Intervista a Mario Costa
Ho incontrato Mario Costa (Torre del Greco, 1936) a Napoli in occasione di un suo intervento (La fotografia nell’epoca neotecnologica) presso Movimento Aperto, un piccolo spazio che per l’occasione ha esposto alcune fotografie di Marco Zagaria. L’estetologo campano è tra i pochissimi studiosi italiani ad aver proposto un pensiero estetico originale e innovativo: in particolare a Costa si deve riconoscere il merito di aver sostenuto con forza la necessità di una rifondazione delle discipline estetiche, e di aver significativamente contribuito all’introduzione di un nuovo campo di ricerca, quello dell’estetica dei media. Tra i suoi principali contributi va ricordata anche la teorizzazione di un “sublime tecnologico” (1990) e, più recentemente, di un’“estetica del flusso” (2010).
Costa è stato professore ordinario di Estetica presso l’Università degli Studi di Salerno dove ha fondato (1985) e diretto Artmedia (Seminario e Laboratorio permanente di Estetica dei Media e della Comunicazione), uno tra i più interessanti progetti italiani dedicati all’approfondimento del rapporto tra tecnologia, scienza, arte e filosofia (tra le principali collaborazioni è possibile ricordare quelle con Bernard Stiegler, Derrick De Kerckhove, Pierre Levy, Paul Virilio, Edgar Morin, Fred Forest, Roy Ascott, Eduardo Kac, Antoni Muntadas e Casey Reas).
La capacità di cogliere la specificità dell’universo tecnologico – anch’essa una merce assai rara tra i filosofi italiani del dopoguerra – è l’aspetto che più colpisce il lettore delle opere di Costa. Proprio tale attitudine lo accomuna a Vilém Flusser (Praga, 1920-1991). In effetti, leggendo insieme i due autori, è difficile non notare alcuni passaggi che sembrerebbero rappresentare altrettanti punti di convergenza. Di qui la mia curiosità e il tentativo di chiarire, insieme a Costa, quali sono stati i momenti di incontro con il filosofo dei media di origine boema.
Le risposte lasciano pochi dubbi sul fatto che, al di là di un incontro occasionale e di sporadici contatti, non vi è stato un effettivo dialogo tra i due; ne consegue che la vicinanza di alcune posizioni deve essere spiegata in altro modo. Senza voler chiudere la porta ad altre ipotesi (in proposito la filologia comparata potrebbe offrire interessanti risposte), sono propenso ad attribuire un peso decisivo alla straordinaria abilità, comune ad entrambi, di entrare in contatto con lo spirito del proprio tempo e, nello specifico, di interpretare i segnali disseminati ovunque dall’inarrestabile avanzamento tecnologico.
Derrick de Kerckhove, René Berger e Mario Costa ad Artmedia IV (1992)
Quando ha conosciuto Vilém Flusser e quali sono stati i suoi rapporti con il filosofo dei media di origine boema?
Ho conosciuto Flusser nel 1988. Lavoravo allora alla realizzazione, per il DSE (Dipartimento Scuola Educazione) della RAI, di un programma televisivo in tre puntate (Un’estetica per i media, andato in onda su RAI 3 tra febbraio e marzo del 1989). Flusser, che non so come e perché si trovava a Napoli in quel periodo, mi fu segnalato da Fred Forest. Egli seguiva a Parigi il suo lavoro (“Devo confessare che sono impegnato nella ricerca di Forest. C’è un dialogo tra noi”) e aveva scritto su di lui nel 1973 e nel 1975, per poi dedicargli un lungo saggio nel 1977 (L’art sociologique et la vidéo à travers la démarche de Fred Forest). Flusser era dunque sistematicamente informato da Fred, con documenti di vario tipo, su quanto, di teorico e di dimostrativo, io e lui andavamo facendo dall’ottobre del 1983, per edificare una estetica della comunicazione. Invitai così Flusser a partecipare al programma e, mentre un taxi conduceva me e lui alla sede della RAI, arrivammo, dopo qualche scambio di idee, ad un immediato quanto generico accordo sulla portata antropologica ed epocale di quanto stava avvenendo. Flusser partecipò alla trasmissione ripetendo sostanzialmente quello che aveva detto in macchina, mentre io, ovviamente, ebbi modo di esprimere meglio le mie idee sulla comunicazione tecnologica.
