia estate kyiviana sembra divertirlo, cosicché decide di raccontarmi un po’ di sé: “Papa, vojenniy! (soldato!)”, “Mama, pomogaet voiennim! (aiuta i soldati!)”. Arrivati in Italia, senza casa né amici, Sasha e la nonna sono per me divenuti l’immagine di questa crisi. Poco prima di salutarli, la nonna, mi confida con le lacrime agli occhi: “Quello che lui chiama padre è in realtà il compagno della madre ed è sparito dopo pochi giorni di guerra, nessuno ha più notizie di lui”. Abbraccia il nipote, mentre i volontari chiudono la portiera e mi chiede accorata: “Počemu eta Bratskaya Voina?!” – “Perché questa guerra tra fratelli?”.
Sono tante, invero, le storie come quelle del piccolo Sasha, che si possono ascoltare ogni giorno nella tensostruttura di Piazza XX Settembre. È lì che lavoro come mediatore linguistico da quasi tre settimane, cercando di aiutare i profughi e, per quanto possibile, toccare con mano le storie di chi fugge la guerra. A spingermi ad aiutare, la mattina stessa del 24 febbraio, è stato il ricordo della calorosa ospitalità concessami da una famiglia ucraina durante il mio soggiorno a Kyiv e la volontà di ricambiare la loro generosa accoglienza: “come aiutare i miei amici, se volessero anche loro fuggire?”. Questi mi rassicuravano però con stoica risolutezza, tipica di quella parte del mondo, sottolineando che: “vogliamo viaggiare solo come ospiti, non come rifugiati”. Scherzando dicevano di non potere lasciare la loro casa a Irpin, proprio allora che era appena stata ristrutturata, ma mi invitavano ad aiutare chi aveva già cominciato a fuggire. Inizialmente, sono stato sopraffatto dall’impatto emotivo che la mediazione con chi fugge dalla guerra comporta.
Dopo la prima settimana, però, questo ruolo mi ha aiutato ad ottenere una differente ottica circa quanto accade oggi e a riconsiderare la mia preparazione storica sotto nuova luce.
Come mediatore presso la postazione dei servizi sociali, ho uno sguardo “privilegiato”, che mi permette di ascoltare e approfondire le storie personali di decine di persone che ogni giorno si raccontano ai volontari. L’impressione d’insieme, dopo una serie di colloqui, è che la migrazione che osserviamo oggi sia l’esasperazione di un continuum di crisi migratoria in corso da trent’anni, solo ora avvertito dall’occidente. Tanti tra gli arrivati sono accompagnati da parenti, familiari o conoscenti (znakomye), giunti a loro volta con flussi migratori precedenti, che, a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, sono stati alimentati progressivamente dalle rivoluzioni che dal 2004 scuotono l’Ucraina.
È proprio su queste reti di espatriati, formatesi quietamente in questi anni, che hanno fatto affidamento molte persone tra quelle che arrivano oggi e che hanno già delle buone conoscenze del sistema burocratico nazionale. Da questa prospettiva, la guerra sembra quindi avere riattivato e accelerato vertiginosamente, con più di 3 milioni di rifugiati in sole tre settimane, processi di migrazione ucraini già in essere dall’inizio degli anni ’90, poi rialimentati dalla Rivoluzione cosiddetta Euromaidan del 2014 [si vedano anche i dati ISTAT ed Eurostat riguardo i flussi questa migrazione]. Questo, chiaramente, nonostante nessuno dei processi precedentemente menzionati si sia mai concluso concretamente in guerra aperta.
Nel tentativo di avere una visione più completa di quanto sta accadendo, la domanda della nonna di Sasha mi appare iconica nel mostrare le forti contraddizioni in campo: “Perché questa guerra tra fratelli?”. L’idea della guerra fratricida confligge in qualche modo con il passato sovietico delle due nazioni belligeranti e costituisce una pesante contraddizione evidentemente vissuta da entrambe. L’Unione Sovietica aveva infatti costruito la sua identità fondamentale come impero multietnico. Una multietnicità che, almeno nella retorica di stato, e nelle miriadi di opere propagandistiche, consisteva nella pacifica convivenza ed eguaglianza tra le diverse popolazioni che abitavano il territorio Sovietico, dalle steppe dell’Ucraina a quelle del Kazakhstan, fino alle coste della Corea.
