Mary E. Wilkins Freeman / Storie di spettri
Nel suo libro del 1976 Literary Women, Ellen Moers fu la prima a definire quella peculiare forma di letteratura gotica scritta da donne che chiamò “female gothic”. Il female gothic (ridefinitosi poi nella doppia accezione di scritto da autrici e con protagoniste femminili) è uno spazio di emersione di tutta una serie di repressi e di ansie specifiche della condizione della donna a cavallo di Settecento e Ottocento – legate alla sessualità, alla maternità, e al ruolo della donna nella società. Questa definizione si adatta bene, se non cronologicamente almeno tematicamente, anche alle Storie di spettri di Mary E. Wilkins Freeman, recentemente raccolte in un agile ma ricco volume da Fanucci.
Wilkins Freeman non è un’autrice particolarmente nota in Italia: i suoi racconti sono comparsi in varie antologie (tra cui le mitologiche Storie di vampiri e Storie di fantasmi curate da Gianni Pilo e Sebastiano Fusco per Newton Compton), ma sono solo una parte tutto sommato poco consistente di una produzione pluridecennale che conta dozzine di romanzi e di volumi di storie brevi. Nata nel 1852 e morta nel 1930, vissuta tutta la vita in New England, Wilkins Freeman è una rappresentante illustre del maturo gotico americano, seguendo il modello di Nathaniel Hawthorne, con cui condivide l’ambientazione dei racconti; e in quanto tale verrà anche lodata da Howard Phillips Lovecraft nel suo Supernatural Horror in Literature. Le storie raccolte nel volume vanno dal 1883 al 1918, e sono ordinate tematicamente invece che cronologicamente.
Come nota Oriana Palusci nel bel saggio introduttivo, le protagoniste di questi racconti sono tutte, in varia misura, donne sole, relegate ai margini della società: zitelle, vedove, orfane; le poche volte in cui compaiono, gli uomini rappresentano invece un elemento di prevaricazione o di minaccia, come il violento fratello maggiore in Le ombre sulla parete. Le donne di Wilkins Freeman sono sole e vivono in condizione precaria, al margine della società del New England, costrette a lavorare duramente e ad arrabattarsi per mantenere una facciata di rispettabilità borghese e non scendere di classe sociale, come la maestra elementare di La storia della maestra, l’affittacamere di La stanza in fondo al corridoio o le sarte di Una melodia lontana.
Non è un caso che le apparizioni dei fantasmi, creature liminali per definizione, si verifichino proprio per personaggi dallo statuto sociale così fragile: gli spettri, con la loro dimensione esistenziale ambigua, a metà tra la vita e la morte, sono uno specchio delle protagoniste. Questo succede, per esempio, in La storia della maestra, dove c’è sì lo spettro di una bambina, ma è anche la protagonista stessa, con la sua vita sbiadita, ripetitiva e priva di gioie, a essere ridotta a fantasma:
Sono stata un’insegnante per quarantaquattro anni. […] In questi quarantaquattro anni mi sono privata di tutti i dolci piaceri dell’esistenza, mettendo da parte il più possibile al fine di produrre una sorta di miele insapore ma nutriente per la vecchiaia. […] Guardandomi indietro, non ricordo altri acquisti dispendiosi se non per quei vestiti di quando credevo di dovermi sposare, a trentacinque anni. Non ho mai comprato caramelle, tranne qualche pasticca per la tosse quando avevo il raffreddore. Non ho mai comprato nemmeno un nastro o una spilla. Ho sempre indossato il vecchio fermaglio di mia madre, nonostante fosse ormai fuori moda e le altre ragazze portassero fermacapelli dorati o in corallo o a forma di cammeo. Mia madre è morta quando avevo quattordici anni; mio padre, quando ne avevo sedici; poi ho iniziato a insegnare. Mio padre non mi ha lasciato nulla (pp. 65-66).
I fantasmi, poi, come insegna anche il contemporaneo Henry James, sono sempre anche fantasmi di qualcosa, oltre che di se stessi; e non è un caso, per esempio, che in questo racconto una donna sola, in posizione economica precaria e costretta a provvedere autonomamente al proprio sostentamento (quando invece la norma della società e della classe cui appartiene la vedrebbe sposata e mantenuta da un marito), si veda apparire proprio lo spettro di una bambina, ad evocare una maternità e una normalità mancate.
Quel che si è detto delle protagoniste vale anche per la descrizione di ambienti. Wilkins Freeman è una scrittrice realistica, e nelle sue pagine non troveremo castelli ombrosi o segrete misteriose, bensì case normali, anguste, popolate delle cose di tutti i giorni; e tuttavia è proprio questa attenzione per la malinconia degli ambienti e per le povere minutaglie del quotidiano a fare sì che i vivi, nei racconti di Wilkins Freeman, non siano poi così tanto dissimili dai morti. La casa di Miss Munson in Una sinfonia color lavanda, per esempio, è sospesa in un clima purgatoriale:
Nell’insieme, credo di non aver mai trascorso un pomeriggio più piacevole in vita mia, per quanto di una piacevolezza tranquilla e monotona. Tutto era pervaso da un’atmosfera di estrema grazia e benessere; Miss Munson stessa, la stanza, il giardino che si vedeva dalle finestre incassate nelle alte, spesse mura. Non c’era nessuna tinta vivace in quel salotto; su ogni cosa si era posato il tocco sbiadito del tempo. Il tappeto aveva perso tutto il suo splendore. Sul pavimento si allungavano delle grandi figure scure, conferendogli, con le loro linee indistinte, ulteriore raffinatezza. La vernice dei mobili in mogano era ormai troppo opaca per poter riflettere la luce. La carta da parati non brillava più, e alcune vecchie incisioni appese alle pareti erano coperte da uno strato semitrasparente che sembrava nebbia. (pp. 159-160).