È stato quello l’unico mio incontro con Flusser. Forest mi ha qualche volta riferito della sua fama crescente, ma devo confessare che non ho letto nessuno dei suoi libri e che nel risponderle mi baso soltanto su quanto lei riferisce.
Nel 1982 Flusser ha preso parte a una manifestazione (The International Video Exhibit) che si è tenuta a Salerno. In questa occasione ha presentato un paper dal titolo Toward a theory of video, nel quale ha sottolineato il carattere eminentemente politico del video, una potenzialità pienamente realizzata oggi grazie a quelle che Castells definisce reti di “autocomunicazione di massa”. Flusser, in particolare, scrive che il video è uno strumento per riflettere insieme ad altri sul mondo e la posizione degli esseri umani in esso, dunque uno strumento dialogico che si apre alla possibilità di riflessioni intersoggettive. Ha ricordi di questo intervento?
Non so nulla di questa manifestazione salernitana. Nel 1979, all’interno di un gruppo di ricerca su quella che era stata l’attività artistica napoletana tra gli anni 50-80, gruppo coordinato da Filiberto Menna (progetto Napoli 50-80), avevo indicato nella “immagine video” il mio settore di analisi. Nel 1981, verificata la povertà della situazione locale, volli presentare a Napoli una grande rassegna internazionale di video e mi impegnai nella sua realizzazione. La mostra ebbe luogo, col supporto della RAI TV, nel novembre del 1982 (Differenza Video, 15-19 novembre 1982).
Per quello che lei mi dice del testo di Flusser, che non conosco, devo ritenere che la sua concezione del video, forse ancora troppo suggestionata dall’“arte sociologica” e, a quanto sembra, ancora troppo umanocentrica e trionfalistica (come, d’altronde, tutto il successivo teorizzare di Castells che lei cita), dunque molto diversa dalla mia. Nel catalogo della mostra sopra indicata introducevo per la prima volta quel concetto della assoluta autonomia delle nuove immagini tecnologiche, sul quale avrei tanto lavorato in seguito: “ La video arte – dicevo – è il segno premonitore di una irreversibile rivoluzione nella storia dell’immagine e dell’immaginario. Con essa il regime stesso dell’immaginario è sconvolto […] l’immagine della video arte non penetra più nel soggetto ma ne resta fuori e vive come una epifania ritratta in sé. La simbiosi immagine/immaginario è rotta per sempre”. E qualche anno prima avevo scritto: “la tecnologia deve essere considerata come un essere indipendente dal soggetto e costitutivo del soggetto stesso […] capace di per sé di riconfigurare ogni organizzazione antropologica” (Mutamento sociale e procedure educative, Salerno 1979). Non credo che fosse questa l’idea che Flusser si era fatto dell’immagine tecnologica. In quanto a Castells il mio disaccordo con lui è totale perché io credo che la sua “autocomunicazione di massa” sia in realtà una auto comunicazione della Rete che si serve della massa per metterla in opera e mandarla ad effetto.
Il suo accenno a Castells meriterebbe uno specifico approfondimento, ma preferisco soffermarmi su un altro aspetto: esistono alcuni rilevanti punti di contatto tra il suo pensiero e quello di Flusser, ad esempio lei suddivide le epoche tecnologiche in epoca della mano, del familiarismo tecnologico e delle neo-tecnologie, mentre il filosofo dei media nato a Praga individua quattro fasi o momenti: mani, utensili, macchinari e apparati. Entrambi associate a ciascuna di tali fasi uno specifico tipo di essere umano, leggete dunque il passaggio da una fase all’altra come autentica rivoluzione antropologica. Si tratta di concezioni che si sono sviluppate in parallela autonomia oppure ci sono stati momenti di dialogo, esplicito o implicito, tra voi?