Proprio il nome della strada nella quale abitavo a Kyiv (Ulitsa Družba Narodov – Via dell’Amicizia tra Popoli) rappresenta un simbolo di questa politica. A questa retorica, dal 1945, si aggiungeva il pesantissimo costo umano che la Seconda guerra mondiale aveva esatto dal paese. La coscienza della straordinaria sofferenza causata dal conflitto, l’ideale comunista dell’URSS e la continua tensione della guerra fredda avevano grandemente acuito la propaganda sovietica antibellica. Si vedono, specialmente in questi giorni, miriadi di manifesti che riportano il motto “Net Voine!” (No alla Guerra!), guerra presentata nella retorica come uno strumento imperialista tipico dell’occidentale avversario. La contraddizione si presenta pertanto palese agli occhi di chi osserva, specialmente a russi e ucraini, per anni sottoposti a questa propaganda.
La Russia vive oggi nell’ombra del suo passato sovietico, nella nostalgia della passata grandezza, mentre settant’anni di retorica pesano gravemente nella coscienza di chi vive questa guerra. Stridono fortemente le parole di Putin, quando dichiara perentorio che “L’Ucraina è stato un errore di Lenin e dei bolscevichi” (Discorso di Putin del 21 febbraio) condannando solo alcuni leader sconvenienti alla narrazione del Cremlino e non l’intera storia sovietica. È dunque proprio nella negazione della specificità della loro identità ucraina, portata avanti in questa “operazione speciale”, identità che vantava una multiculturalità e un bilinguismo preziosi (Natalia Kudriavtseva), che risiede la rottura tra un passato sovietico a cui alcuni ucraini guardavano con nostalgia, ed un presente di guerra fratricida.
Qualora nei piani finali di Mosca ci fosse l’annessione di territori altri oltre al Donbass e alla Crimea, ormai de facto da otto anni sotto il controllo russo, sarebbe lecito chiedersi quale narrazione verrà adottata per controllare la minoranza ucraina.
Proprio a riguardo della fine del conflitto, mi torna alla mente la domanda che una donna mi porse mentre aspettava in fila per i servizi sociali: “Si, tanto la guerra finirà presto, al massimo due settimane, vero?”. Ad oggi, stando ai dati forniti dall’Institute for the Study of War, l’Operazione Militare (Voiennaya Operatsiya) di Mosca è giunta effettivamente alla sua conclusione.
La fase iniziale dell’invasione, a mio parere fondata proprio sull’erronea comprensione da parte del Presidente della Federazione della storia sovietica e della stessa contraddizione e incomprensione dei valori sovietici sopramenzionata, volge ora alla conclusione peggiore per la Russia. L’iniziale avanzata è ormai impantanata nella resistenza ucraina e nell’ostilità della popolazione, e minaccia di trasformarsi in uno stallo, che rappresenterebbe una condizione ben peggiore di una tregua o di un cessate il fuoco. Lo stallo, e la promessa dell’occidente di continuare a fornire armi all’Ucraina fino ad una conclusione a lei favorevole del conflitto prospettano grandi difficoltà nel futuro di chi oggi spera in un rapido ritorno in patria. Se il paese dovesse veramente divenire un “nuovo Afghanistan”, come auspicano alcuni partner occidentali, il rischio sarà quello di avere una frontiera permanentemente instabile e militarizzata alle porte di Europa, fonte di una irreparabile frattura, anche antropologica, con Mosca e di un trascinamento, seppure a ritmi più bassi di quelli iniziali, dei flussi migratori.
I flussi migratori sono diversi, inoltre. Mentre i civili più vulnerabili cercano di sfuggire alle bombe russe lasciando l'Ucraina, più di 2 milioni sono rimasti a Kyiv
per difendere la loro capitale indipendente a qualunque costo. Questa risolutezza nel combattere per la patria presenta un netto contrasto con i 200.000 russi stimati che sono fuggiti da un paese che non riconoscono più, o dove non vedono più speranza.