Miss Munson, vale la pena di dirlo, è di nuovo una donna sola, che ha rifiutato il matrimonio perché un sogno premonitore le aveva rivelato come moralmente ripugnante l’uomo di cui era invaghita.
Tra la condizione dei personaggi femminili e le apparizioni spettrali, del resto, la connessione è invocata esplicitamente quando alla protagonista di La storia della maestra che afferma di aver visto uno spettro viene chiesto se non sia per caso isterica – vocabolo etimologicamente rivelatore (viene in mente qui il lavoro della più grande scrittrice gotica dello scorso secolo, Shirley Jackson: nel suo The Haunting of Hill House, la protagonista Eleanor pare entrare in sintonia con, o addirittura materializzare, i poltergeist della casa dalla frustrazione della sua vita familiare, o meglio dalla sua mancanza). Non è un caso, in effetti, che i tre racconti in coda al volume siano ambientati a Salem: un modo certo per richiamare l’influenza di Hawthorne, il padrino del gotico americano, ma anche di riflettere sull’ingiustizia della condizione femminile a partire da uno degli eventi più traumatici in questo senso della storia americana.
Accanto a queste storie di spettri, troviamo anche altre incursioni in territori meno usuali. Il bracciale di giada, per esempio, ruota intorno a un monile maledetto di origini cinesi – in linea con la xenofobia e l’ansia di contaminazione tipica, oltreoceano, del gotico vittoriano. La stanza in fondo al corridoio, invece, è un racconto sorprendentemente weird, giocato sul limite tra allucinazione e orrori innominabili, in cui un dipinto pare farsi portale per un altro mondo.
Anche in Il prisma troviamo una forma diversa di soprannaturale, la visione delle fate, che, rispetto a un classico weird come The White People di Arthur Machen, non sono minacciose, ma sono semmai una metafora dell’innocenza dell’adolescenza – che finisce, neanche a dirlo, con il matrimonio. Quando la protagonista si sposa, infatti, il prisma attraverso cui vede le fate cessa di funzionare, in una chiara metafora del passaggio dalle gioie dell’adolescenza alla servitù del matrimonio: “A volte, guardando fuori da una delle finestre a ovest, vedeva dall’altra parte del campo lo stagno che, simile a un occhio rivelatore, rifletteva la luce del sole al tramonto; allora si ricordava della chiave di quel bagliore perduto e dello smarrito misticismo della sua stessa esistenza, entrambi sepolti lì accanto [insieme al caleidoscopio con cui vedeva le fate]. Poi, felice, andava a preparare la cena per il marito” (p. 141).
I capolavori di questa raccolta sono probabilmente i due racconti di apertura, Luella Miller e Il vento nel cespuglio di rose. Luella Miller è una protagonista insolita per i racconti di Wilkins Freeman: una giovane bella donna a cui nessuno resiste; ma chiunque la avvicini deperisce e muore molto rapidamente. Si tratta, è chiaro, di una storia di vampiri, anche se metaforici. Quello che è interessante, però, è che la protagonista è leggibile tanto come una figura vampiresca quanto come una giovane donna la cui bellezza e una serie di sfortunati eventi fanno cadere vittima del pregiudizio dei suoi concittadini: e infatti Luella viene lasciata morire sola, malata, e senza nessuno a prendersi cura di lei. La sua storia è raccontata da una vecchia decine di anni dopo, e, benché la narratrice la identifichi come una vecchia saggia, è lecito pensare che dietro la sua animosità contro Luella ci sia una certa dose di invidia.
Il vento tra il cespuglio di rose è invece, di nuovo, una storia di fantasmi, ma la cui costruzione narrativa, fondata su lunghe dilazioni, su presentimenti, e su un continuo rimando dello svelamento finale, lascia col fiato sospeso. Una donna, Rebecca, compie un lungo viaggio per andare a recuperare la nipote. Figlia di sua sorella, deceduta prematuramente come il marito, la ragazza vive con la seconda moglie di lui. Una volta arrivata, tuttavia, a casa c’è solo la cognata, che continua a trovare scuse per il ritardo della figlia adottiva: Rebecca passerà lì diversi giorni, costellati di eventi misteriosi, finché una lettera non la costringerà a rientrare con urgenza. Circa la rivelazione finale non possiamo dire niente per non guastare la lettura; quello che vale la pena di notare, però, è che anche questa articolata storia di fantasmi nasconde, in realtà, l’ansia per una maternità mancata. La protagonista è, di nuovo, una donna povera di mezzi a cui le circostanze della vita hanno impedito non solo di avere una famiglia, ma anche di prendersi cura della figlia della sorella; ed è solo quando eredita una somma consistente che si affretta, senza nemmeno avvertire, a recuperare la nipote. L’ansia che si respira nelle pagine di Il vento tra il cespuglio di rose è certo quella di un evento soprannaturale, ma anche quella della corsa contro il tempo di una donna per ottenere qualcosa che la vita le aveva finora negato.
I racconti di Wilkins Freeman, come le migliori storie di fantasmi, si somigliano tra loro; il repertorio di protagonisti, ambienti e intrecci è tutto sommato contenuto. Questo però non li rende meno gradevoli: al contrario, è proprio quello che permette di prestare maggiore attenzione ai dettagli ricorrenti coi quali l’autrice cesella le sue storie. Non solo Storie di spettri non è uno di quei libri che si leggono, come si dice, tutti d’un fiato, ma farlo sarebbe pure controproducente: il miglior modo di leggere questo libro, semmai, è di tenerlo sul comodino e concedersi uno o due racconti prima di dormire – scolorare come le protagoniste e le loro case, e scivolare un poco per volta nel sonno.