Per quanto mi riguarda non c’è stato tra noi alcun dialogo, né esplicito né implicito. Quelle della discontinuità tra le diverse epoche della tecnica e del carattere antropologicamente fondativo di ciascuna di esse, sono state idee che hanno segnato e accompagnato tutta la mia riflessione, fin dall’inizio. Mi sono, fino ad ora, soprattutto impegnato a definire l’antropologia dell’epoca neo-tecnologica e comunicazionale, perché è quella che stiamo vivendo, ma alle altre epoche e a queste questioni è dedicato tutto il mio prossimo libro. Per tornare all’antropologia del presente, in un convegno alla Sorbona del 1986 così la individuavo e definivo: “un tipo di esperienza caratterizzata dal controllo dell’immateriale e dell’energia pura […] superamento della opposizione uomo/tecnologia in vista di una sorta di legame simbiotico grazie al quale i due elementi risultino interdipendenti e indistinti […] profonda trasformazione dello spazio-tempo […] le dimensioni del tempo sembrano tutte risolversi nel presente e quelle dello spazio espandersi fino alla perdita del luogo: il nuovo spazio-tempo diventa così un presente-universale o un non-luogo-del-presente […] profonda trasformazione della memoria. La differenza bergsoniana tra materia e memoria viene meno […] profonda trasformazione del soggetto […] il soggetto perde il suo “involucro” e diventa campo di transito di correnti di energia […] vivo sentimento di una nuova unità della specie umana […] identità antropologica della specie nella sua totalità” (Esthétique de la communication et perspective anthropologique, Parigi 1986). E già nel gennaio dello stesso 1986, in uno dei princìpi dell’estetica della comunicazione, avevo richiamato l’attenzione sulle trasformazioni della presenza quale nuovo elemento antropologico indotto dalle neo-tecnologie della comunicazione: “L’evento dell’estetica della comunicazione consiste in un allargamento o sconfinamento della presenza. La presenza dell’estetica della comunicazione , puramente qualitativa […] è come la ʻpraesentia definitiva’ della filosofia scolastica per la quale una cosa è tutta nella totalità dello spazio che occupa e tutta anche in ciascuna parte di questa totalità” (News and Notes, Salerno 1986).
È appena da notare che, nello stesso convegno, Jean-François Lyotard, evidentemente edotto delle teorie dell’estetica della comunicazione, già ben note in Francia, concludeva così la sua Introduzione: “La domanda che ci viene posta dalle nuove tecnologie […] è quella del qui ed ora. Che cosa indica “qui” quando si è al telefono o alla televisione o al telescopio elettronico? E l’“ora”? La componente “tele” non confonde forse necessariamente la “presenza”, il “qui-ora” delle forme e della loro ricezione “carnale”? Che cos’è un luogo, un momento, che non sia radicato nel “sentire” immediato di quello che accade? E un computer è in qualche modo qui ed ora?” (News and Notes, Salerno 1986). Ed erano queste, si badi, le domande dalle quali l’estetica della comunicazione aveva preso le mosse alcuni anni primi.
Un altro passaggio che mi sembra importante è il seguente: Flusser si riferisce ad un procedere delle cose “automaticamente da se stesse” e, proprio sulla base di tale presupposto, marca in maniera netta la sua distanza dalla tradizione della Scuola di Francoforte o da tutte quelle letture che scorgono poteri e forze oscure dietro gli strumenti tecnologici. Lei invece si riferisce esplicitamente a una “necessità iscritta nell’ordine delle cose” e a uno stadio nel quale le tecnologie giungono alla costituzione di blocchi autonomi dall’essere umano. In entrambi i percorsi mi sembra che l’approdo sia l’assegnazione di un ruolo del tutto marginale all’essere umano, quello di far funzionare ciò che lei definisce “blocchi neo-tecnologici”, mentre Flusser scrive che l’essere umano diviene “funzionario di apparati che funzionano in sua [dell’essere umano] funzione”. È corretta la mia lettura?
Credo sia corretta. Non so come Flusser sia pervenuto ad una tale conclusione, né fino a che punto essa coincida veramente con la mia. Posso dirle però che in me essa matura, oltre che dalla mia personale riflessione sulle cose della vita, dall’aver assimilato la lezione profonda che ci viene dall’Etica di Spinoza e dalle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel. Per la sua applicazione all’arte e all’estetica hanno giocato poi un ruolo decisivo lavori come Vita delle forme di Henri Focillon del 1934, e La forma del tempo di George Kubler del 1962. La marginalità dell’uomo e delle sue intenzioni è così ora doppiamente provata e verificabile: da un lato l’uomo è marginale nei confronti della storia e della eterogeneità dei suoi fini, cioè dal fatto che la storia procede per conto proprio e non secondo le intenzioni dirigistiche dell’uomo, d’altra parte dallo stato attuale della tecnica che assegna all’uomo niente altro che il compito di farla funzionare. Rispetto a quest’ultimo punto credo che effettivamente Flusser ed io diciamo la stessa cosa.