Voci russe e bielorusse di protesta e disperazione (Vanessa Voisin)
"La mattina del 24 febbraio, il nostro mondo è crollato. Da allora, viviamo al ritmo delle atrocità e abusi commessi in nostro nome dall’esercito russo in Ucraina. La nostra rabbia è senza limiti così come il nostro sgomento. Questa tragedia del popolo ucraino, al quale siamo sempre stati legati da vincoli stretti e forti, tocca ognuno di noi."
Con queste parole inizia la "Tribuna" pubblicata il 15 marzo su Le Monde da un gruppo di "russi di Francia" di cui diversi sono miei amici personali. Il giorno dopo ho ricevuto, attraverso la mediazione del coautore del presente articolo, una lettera collettiva firmata da studenti bielorussi e russi dell'università dove ho il piacere di insegnare storia russa e sovietica, l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. In poche e scarne parole chiedevano aiuto, perché la guerra lanciata dal Cremlino li aveva resi esuli non volontari, tagliati fuori dal loro paese, dalla famiglia e persino dal conto in banca. Al di là delle difficoltà materiali, però, era percepibile uno sconcerto più profondo sul significato di ciò che stava accadendo. Il 18 marzo, la poetessa Maria Stepanova lo ha espresso con tutto il virtuosismo della sua arte:
"L'aggressore in questa guerra ingiusta in un territorio straniero, con i suoi crimini di guerra e le sue vittime (che sono già milioni se includiamo non solo i morti, ma anche coloro che sono rimasti senza casa, senza persone care, senza un futuro), agisce come se stesse eseguendo un'opera d'arte, un libro o un film, in cui gli eventi sono controllati dal loro creatore. Peccato che questo libro in particolare sia scritto da un pessimo autore. (...) L'unica cosa che gli interessa è che si sappia chi è l’autore, affermare la sua volontà, controllare la narrazione e gli eventi. Questo è ciò che tiene occupato Putin in questo momento: la messa in atto della sua volontà personale, il tentativo di riscrivere la storia dell'Ucraina e dell'Europa, di cambiare il nostro presente e determinare il nostro futuro. (...)
Si potrebbe dire che questa è l'essenza di ogni dittatura e la logica di ogni dittatore (...) Ma per me questo è un caso speciale: c'è, dietro il movimento dei veicoli militari russi, una vera paura dell'esistenza di un Altro, un desiderio disperato di schiacciare questo Altro, di modificarlo, ingerirlo, attirarlo, inghiottirlo, ingoiarlo".
Come ha affermato un recente editoriale del The Financial Times, "la guerra di Putin è una tragedia anche per il popolo russo. Decenni di progresso verso una 'vita normale' hanno ingranato la retromarcia". Proprio così. La Russia che la mia generazione ha conosciuto negli anni tra il 2000 e il 2020 è arretrata, svanita in una distanza irraggiungibile. Allora, almeno nei primi anni, sembrava possibile studiare il passato – anche se alcuni fondi archivistici rimanevano inaccessibili ai ricercatori stranieri – e discutere con amici, studenti, colleghi, del futuro politico del paese. Poi sono arrivati il 2007 e il primo avvertimento aperto di Putin all'"Occidente", il 2008 e il suo furioso discorso al vertice NATO di Bucarest, seguito dall'invasione russa della Georgia. La paura di perdere il controllo dei "paesi al di là dei suoi confini” a vantaggio di un'influenza occidentale malevola e russofoba era cresciuta dopo le "rivoluzioni colorate" in Ucraina, Georgia, Kirghizistan e il tentativo in Bielorussia (2003-2005).
L'ampio movimento di protesta nell'inverno 2011-2012 ha finito per convincere la cerchia del presidente russo della necessità di reprimere più duramente la società civile.
Da allora il Cremlino ha progettato sempre più leggi e regolamenti che limitano la libertà di parola, di riunione e di cooperazione con i partner stranieri. I discorsi nazionalisti sono diventati sempre di più inclini al servizio della politica aggressiva dello Stato (Laine). Proprio nel 2011 è stato creato il "progetto di comunicazione online indipendente sui diritti umani" OVD-info – durante la protesta e la loro brutale repressione da parte della polizia, in una sorta di eco vertiginosa del "ramo legale" del dissenso degli anni '60-'70, dove gli attivisti cercavano di documentare, denunciare e combattere gli abusi legali perpetrati dalle autorità.
Parallelamente, dalla fine degli anni 2000, la "lotta contro i tentativi di distorcere la storia" ha comportato la creazione di una commissione e l'adozione di varie leggi che vietano anche il richiamo oggettivo o l'insegnamento relativo proprio alla seconda guerra mondiale, guarda caso. Dalla rivoluzione Euromaidan, il Cremlino ha costantemente sviluppato l'idea di un'Ucraina dominata dai neonazisti. Come storico specialista della collaborazione e delle epurazioni durante la guerra in Unione Sovietica, sono ben documentata sui crimini sanguinosi dell'UPA nel 1941-45 (e dopo): il punto qui non è però quello di cancellare la loro realtà storica. Ora infatti sappiamo bene quale spazio reale occupino i movimenti di estrema destra nell'odierna Ucraina democratica – uno spazio che non ha nulla a che fare con quanto affermato dal presidente russo. Al contrario, sono le autorità russe quelle che cancellano sempre di più la memoria del terrore che era parte integrante del potere dell’era sovietica (soprattutto negli anni di Stalin). Le condanne giudiziarie contro l'organizzazione storica e di difesa dei diritti Memorial sono l'esempio più recente. Per quanto riguarda la storia sovietica ucraina, nel dicembre 2011 un tribunale civile di Mosca ordinò la rimozione dalle biblioteche della pubblicazione scientifica ChK-GPU-NKVD v Ukraini: Osoby. Fakty. Dokumenty (ChK-GPU-NKVD in Ucraina: Persone. Fatti. Documenti) a cura di Yurii Shapoval, Volodymyr Prystaiko, e Vadym Zolotariov. Il libro venne "identificato come un tipico esempio di letteratura estremista che mina l'amicizia tra due popoli fratelli, l'ucraino e il russo, ed esacerba le tensioni nazionali tra loro" (Bertelsen).
Dal 4 marzo, la censura russa che dilaga sempre più si è estesa a qualsiasi evocazione della guerra in Ucraina. Ad oggi, il gruppo di monitoraggio di OVID-info ha identificato più di 15.000 cittadini presi in custodia per "azioni contro la guerra" dal 24 febbraio (dati alla mezzanotte, 22 marzo). La disobbedienza civica contro un governo ormai riconosciuto a livello internazionale come criminale ha anche assunto forme sempre più varie, dalla performance altamente mediatica di Marina Osvyannikova di Channel One, alle dimissioni semi-forzate di medici, insegnanti e altri dipendenti statali. Uno degli insegnanti che è stato forzato a lasciare il suo paese dopo essere stato costretto a lasciare il suo posto di lavoro ha spiegato alla Novaya Gazeta: "come insegnante di geografia di 7° grado, devo rispondere alle domande dei bambini sul perché l'Abkhazia, l'Ossezia del Sud o la Transnistria non sono su alcune mappe. E devo dire loro cosa sono le repubbliche non riconosciute.
Loro fanno domande e tu devi raccontare ai bambini la realtà. È sempre più difficile perché siamo sempre più controllati". Il professore ha ricevuto sostegno ma anche espressioni di odio sui social media. "'Sono il padre di uno dei suoi ex alunni. Sono contento che ci saranno sempre meno vermi occidentali come te nelle nostre scuole.' Al commentatore ha risposto il proprio figlio: 'Non voglio essere uno specchio dell'opinione dei genitori. È un grande insegnante. Quelli che lo liquidano semplicemente non ci vedono come esseri umani'." (Novaya Gazeta, 11 marzo 2022)
Essere visti come esseri umani, questo è ciò che rivendicano le vittime ucraine della guerra di Putin in Ucraina. Mentre l'attenzione mediatica oggi si concentra, giustamente, principalmente sulle vittime ucraine di questa guerra, è importante ricordare anche che molti cittadini russi – emigrati o che vivono ancora nella società che il loro presidente sta dividendo e rovinando – stanno ancora sperando o lottando per questo diritto, e anche noi dobbiamo impegnarci a sostenere queste loro azioni coraggiose. Oggi, in un giro contorto di destini, gli studenti ucraini e russi all'estero sembrano essere accomunati da più afflizioni e angosce di quanto immaginino, e anche da uno status mentale e fisico condiviso.