Woody Vasulka & Brian O’Reilly
Lei ha sostenuto che la fotografia non ha nulla a che fare con alcun referente (soggetto, oggetto ecc.) in quanto la fotografia è da sempre “messa in forma”, al punto che oggi – in forza dei più recenti sviluppi tecnologici – abbiamo a che fare con forme generate automaticamente da macchine, “memorie di macchine con la loro multiforme fisiologia”. Anche qui mi sembra che si possano individuare interessanti punti di contatto con il pensiero di Flusser che, per suo conto, privilegia sempre l’aspetto concettuale rispetto a quello visuale: egli infatti più che considerare la fotografia lo sviluppo di precedenti forme simboliche (il quadro, la finestra albertiana ecc.) la ritiene soprattutto una forma di memoria che, nelle intenzioni umane, è prodotta per opporsi alla tendenza naturale dell’universo al decadimento delle informazioni, dunque all’entropia e alla morte. Nella concezione antirappresentativa di Flusser le “immagini tecniche” (le immagini prodotte grazie all’impiego di apparati, tra cui la fotografia) non rappresentano il mondo là fuori, come prima le immagini tradizionali, ma significano concetti (dunque presuppongono teorie e testi scientifici), si tratta in pratica di modelli ovvero di immagini del concetto di una scena. Come è possibile interpretare in senso estetico tale prospettiva flusseriana?
Stando a quanto lei dice e se lo interpreto bene, mi trovo d’accordo con Flusser soltanto sul fatto che la fotografia non ha nulla a che fare con tutte le immagini precedenti. Ho definito una volta la fotografia come “la prima macchina che sogna”, e i sogni di una macchina possono essere paragonati soltanto ai sogni di altre macchine. Questa storia della fotografia come strumento per opporsi alla morte è stata ripetuta mille volte ma la trovo poco interessante: nell’universo tutto muore ma solo l’uomo sa di morire; la fotografia in sé, che è quella che mi interessa, non sa nulla della morte e va lasciata tranquilla. Anche l’entropia non vedo come c’entri; la fotografia è una cosa, una cosa tecnologica ma una cosa, una semplice cosa del mondo e come tutte le cose decade e si consuma. Che la fotografia sia poi la messa in opera di concetti è, a mio avviso, del tutto errato: nella fotografia il concetto, la logica, l’intelletto, non c’entrano nulla. Nella fotografia è la materia stessa che ricorda, i sali d’argento e la luce, essa non ha bisogno di altro e tutto ciò che è mentale ne resta escluso. È invece l’immagine sintetica che vale come la messa in opera di un intelletto che esce fuori di sé e si dà a vedere. Per tutto questo, ripeto, basandomi solo su quanto lei dice, credo che la concezione che Flusser ha della fotografia e quella mia divergano profondamente.
Prendo atto dell’inconciliabilità delle vostre concezioni della fotografia, tuttavia è sorprendente come muovendo da premesse tanto lontane entrambi avvertiate l’urgenza di aprire brecce nel dominio tecnologico e di recuperare spazi di autonomia per gli esseri umani. In Dimenticare l’arte, lei scrive che per impedire al flusso comunicazionale di configurarsi come “blocco comunicante” è necessario scomparire come emittenti (in un rapporto diretto tra essere umano e i media la logica dei media finirebbe, infatti, per avere sempre la meglio) e bisogna far sì che i media instaurino tra loro rapporti “non pertinenti”, ossia bisogna porli in contraddizione e farli funzionare in maniera incongruente. Aggiunge inoltre che la comunicazione alla quale i media daranno vita deve essere “vuota, tautologica e autoreferenziale”, le macchine devono dunque essere impegnate in un puro scambio di segni senza che possano riuscire a sottomettere la propria interazione a un’intenzione di significato. Far funzionare i media in maniera incongruente è, in un certo senso, la strategia che anche Flusser individua: muovendo dalla premessa che siamo di fronte a apparecchi senza intenzione (umana), che funzionano automaticamente al solo scopo di conservare e migliorare se stessi, il filosofo dei media afferma che è possibile sorprendere con astuzia il programma di un apparato, ad esempio di una macchina fotografica (dunque di un apparato ormai completamente automatizzato), e costringerlo a fare qualcosa per cui non era stato costruito. Flusser attribuisce in particolare agli artisti questa responsabilità – condivide tale ultima affermazione?
Certo che la condivido, è da trent’anni che, proprio per questo motivo, ho a che fare con gli artisti e che li sollecito a procedere in tal senso ma, devo dire, è estremamente difficile pretendere da loro quel “ritrarsi” di cui lei parla e che io ritengo necessario. Per fortuna però molti vanno al di là di quello che dicono e credono di fare, temo però che la concezione di Flusser non corrisponda perfettamente alla mia. Sento, in quello che dice, un certo trionfalismo umanistico da “arte sociologica”; lo sforzo da fare, a mio avviso, è proprio quello di passare dall’“arte sociologica”, che ha svolto e concluso la sua funzione, alla “estetica della comunicazione” e, più ancora, al “sublime tecnologico”, il che significa sostituire all’“astuzia” il “lasciar-essere”. Il compito che io mi sento di attribuire agli artisti è quello di lasciar-essere la tecnologia nelle forme dell’estetico. Se questo significa “recuperare spazi di autonomia per gli esseri umani”, è cosa che, al momento, nessuno può sapere.
Un’ultima domanda: le sue opere condividono con quelle di Flusser un destino simile, quello di non aver ricevuto in Italia i riconoscimenti che avrebbero meritato. Flusser rappresenta un’autentica anomalia perché da noi è molto poco conosciuto, e ancor meno studiato, mentre costituisce uno tra i principali riferimenti (forse il principale insieme a Friedrich Kittler) per la teoria dei media di lingua tedesca ed è considerato un “autore di culto” in ambito anglosassone (per tacere della sua enorme popolarità in Brasile). Quanto a lei, nonostante alcuni doverosi riconoscimenti in ambito accademico, mi sembra di poter dire che non tutti hanno sottolineato adeguatamente quanto la sua sia stata la prospettiva estetologica di gran lunga più interessante prodotta in Italia a partire dagli anni Settanta. Altre concezioni, decisamente meno attuali e delle quali nessuno ricorda più nulla, sono state a lungo celebrate dai media e dalle istituzioni culturali nostrane. Secondo lei la causa è da individuare nell’ipoteca rappresentata dalla tradizione crociana? O forse le difficoltà ad aprirsi ad un’estetica della comunicazione sono da considerare intrinseche, quasi fisiologiche, per un paese la cui spaventosa arretratezza tecnologica (a tutti i livelli: culturale, politico e sociale) rappresenta a tutt’oggi uno tra i principali freni al suo sviluppo?
Lei nobilita e sopravvaluta di molto la cultura italiana credendo che in essa possa esserci ancora qualcosa come una tradizione da mantenere o una qualunque normale fisiologia. L’Italia è tutta una anomalia e la cultura italiana lo è più di ogni altra cosa. Dell’università è noto il degrado provocato dai sistemi nepotistici e amicali di arruolamento dei docenti: le cosiddette “comunità scientifiche”, quando ci sono, servono a spartirsi la cattedre e non a riconoscere i talenti; i professori adoperano i loro fondi di ricerca per finanziarsi le loro, quasi sempre mediocri, pubblicazioni; i laureati più meritevoli ma privi di padrini sanno di dover andar via dal nostro paese per essere riconosciuti. Il successo non ha nulla a che fare con la qualità di quello che si produce ed è una questione del tutto personale dovuta alle strategie messe in campo, alla capacità di penetrazione nei media e alle amicizie di cui si dispone. Un paese è capace di suscitare, riconoscere e mantenere i propri talenti soltanto se vive in esso un forte orgoglio nazionale, e l’Italia, già paese delle torri e dei campanili, è ora il paese dei condomini e dei pianerottoli. Una cosa mi sorprende in quello che dice: in Brasile, per l’attenzione che le traduzioni dei miei lavori hanno ricevuto, credo di essere altrettanto noto quanto Flusser, eppure nessuno, a quanto io sappia, ha rilevato, come lei fa, la somiglianza tra i nostri punti vista; il fatto che, come sembra, essa ci sia è allora, per me, motivo di conforto e di soddisfazione.